Care amiche e cari amici

Stefano Ciccone

 

 

scrivo a voi con cui negli ultimi anni abbiamo condiviso occasioni di confronto, percorsi ed esperienze tesi alla costruzione di relazioni politiche tra donne e uomini non strumentali, e basate sul reciproco riconoscimento. Credo sarebbe utile una riflessione più larga e approfondita ma credo utile un confronto preliminare con voi.
Oggi ho la sensazione di un ritorno indietro rispetto ai percorsi che, in varie forme, abbiamo tentato insieme negli ultimi anni.
Per questo vorrei che condividessimo una riflessione sul senso della costruzione di queste relazioni e di questi percorsi politici. Perché tengo a queste relazioni che abbiamo costruito insieme e perché in questo ritorno indietro vedo una perdita di ricchezza della politica che abbiamo prodotto.

Non entro qui nel merito della polemica sviluppatasi attorno a Maschile Plurale o del dibattito avviatosi a seguito dell’iniziativa sui centri per uomini “maltrattanti”. Mi interessa affrontare alcune questioni emerse in queste occasioni che ritengo di fondo e che riguardano, appunto, le condizioni per una pratica politica di donne e uomini che assuma le differenze e le asimmetrie senza ossificarle .
Credo dovrebbe essere responsabilità di tutti e tutte evitare che una discussione o una polemica, e le tensioni che può portare con sé, generi la liquidazione di un patrimonio di elaborazioni, relazioni e pratiche sviluppato in quasi trent’anni di politica di donne e uomini. E vedere, invece, veri spostamenti nelle nostre prospettive. Credo che affermare la centralità delle relazioni e la politicità del “personale” debba anche far vedere quanto a volte pesino anche negativamente dinamiche personali e relazionali nell’espressione di posizioni politiche e nello sviluppo di conflitti. Ma oggi è importante provare ad affrontare il merito.

Vi propongo alcuni spunti di discussione che riprendono interventi miei e di alcune/i di voi di questi mesi.

Mi pare che le domande, o meglio le acquisizioni che oggi vedo messe in discussione, siano fondamentalmente tre: ha senso una pratica politica di uomini di critica del patriarcato? Una relazione politica tra donne e uomini è una relazione di differenze e dunque tra due parzialità che, a partire da una asimmetria storica e di potere, scelgono un’interrogazione reciproca? Una politica di donne e uomini deve cimentarsi nella dimensione complessa delle esperienze individuali e delle relazioni?

Forse il tema centrale è l’idea di politica che abbiamo: cosa vuol dire per noi “relazioni politiche” tra donne e uomini? Cosa vuole dire riconoscere la politicità delle esperienze individuali, della sessualità, della rappresentazione dei corpi?
Spesso ho l’impressione che quella che appare (ed è genuinamente vissuta) come ricerca di radicalità, sfoci in una semplificazione riduttiva che, paradossalmente, non aggredisce la radice delle cose. In un mio intervento1 osservavo che

“In questa vicenda ho visto troppo spesso la tentazione di rifugiarsi in una posizione ideologica, la ricerca di una parola astratta, espressa “a prescindere”, e per questo chiara. Eppure c’è una differenza tra radicalità e semplificazione. Riconoscere che la sessualità, i rapporti tra i sessi sono un terreno politico non può significare scegliere la semplificazione dello schieramento ideologico. Va riconosciuta la loro dimensione complessa che comprende aspetti culturali, simbolici, psichici, sociali[...]
Credo dovremmo avere la capacità di produrre una riflessione teorica, una politica, che sia in grado di esprimere un conflitto all’altezza di questa complessità. Che non ci illuda di tagliare risolutivamente con la spada un nodo ma produca una pratica capace di generare differenti forme di relazione. A partire dal riconoscimento che il “patriarcato” non è altro da noi ma ci attraversa. Non è un sistema di mero dominio: è un sistema simbolico, è una costruzione culturale profonda e condivisa che struttura le vite e le identità di donne e uomini.
Se il personale è politico dobbiamo produrre una pratica e una parola politica in grado di dare conto della complessità e la contraddittorietà dei vissuti individuali e delle relazioni senza rifugiarci nella linearità del “giudizio politico”. Questo non vuol dire sfuggire dal riconoscimento della dimensione politica del conflitto tra donne e uomini e della violenza nelle relazioni ma scegliere un’altra prospettiva politica.”

