Lea Melandri, AMORE E VIOLENZA
Il fattore molesto della civiltà

di Pamela Marelli

 

“Amore e violenza. Il fattore molesto della civiltà” è il nuovo libro scritto da Lea Melandri, nota femminista che da anni condivide il suo attento sguardo politico sul mondo.
“Nata femmina, in una campagna incattivita dalla miseria del dopoguerra”, “adolescente in fuga da scomode radici contadine”, Lea arrivò a Milano negli anni ‘60, “distruggendo l’immagine di figlia, allieva e poi moglie e insegnante di indiscussa “moralità” costruita forzatamente per venticinque anni”. Questo gesto assunse per lei, nel tempo, il segno di una nascita.
Venne al mondo negli spazi della città, nelle piazze, “nelle sedi politiche vaganti”, luoghi attraversati con la convinzione “che fosse finito il tempo delle famiglie, delle autorità costituite, delle sofferenze private”. Il femminismo trasformò ulteriormente la mappa “di un territorio che aveva ormai il volto dei nostri progetti, delle nostre attese di cambiamento.” La sua casa milanese, sede di riviste, luogo di ospitalità per le numerose amicizie ed i progetti condivisi, è da lei vissuta come “la stanza tutta per sé” che “abitua all’idea di abitare in se stessi come nel mondo.”
Nell’ultimo capitolo del libro, Lea scrive: “un confine prezioso è quello che separa congiungendo, che rende la solitudine capace di intensa socialità, e la propria finestra un osservatorio proteso verso realtà e affetti distanti migliaia di kilometri”.
Questa immagine del confine che separa ponendo a contatto, mi sembra una figurazione calzante per descrivere la (pratica) politica di Lea Melandri.
Dagli inizi nel movimento non autoritario al lungo percorso nel femminismo, costante e tenace è stata la sua ricerca dei nessi, l’uscita dagli schemi dualistici, dalle rigide ideologie. Lea parte dalle zone d’ombra, dagli spazi di ambiguità per rilanciare analisi profonde e problematiche sul mondo che ci circonda. In questo stimolante ed emozionante
libro, al centro dell’indagine c’è il complesso meccanismo che insidia la civiltà, quel fattore molesto che sta nell’annodamento tra amore e violenza. “Il dominio dell’uomo sulla donna si distingue da tutti gli altri rapporti storici di potere per le sue implicazioni profonde e contraddittorie. Innanzitutto la confusione tra amore e violenza: siamo di fronte ad un dominio che nasce e si impone all’interno di relazioni intime, come la sessualità e la maternità.” E’ difficile riconoscere la parentela antica e duratura “che lega l’amore all’odio, la tenerezza alla rabbia, la vita alla morte. Si distrugge per conservare, si uccide per troppo amore, si idealizza l’appartenenza a un gruppo, una nazione, una cultura, per differenziarsi da chi ne è fuori, visto come nemico.”
Uno degli aspetti più inquietanti della contemporaneità è l’altissimo numero di donne uccise e sottoposte a violenze da parte dei loro mariti, amanti, figli, “incapaci di tollerare pareti domestiche troppo o troppo poco protettive, abbracci assillanti  o abbandoni che lasciano scoperte fragilità maschili insospettate.” L’accanimento viene protratto dall’uomo sul corpo della donna, corpo femminile simile a quello che gli ha dato vita, accudimento, protezione; quel corpo materno che lo tenne in balia nella fase di maggiori dipendenze e fragilità.
Il dominio dell’uomo nasce, secondo Lea, come costruzione storica “volta a mettere riparo alla inermità dell’uomo-figlio, ma anche alla marginalità maschile rispetto al processo riproduttivo.” “Confinando la donna nel ruolo di madre, facendola custode della casa, dell’infanzia, della sessualità, l’uomo ha costretto anche se stesso a restare eterno bambino, a portare una maschera di virilità sempre minacciata.” “La fuga dal femminile, da cuisi può pensare abbia tratto la sua spinta più profonda la comunità storica degli uomini, è anche fuga dai bisogni infantili.”
Per celebrare il suo essere autonomo, libero nella sfera pubblica, l’uomo ha cancellato i vincoli biologici, la fragilità, la dipendenza dal corpo femminile. Facendo ciò ha dovuto anche svilire il suo corpo maschile e le passioni da cui è attraversato.

