CORPI INVISIBILI IN EDUCAZIONE

di Barbara Mapelli

Procedo nelle mie riflessioni per punti, che desidero offrire alla discussione tra noi.

Ivano Gamelli ha situato alla fine degli anni Sessanta-inizio anni Settanta un momento significativo per l’educazione, durante il quale, attraverso i movimenti antiautoritari, si è aperto anche un discorso sul corpo e in particolare sul corpo in educazione. Leggo a questo proposito alcuni brani scritti da Lea Melandri nel 1972-3, straordinariamente profetici di ciò che l’educazione, la scuola non facevano, e non hanno neppure in seguito fatto perché i corpi entrassero, con le loro pulsioni vitali, nelle classi (L’erba voglio. Il desiderio dissidente, a cura di Lea Melandri, Baldini e Castoldi, Milano 1998).

Da quegli anni in poi inizia la mia esperienza diretta di scuola, come insegnante, come progettista e formatrice, supporto ‘tecnico’, come si diceva, anche a quella parte di politica, che tentava di introdurre l’educazione sessuale nelle scuole.

L’opinione che mi sono fatta in quegli anni, di grande lavoro e di grandi frustrazioni, è stata che i nemici di questa educazione non erano solo i rappresentanti della politica cattolica e clericale, ma anche la sinistra è stata incerta, moralistica, ben poco decisa nelle proprie proposte. Il risultato, dopo più di trent’anni, è stato che il nostro Paese, forse l’unico in Europa, non ha una legge sull’educazione sessuale, che la normi, la guidi attraverso alcuni principi, la renda obbligatoria per le scuole di ogni ordine e grado.

Certo, educazione sessuale si fa e si è fatta nelle scuole, ma anche qui occorre una riflessione, che appare abbastanza sconfortante. Se si fa educazione sessuale generalmente si lascia la parte informativa ad agenti esterni, il consultorio ad esempio, oppure alle/agli insegnanti di scienze. Insomma poco più di tavole anatomiche, con qualche consiglio, se si tratta di consultorio, sugli anticoncezionali. E il resto? Anche qui, le/i più democratici tra gli insegnanti, tra i progettisti di formazione – e io sono stata tra questi – sono riusciti e riuscite a trasformare l’educazione sessuale in un oggetto di sapere disincarnato e desessualizzato: si è fatta educazione sentimentale, educazione all’amore, alle emozioni, tutto molto bello e utile, ma tutto mente e cuore, niente corpo. Si è disinnescato ancora una volta il pericolo che il corpo facesse il suo ingresso nelle aule scolastiche.

E noi, noi femministe? E il nostro movimento?
All’inizio – e mi riferisco agli anni Settanta – il corpo è stato al centro dei nostri discorsi, dei confronti nei gruppi di autocoscienza, delle discussioni in forme più collettive, è stato momento di ricerca per noi che avevamo dichiarato essere sempre stato il corpo femminile detto, scritto dagli uomini.

Ma negli anni successivi – e questa è la mia interpretazione che vorrei discutere con voi – anche il movimento delle donne, in particolare con il pensiero della differenza sessuale, che pure ha avuto tanti meriti, si è disincarnato, ha dimenticato il corpo, è diventato pensiero, tutta mente, ha di nuovo percorso le strade della separatezza, tra corpo e mente, tra soggetto e il suo corpo.

Così, se la coscienza di essere un corpo femminile, di abitarlo con agio e trovarvi il senso di un’unione, un’armonia tra il sé e il sé corporeo non siamo riuscite a tradurla in sapere, competenza per noi, questa è anche l’eredità che non abbiamo saputo lasciare alle generazioni più giovani. Se la femminilità, pensata e vissuta anche nel corpo è un dono intergenerazionale, noi questo dono non siamo state in grado di farlo.

Sto studiando in questi giorni alcune storie di giovani anoressiche e mi sembra che la loro patologia, profonda sofferenza, che si accanisce sul e contro il corpo rappresenti questa difficoltà femminile di accettare, nel proprio corpo, la propria femminilità. Una difficoltà che trova contorni patologici nell’anoressia o bulimia, ma che è ben più diffusa tra le giovani donne che hanno comportamenti considerati normali.

Vi è qui, ora nel contemporaneo un’assenza, una mancanza di narrazioni, di scambi di esperienze tra donne di generazioni diverse che possano raccontare la ricerca della femminilità, la ricerca per stare bene, il più possibile, nel proprio corpo di donna. E’ questo, credo, il lavoro che ci attende, direi non tanto o non soltanto la ricerca, che abbiamo fatto, di un logos femminista e femminile, ma anche la costruzione di un mithos, di una grande narrazione di noi, in cui trovi luogo, possa trovare luogo anche la ricerca di sé, di unione con il proprio corpo delle giovani donne.

 

Sintesi dell'intervento tenuto al Seminario del 14 maggio 2009

 

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