Materna
e colpevole, lo schema dell'immaginario
di Barbara Mapelli
Scrive Silvia Vegetti Finzi che la maternità è un grande rimosso della
contemporaneità, intorno al quale permane un nodo irrisolto di pensieri ed
emozioni. Eppure, a quel che appare, di maternità si continua a parlare:
perché non si fanno abbastanza figli, perché li si cura troppo o perché li
si cura troppo poco, abbandonandoli per lunghe ore davanti alla tv, perché
le mamme stanno loro troppo addosso o perché sono troppo lontane e pensano
solo al lavoro e "a fare carriera".
Perché, infine, le mamme uccidono i loro figli. E a questo proposito
poche, pochissime - ricordo Lea Melandri - sono state le analisi serie,
fondate. Prevale un grande "rumore di fondo", come lo definirebbe Foucault,
che si trasforma però in discorso, normativo e punitivo, dimenticando
elegantemente i paradossi da cui si genera, le affermazioni che convivono
- e dotate della medesima assertività - con le loro stesse negazioni, fino
a strutturare un immaginario sociale che, troppo spesso, schiaccia e
opprime le donne, le madri e le non madri, costrette a dolorose scelte,
alternative tra lavoro e figli, e sospinte poi nell'inesorabile risucchio
dei sensi di colpa, che paiono non lasciare soluzioni. Come osserva Marina
Piazza, "cattive madri" se si occupano troppo del lavoro, "cattive
lavoratrici" se si occupano troppo dei figli. Un equilibrio in tutto ciò
appare spesso ricerca vana, desiderio lontano. Questo immaginario sociale
potente e pesante si forma a partire da stratificazioni profonde di
culture tradizionali, solo in superficie verniciate di modernità, che non
sanno (non vogliono) elaborare pensiero sui cambiamenti delle biografie
femminili e soffocano e frenano, con le cortine opache dei sensi di colpa,
le possibilità reali di "pensarsi" nella complessità inedita delle loro
vite da parte delle giovani donne, ma frenano anche i giovani uomini, coi
loro nuovi desideri di paternità, ancora confusi, mimetici e gregari
rispetto ai modelli di maternità.
Non si avviano così, se non in poche e poco ascoltate sedi, vere
riflessioni che contribuiscano a formare una nuova cultura della
maternità, nuovi modelli e immagini, riferimenti, valori, percorsi
collettivi e individuali, ma anche misure sociali, di sostegno e
partecipazione concreta e civile a un evento, centrale nelle biografie dei
soggetti, ma anche nello sviluppo delle società. E' qui che si colloca la
rimozione di cui dicevo all'inizio, una rimozione che non si nutre di
silenzi, ma di assordanti "rumori di fondo", di chiacchiere e giudizi
senza pietà, che non offrono a nessuno gli strumenti per comprendere,
lasciano spesso le donne sole, con le loro ansie quotidiane, con le
consapevolezze di non corrispondere, di non riuscire ad essere "quella"
madre che l'immaginario collettivo rimanda anche a loro, specchiandosi
nell'immaginario di ciascuna donna rispetto alla propria personale,
vissuta o prefigurata, maternità. Allora si viene a scoprire - come è
accaduto a me con una recente ricerca svolta tra giovani donne, madri e
non madri, di alcune città lombarde - e con poco stupore, che tutte
desiderano essere madri. E ci si chiede, ma è una domanda con poche
speranze di risposta, se sia un desiderio reale o appartenga a un'immagine
sociale che, ancora, dà valore a una donna soprattutto se è madre. In
realtà l'unica risposta di senso sarebbe che il dilemma è falso, perché
come è possibile pensare di poter distinguere i cosiddetti desideri
autentici dalle immagini sociali che li generano?
E ancora, proseguendo tra le parole delle giovani donne che hanno parlato
con noi, ci rendiamo sempre più conto che il loro desiderio e vissuto di
maternità è, soprattutto, fatto di fatica, ma anche di "onnipotenza".