Credo che qui si incontri una resistenza che consiste nella difficoltà a condividere, e dunque a “esporre” tra donne e uomini le proprie contraddizioni e le proprie complicità con un sistema che si sottopone a critica, la tendenza a vedere il confronto tra donne e uomini non come lo spazio per esplorare questa dimensione perturbante e problematica ma come un confronto politico, anche intimo o personale, ma tra soggetti che abbiano svolto questa riflessione ognuno/a per la sua parte. A me interessa invece un confronto con quel filo di esperienza e pensiero che nel femminismo va, con mille differenze, da Lonzi fino a Butler e che si misura con la dimensione opaca della soggettività, con la dimensione inconscia, con il riconoscimento di un soggetto non pienamente padrone di se stesso come terreno di ricerca e conflitto.

E nelle esperienze che abbiamo costruito insieme questa disponibilità a mettersi in gioco è stata al centro del nostro confronto.
Questa, a mio parere, malintesa contrapposizione tra radicalità e complessità riguarda anche il senso di un impegno maschile e il ruolo degli uomini in una pratica critica del patriarcato.

Prendo tra altri esempi l’intervento di Laura Colombo2 in cui Laura afferma:

“Il punto politico che mi preme sottolineare è quello sollevato da Massimo Lizzi, quando ha detto che nella nostra cultura gli uomini continuano a essere in vantaggio per il semplice fatto di essere uomini e che il fatto della violenza sessista non li danneggia, anzi![…] Oggi la maggioranza degli uomini non è responsabile di violenza ma di indifferenza, perché la violenza di pochi, dice Lizzi, porta vantaggi all’intero genere maschile: controllo e potere sulla donna, facile soddisfazione dei propri desideri a discapito di quelli di lei, appagamento dei propri bisogni affettivi e via discorrendo.”

Io credo che affermare che nella nostra società gli uomini continuino a godere di un vantaggio sia assolutamente vero ma assolutamente insufficiente. Questa affermazione, senza nulla togliere all’impegno per una innovazione della cultura della destra, è probabilmente condivisa anche da Gianfranco Fini e da molti uomini che non per questo agiscono un conflitto con la cultura patriarcale. È possibile andare più a fondo? L’interrogazione maschile può limitarsi a riconoscere questo sistema di potere per sentirsi chiamata in causa dalla violenza? Mi pare insufficiente e arretrato affermare che la maggioranza degli uomini non sia responsabile di violenza ma di indifferenza verso la violenza di pochi. Credo che gli uomini debbano sentirsi chiamati in causa un po’ più intimamente: quell’universo che genera la violenza quanto ha a che fare con il mio immaginario, i miei desideri, le mie paure? Quanto ha a che fare con me un’aspettativa di disponibilità femminile, quanto ho dentro di me una fantasia di protezione e controllo della debolezza femminile, quanto mi attraversa una rappresentazione di un’asimmetria di desiderio e soggettività tra i sessi che porta con sé un’idea di scambio ineguale3 nel desiderio tra donne e uomini?

Su queste domande abbiamo spesso provato a riflettere insieme: nei gruppi, nei laboratori, nelle relazioni duali che abbiamo costruito. Con Lea Melandri abbiamo provato a confrontarci in un libro4 frutto dell’incontro tra la sua riflessione e quella di maschile plurale che interroga la contiguità tra amore e violenza. Non mi basta, dunque, riconoscere l’esistenza di un sistema di potere tra i sessi e quanto questo sia rafforzato dalla violenza “di pochi”, credo necessario lavorare dentro di me sulle dimensioni più profonde su cui quel potere ha “costruito” la mia identità. Lea, da parte sua, afferma la necessità di uno scavo femminile su cui molte donne scelgono di lavorare senza per questo ridurre la propria radicalità.

Se “la violenza di pochi porta vantaggi all’intero genere maschile (controllo e potere sulla donna, facile soddisfazione dei propri desideri a discapito di quelli di lei, appagamento dei propri bisogni affettivi)” allora il mio impegno contro la violenza diviene un gesto di altruismo volontaristico certamente encomiabile ma a mio parere insufficiente. Nelle esperienze che abbiamo tentato di portare avanti insieme abbiamo assunto i desideri non come un dato neutro di cui regolare la soddisfazione: Credo che i miei desideri siano un terreno di trasformazione da risignificare, li abbiamo definiti un territorio “colonizzato” dall’immaginario e simbolico patriarcale; credo che la rimozione del desiderio femminile impoverisca la mia sessualità e le mie relazioni; credo che i miei bisogni affettivi siano qualcosa che le dinamiche di violenza tendono a rimuovere e dissimulare. Riconoscere la mia inter-dipendenza, la mia non autosufficienza, fare i conti con l’esperienza di dipendenza dal corpo femminile nell’infanzia e con la mia irriducibile radice relazionale non ha come esito una rinuncia frustrata ma l’apertura di una diversa qualità possibile della mia vita. (un’assunzione che mi pareva consolidata della riflessione di Maschile plurale).