La violabilità del corpo femminile fa tutt’uno con la nascita della polis, con la divisione sessuale del lavoro, con la separazione tra la casa e la città, la famiglia e lo stato.
La donna è stata tenuta fuori dalla polis, ma non la femminilità, la rappresentazione che l’uomo ha fatto di lei. “La cancellazione della donna come persona, individualità, soggetto politico, produce inevitabilmente lo svilimento del suo corpo.” Nell’immaginario sessuale dominante maschile le donne sono infatti viste come corpi erotici, seduttivi, che scatenano desiderio oppure come corpi materni, figure integre, rigeneranti e salvifiche. 
Questa rappresentazione dualistica è stata storicamente interiorizzata dalle donne. E non è un caso che il movimento femminista degli anni ‘70 mise fortemente in discussione il concetto “naturale” di femminilità; quelle donne, e tra loro Lea, partirono da sé, dalla sfera personale per svelare la storia non scritta nella politica e nella cultura, per ridare significato politico al corpo.
Nell’intricato annodamento tra amore e violenza, le donne, attraverso strategie di sopravvivenza, adattamenti, forme di resistenza e di risarcimento, hanno assunto poteri sostitutivi. La cura è un potere, rendersi indispensabili agli altri, anche se adulti e sani, è una compensazione per altri tipi di potere, dai quali le donne sono state espropriate.
Oggi si assiste ad un elemento inedito sulla scena: alcune donne scelgono di usare a proprio vantaggio i ruoli che altri hanno loro cucito addosso, il corpo e la sessualità si prendono una rivalsa sulla storia che li ha negati. La tendenza a ottenere il potere attraverso il proprio corpo, da sempre escluso dalla polis, si configura come una scorciatoia per un riconoscimento sociale che fatica a darsi per altre strade, in qualche ambiguo modo “il femminile si emancipa in quanto tale.”
Di fronte a questo scenario Lea Melandri sprona coraggiosamente a porsi interrogativi scomodi. Si ha una reazione di sdegno quasi esclusivamente quando si tratta del corpo erotico, dell’immagine “degradante che passa nei programmi televisivi e nelle pubblicità, molto meno quando si legge nei giornali economici l’esaltazione delle doti femminili, come la capacità relazionale, la mediazione dei conflitti, l’adattabilità. E’ evidentemente la retorica del materno a rendere accettabile il fatto che il sistema produttivo voglia utilizzare lo stesso lavoro gratuito che le donne prestano in casa.” “Che altro è la “femminilizzazione” del lavoro, della politica,- ci chiede Lea- se non l’estensione di un ruolo tradizionalmente domestico all’intera sfera pubblica, la “riserva” di energia chiamate in soccorso di una civiltà in declino?”.

Lea Melandri è una lucida analista, un’attenta osservatrice dei temi che tornano in diverso modo nei differenti contesti storici, una stimolante guida che propone possibili altre strade da percorrere, estranee ai dualismi castranti, e foriere di imprevedibili percorsi di libertà.
Nel libro mette a nudo la società nei suoi molteplici aspetti, dalle migrazioni alla biopolitica, dalla precarietà alle nuove tecnologie socializzanti, dalle tecnoscienze ai valori etici, dagli integralismi religiosi alla spettacolarizzazione dei media. Va alle radici dell’umano, ricucendo quei binomi che apparentemente non sono conciliabili, (come straniero e comunità), tracciando le modalità per riportare tutta la vita all’interno della politica, del conflitto, delle azioni trasformative.
“Per costruire una nuova cultura politica, che abbia presente l’intera vita, occorre “mettere in gioco il proprio corpo”, interrogare la propria esperienza, vedere la soggettività come corpo pensante, sessuato, plurale, capace di riconoscersi nella sua singolarità e al medesimo tempo in ciò che lo accomuna agli altri, consapevole che solo avanzando verso strati sempre più profondi di noi stessi si può accedere a un orizzonte più generale.”

3-5-2011