Vogliono fare tutto e bene, figli e lavoro. Si lamentano che i compagni e
mariti sono solo in parte disponibili, ma anche in presenza di "buoni"
padri prevale nella maggior parte la valutazione della necessità,
considerata scontata e naturale, del mantenimento della centralità
materna, grazie anche - naturalmente - a una vasta area di complicità,
timore e incompetenza maschile. Le nonne e i nonni, soprattutto le prime,
sono una risorsa necessaria e centrale, cui si ricorre sovente a tempo
pieno, in assenza di servizi sociali. Ma spesso, come i "buoni" padri,
sono solo mani in più, la mente resta una sola. E' lei che coordina la
piccola truppa che sta intorno al bambino o alla bambina, che sceglie e
interviene nella normalità e nell'eccezionalità, nell'organizzazione
quotidiana di tempi e luoghi, negli interventi straordinari, malattie,
spostamenti, vacanze. Lei è la regista, usa proprio questo termine,
ironicamente, una delle nostre intervistate, riconoscendosi in questa
ansia di onnipotenza, che toglie tempo anche al sonno, consuma ogni
energia, non lascia risorse neppure per "pensarsi" come protagoniste di
questo straordinario cambiamento, che cambia la vita e il significato
dell'esistenza.
Molte lo intuiscono e se ne dispiacciono,
ma proseguono - non possono diversamente - a intrecciare le trame delle
proprie e delle altrui incombenze quotidiane intorno al figlio o alla
figlia. Chi riesce a fare dell'ironia in fondo sta abbastanza bene, in
fondo è sola, e soprattutto, stanca. Ma c'è chi non riesce a orientarsi
nei diversi messaggi che l'immaginario sociale getta addosso a una donna
come una rete, chi non riesce a comporre o a convivere con le diverse
immagini di sé, con desideri contrastanti, con dover essere opposti che si
scontrano. Sono quelle che "non ce la fanno" come l'ultima, più recente,
giovanissima donna, accusata di aver ucciso il figlio. Se la generazione
di donne a cui appartengo - ora siamo le nonne, vere o virtuali - ha fatto
la scoperta della doppia presenza, ormai questo modello spiega solo in
parte la vita delle "nuove" donne, impegnate non solo in una composizione
continua di tempi e compiti, ma anche di riferimenti simbolici,
profondamente contradditori, che non trovano se non sintesi temporanee e
inadeguate, sempre da rivedere, sempre insoddisfacenti.
Se le più fortunate riescono a
sopravvivere, grazie a condizioni particolarmente favorevoli, alla virtù
dell'ironia - virtù generazionale e femminile - e all'esercizio quotidiano
di un'altra virtù, l'ambivalenza, che consente il mantenimento di
desideri, attese di sè legate a immagini profondamente diverse, talvolta
laceranti dell'essere e divenire donne, ci sono, comunque, e sono troppe,
quelle che "non ce la fanno". Non sempre sono assassine, naturalmente,
molte si limitano a star male, a perdersi di vista, a non capire più cosa
vogliono, o a mettere da parte, per lungo tempo, questo pensiero. Sole,
davanti a un rimosso sociale e culturale che le nega per quello che
veramente sono, o potrebbero. Dolenti, nella loro ricerca vana e
sofferente di un'onnipotenza che sembra realizzare e comprendere in una
figura diversa dell'essere donna.
Ma non c'è per il momento, a differenza
forse del passato, un momento di condivisione, una riflessione collettiva,
che inizi a denunciare, e colmare, questo rimosso. Che inizi a ricostruire
nuove figure dell'immaginario soggettivo e sociale in cui trovino luogo
per sé queste "nuove" donne e madri e gli uomini a loro vicini, possibili
"buoni" padri.
questo
articolo è apparso in Queer inserto di
Liberazione del 12 giugno 2005
05 settembre 2006
|