Angela Marranca, Separarsi

Barbara Mapelli


Non si può negare una particolare emozione, e timore, nell’avvicinarsi a questo testo, perché l’esperienza della separazione riguarda tutti e tutte ed è dolorosa, faticosa da affrontare, da accettare per non correre i pericoli che comporta continuare a evitarla.

Quando si legge un libro che si reputa interessante, come è successo a me in questo caso, il lettore o la lettrice non è spettatore o spettatrice passiva di pensieri altrui o di emozioni altrui, ma si mette in gioco, accosta la propria vita e la intreccia con quel che trova scritto, è dentro il mondo che si dipana davanti ai suoi occhi, non una critica esterna. Questo vale per la saggistica e per la letteratura, non si prova interesse reale per un testo se non lo si tradisce un po’ o molto, secondo i casi, se non lo si impersona andando anche oltre o altrove rispetto alle intenzioni dell’autore o dell’autrice.

Il mio tradire, impersonare e temere anche questo testo nasce dalle tante mie personali esperienze e in particolare da quella che sto ora vivendo, anche se non del tutto direttamente. Da meno di due anni è nata la mia nipotina e osservo la fatica che fanno i suoi genitori davanti alle prime prove di separazione – la fine dell’allattamento, l’inserimento nell’asilo nido, ma più in generale quel misto di stupore ma anche rimpianto per il formarsi di un’individualità che inevitabilmente diventa persona e si allontana dalla fusionalità genitoriale – e ricordo quando mio figlio era piccolo e poi via via è cresciuto e io avevo pensato – pensiero che mi appare ovvio ora, ma che allora mi era costato molto – che l’esperienza della maternità, della genitorialità  è una continua e progressiva esperienza di separazione, cui si arriva, pur avendone sentito parlare, sostanzialmente impreparate e impreparati.

La lettura di questo libro mi ha colto dunque proprio nel momento in cui riflettevo sui medesimi temi e in qualche modo mi ha aiutato a chiarirmi, ma mi ha anche aperto a memorie di separazioni e perdite, più o meno elaborate e comunque mai superate come – e qui Angela è molto precisa – è giusto che avvenga.

Ripercorro allora alcune parti di questo testo, breve e denso, semplice nel linguaggio e nella scelta di molti esempi, non solo clinici o teorici ma anche letterari, ma che non concede nulla all’approssimazione, sceglie sempre il rigore che solo il continuo rifarsi all’esperienza e ai vissuti, propri e altrui, consente e impone.
La separazione, una separazione, scrive Angela, porta con sé sempre una trasformazione e se se ne sa cogliere l’occasione come momento di conoscenza di sé, ci consente di sviluppare in noi la consapevolezza del divenire, permette di ritrovarsi e riconoscere la propria esistenza nella sua irriducibile unicità.
Molte volte e ancora ora, dopo una lunga vita, questo pensiero del mio personale divenire, mutare, essere nel tempo un’altra persona mi stupisce e riconosco, sto imparando a riconoscere, il valore delle esperienze che mi insegnano di me, che mi consentono di prendermi cura di me. Mi autorizzano a un prendersi cura che le donne solitamente sono educate a concedersi poco e che non è certo una chiusura sul proprio dolore, ma anzi un riconoscimento al dato, sempre un po’stupefacente, che non ci si conosce mai del tutto, che le prove della vita ci portano a lambire quel territorio, sempre misterioso, che abita nel profondo della nostra interiorità, che siamo noi, ma che trascuriamo normalmente. Lambire significa non solo avvicinarsi ma anche riconoscere che resta comunque un territorio sconosciuto che può riservarci sorprese. Nuova a me stessa mi sono ritrovata alcune volte nella vita e quando sono riuscita a non chiudere troppo in fretta il sipario su luoghi di me che mi potevano sembrare anche inquietanti, sono stata premiata con il sentimento di una libertà – e Angela ne parla a più riprese nel suo testo – che mi poteva venire anche da una perdita, ma che mi apriva appunto sipari nuovi, possibilità di vita e di pensiero sulla vita. Quella moltiplicazione del vivere che è il saper elaborare pensiero sui propri vissuti. Vivencia in spagnolo.

Proseguo la riflessione sul libro con un andamento un po’ frammentario, ma che rispecchia gli stimoli che via via il testo mi ha suggerito, su cose già pensate o solo confusamente intuite.
Sempre in riferimento all’esperienza di nonnità che sto vivendo e che è senz’altro dominante ora rispetto a ogni altro sentimento, ho letto con piacere e condivisione le osservazioni sulla relazione coi figli e le figlie di queste nuove generazioni, che sono le generazioni, per chi ha la mia età, dei nostri figli e figlie.

I nuovi miti e retoriche della maternità, che si insinuano pericolosamente nell’interiorità delle giovani donne, creando l’immagine della madre perfetta e facendo sentire colpevoli coloro che non possono in alcun modo essere perfette. Scrive Angela che questa mitizzazione – e i motivi nella contemporaneità sono complessi ma non incomprensibili – copre le ambivalenze della maternità, che sono le ambivalenze che ogni donna vive tra la norma del prenditi cura di..  e i desideri, legittimi, di sé e della propria libertà. Coprire le ambivalenze significa annegarle nei sensi di colpa e non rilevarle come qualità, anche positive, di una nuova condizione di vita in cui necessaria è anche una flessibilità che l’ambivalenza, la capacità di stare in un luogo ma  di essere e stare anche altrove, può offrire come dono alle difficoltà delle donne oggi.
E poi le nuove, fragili paternità, sempre a rischio di rinascenti e innovati stereotipi, le difficoltà maschili ad essere e ispirarsi a modelli positivi del proprio sesso. Figure di riferimento per crescite più equilibrate.

Entra il testo di Angela nel mondo complesso, contraddittorio delle relazioni, di tutte le relazioni che comportano un investimento emotivo e  ne analizza le valenze, le insidie e le potenzialità di accedere a migliore conoscenza di sé e a una visione del proprio essere nel mondo più pacificato. Mi sono ritrovata in molto di quanto ho letto e le qualità di queste relazioni con gli altri e le altre, necessarie e innegabili, che io altrove ho chiamato virtù, vivono anch’esse sotto il segno dell’ambivalenza che ne è caratteristica propria e fondativa. Ne cito alcune che ho ritrovato nel testo: la dipendenza, innegabile modalità del vivere insieme che è virtù se potenzia l’essere della persona ma può divenire vincolo che annulla il sé; la distanza che non può essere distacco ma occorre preservi il luogo della necessaria solitudine in cui ciascuno e ciascuna elabora il senso del proprio vivere nel mondo ed elabora il significato delle esperienze che ha vissuto nel contatto con gli altri e le altre. Ma anche il tradimento che può divenire virtù quando induce a pensiero su di sé, a trasformazione e non annichilisce in un dolore che esclude ogni possibile riflessività. La separazione e la solitudine, accettate come condizione del vivere possono essere anche loro movimenti positivi, acquisizione di nuove libertà qualora non si fermino alla sofferenza che non comunica di sé se non un dolore che blocca ogni possibilità di cambiamento. Anche il lutto per una perdita irreparabile può divenire percorso nuovo, che non elide la sofferenza, ma la trasforma in nuovo pensiero di sé.

Mi fermo e termino con alcune osservazioni che Angela fa sulla solitudine. E’ una novità – e positiva – per le donne la possibilità di essere sole senza che il giudizio sociale stigmatizzi la loro solitudine come una sconfitta, una riduzione a soggetto minore.
Una solitudine, scrive l’autrice, in cui l’altro non scompare ma fa da sfondo e la figura è rappresentata dal soggetto che si interroga su sé stesso, che ha bisogno di riconoscersi un’interiorità, che si osserva come oggetto di conoscenza e di cura.
Per le donne appunto una vita da singola può divenire, un percorso di cambiamento, una nuova creatività che può sfociare in una relazione diversa e appagante o in una vita da singola  che non comporti isolamento, senso di abbandono e sfiducia in se stesse.

Infine la solitudine che sopravviene dopo una perdita vive anch’essa sentimenti ambivalenti, che si può imparare a riconoscere e a rispettare in sé, senza colpevolizzarsi. L’ambivalenza insegna che quando scompare una persona cara una parte di noi senz’altro scompare con essa, ma anche che questo può aprire nuovi spazi di libertà e di cambiamento, che vanno percorsi e accettati, come la persona nuova che anche un grande dolore porta a nuova nascita.
La perdita o la separazione da un altro soggetto, anche centrale nella nostra vita ci insegna – e qui penso a quanto scrivono Manuela Fraire e Rossana Rossanda nel testo La perdita a cura di Lea Melandri – che noi viviamo e siamo nello sguardo dell’altro o altra, ma che possiamo continuare a vivere anche senza, e questo è un incontro con la nostra solitudine, ma anche un ulteriore processo di consapevolezza e crescita della nostra soggettività.

 

Angela Marranca, Separarsi,
Unicopli, Milano, 2012, euro 14


2-03-2013

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