Mi batto contro la violenza maschile non solo perché parte di un sistema di potere che considero ingiusto e oppressivo verso le donne ma perché credo che questo potere produca anche una miseria nella vita degli uomini. Se non c’è questo riconoscimento su cosa si baserebbe la relazione politica tra donne e uomini? Su una solidarietà maschile per le donne come soggetti discriminati? Mi pare poco.

Proprio Sara Gandini, raccontando l’esperienza di intercity-Intersex (una delle esperienze di confronto tra donne e uomini) precisava:

Non vogliamo ricadere nel discorso della necessità della relazione di differenza, in altri termini nel discorso che il rapporto con gli uomini sarebbe necessario per costruire una convivenza più civile, non segnata dalla violenza. Si tratterebbe di una necessità finalizzata a un obiettivo nobile ma, se non sorretta da un reale desiderio di incontro con l'altro e di scambio, diverrebbe di corto respiro.5

Sempre nel mio intervento affermavo:

“Ovviamente se si pensa che gli uomini abbiano tutto da perdere e che il loro impegno possa essere dettato solo da un afflato etico è evidente che permanga il sospetto che si fermino “ai proclami o alle belle parole dei convegni”, [come affermato da Laura]. Mettiamo da parte il fatto che l’impegno di Maschile Plurale, che chi non ci conosce può legittimamente ignorare, non si ferma a belle parole […]Il punto politico è un altro. Ed è un nodo fondante di valutazione del nostro percorso. Questo percorso ha scelto di misurarci con i “dividendi del patriarcato”, e dunque con i vantaggi che il rapporto di potere tra i sessi ci dà, ma non per una mera “rinuncia” in nome di una motivazione etica. […] Se ci limitassimo a dire che la violenza contro le donne (e quella omofoba) fornisce agli uomini solo vantaggi e se affermassimo che il femminismo consiste esclusivamente nel contrastare questi vantaggi dovrei dire che il contrasto della violenza contro le donne “non mi conviene” e che il femminismo mi è ostile. E dovrei impegnarmi solo in nome di una motivazione etica. Solo perché “è giusto”.

Io ho conosciuto un femminismo e ho attraversato una riflessione sulla violenza che dicono altro. Dicono che quel sistema di oppressione produce anche una miseria nella vita degli uomini e che quel privilegio maschile, proprio a seguito di uno sguardo diverso delle donne, è ridotto a un feticcio incapace di rispondere alla mia domanda di senso.
Io ho trovato nel femminismo non solo la denuncia del privilegio maschile ma uno spazio possibile di libertà per me e per le mie relazioni.

In questo senso la politica delle donne parla a tutti. Non si tratta di “proclami”, è il senso del mio percorso politico ed esistenziale. Una posizione maschile che si limita alla contemplazione di questo privilegio e che non mette in gioco un proprio desiderio di trasformazione non è più rigorosa ma, a mio parere, più arretrata.

Ma questo tema ha anche direttamente a che fare con la violenza: la trasformazione delle relazioni di potere tra donne e uomini è infatti diffusamente rappresentata come minaccia per gli uomini indicata spesso come giustificazione per reazioni frustrate o esasperate. A questa rappresentazione Maschile Plurale ha risposto con una differente posizione maschile che invece riconosce in questo cambiamento e nella libertà e autonomia delle donne un guadagno per la nostra libertà. […]

Ma il rifiuto di una prospettiva meramente etica dell’impegno maschile ha anche un’altra implicazione: il rifiuto di posizioni maschili ambigue come quella dei protettori delle donne, dei difensori, o dei censori. Se la collocazione maschile non ha come motivazione un proprio autonomo desiderio, una domanda di libertà anche per se stessi, rischia continuamente l’inautenticità, la ricerca della gratificazione. La riduzione del confronto tra uomini a competizione, a disfida retorica e intellettuale o a gara all’indignazione non è questione personale ma attiene a questa ambiguità. A questa competizione mi sottraggo non per poca determinazione ma perché mi risucchierebbe in una dinamica subalterna a un simbolico patriarcale.”

Proprio in questi giorni mi è stato richiesto di recuperare il primo documento pubblico collettivo di uomini nel nostro paese. E mi ha colpito vedere che già in quel primo testo del 1985 (!), certo con qualche ingenuità, fosse già esplicito un tratto caratteristico del percorso di maschile plurale:

Neppure vogliamo assumere un atteggiamento vittimista, quasi a rivendicare dei problemi nostri in contrapposizione a quelli delle donne. […] ma la nostra non vuole essere una semplice dimostrazione di solidarietà, l’appoggio di una lotta non nostra, che anzi andrebbe contro i nostri interessi, contro i nostri diritti acquisiti, contro il nostro potere, che andrebbe a scoprire i nostri “scheletri nell’armadio”. Se oggi diciamo la nostra non lo facciamo né per buona volontà né per un’adesione tutta ideologica; lo facciamo perché ne sentiamo profondamente il bisogno, […] Nell’introduzione allo storico saggio “dalla parte delle bambine” si legge: per quanto ci si metta dalla parte delle bambine, è chiaro che non sono soltanto le bambine le vittime di un condizionamento negativo in funzione del loro sesso (…) Che cosa può trarre di positivo un maschio dalla arrogante presunzione di appartenere a una casta superiore soltanto perché è nato maschio? La sua è una mutilazione altrettanto catastrofica di quella della bambina persuasa della sua inferiorità per il fatto stesso di appartenere al suo sesso. Il suo sviluppo ne viene deformato e la sua personalità impoverita, a scapito della loro vita in comune. Nessuno può dire quante energie, quante qualità vadano distrutte nel processo di immissione forzata dei bambini d’ambo i sessi negli schemi maschile –femminile così come sono concepiti dalla nostra cultura.” In questa premessa si enuncia un obiettivo, quello di “restituire a ogni individuo che nasce la possibilità di svilupparsi nel modo che gli è più congeniale, indipendentemente dal sesso cui appartiene.” I presunti vantaggi degli uomini sono, appunto, solo presunti, calcolati su una scala di valori che è tutta interna alla cultura dell’oppressione che vogliamo mettere in discussione.”

Questa frase finale può apparire appunto ingenua o estrema, ma a me pare sia proprio l’espressione di quella “crisi del patriarcato” che non è fine di un sistema di potere ma entrata in crisi della sua capacità di conferire senso alla vita di donne e uomini, del credito che ha nelle nostre vite.
Per questo mi colpisce e mi addolora leggere nell’intervento di Claudio e Sara che questa riflessione sia accostabile a “un nuovo vittimismo, che nelle forme più raffinate può arrivare anche a dire che anche gli uomini sono “vittime” del patriarcato.”

Anche nel marzo 2014 come mp in un testo collettivo6, non so oggi quanto condiviso, affermavamo:

“Noi sentiamo che questi vantaggi e privilegi (ormai svelati e messi in discussione ma anche capaci di reinventarsi) sono in realtà delle gabbie che imprigionano i nostri desideri e sentimenti più profondi, creando insoddisfazione e sofferenza. Una sofferenza inflitta e autoinflitta che occorre riconoscere e sciogliere.”

Solo un anno prima, sempre come maschile plurale avevamo tentato di produrre un passo avanti nella nostra iniziativa chiedendoci:
È possibile una nuova parola maschile? Andare oltre l’assunzione di responsabilità, l’impegno solidale o di giustizia per costruire una politica che esprima l’esperienza di essere uomini.

Il pensiero e la pratica politica delle donne ci hanno fornito lo spazio sociale e le parole per esprimere una nostra domanda su di noi che non trovava nei saperi prodotti dalle altre generazioni di uomini le parole per esprimersi. Oggi sentiamo la necessità di un doppio salto che è già dentro molte esperienze:

-costruire nuove relazioni politiche tra donne e uomini, e tra persone di diversi orientamenti sessuali, non basate esclusivamente sulla comune opposizione a forme oppressive e violente ma su una comune ricerca di senso, sul riconoscimento del valore reciprocamente trasformativo di queste relazioni.
-il secondo passo è la produzione di uno sguardo autonomo, come uomini: la capacità di agire un conflitto con l’ordine esistente a partire da noi.7

Qui mi pare ci sia un nodo su cui riflettere: pensiamo che le relazioni tra donne e uomini che vogliamo costruire siano reciprocamente trasformative? E perché lo siano crediamo che l’espressione di uno sguardo autonomo come uomini sia una risorsa da mettere in gioco? Uno sguardo, che parta dall’esperienza maschile ma anche che sia in grado di produrre conflitto tra uomini.

Il riconoscimento del senso di un percorso politico maschile è ovviamente cruciale per un possibile rapporto politico tra donne e uomini. Anche nei nostri incontri, nelle nostre esperienze e nei nostri confronti abbiamo sempre condiviso la necessità di una riflessione tra uomini come condizione di un confronto ed abbiamo osservato come la limitatezza delle esperienze maschili per dimensioni e per stratificazione e articolazione di pensiero, abbia spesso rappresentato un limite.

Eppure nel confronto pubblico di questi mesi è emersa una posizione, che è in parte conseguenziale alla lettura riduttiva a cui ho accennato e che a me pare un ritorno indietro della nostra discussione che di nuovo si ripresenta dissimulata nella forma di affermazione di radicalità. Tk Brambilla, ripresa da Laura Colombo, afferma: “Gli uomini, in quanto uomini, mi pare siano storicamente già associati a sufficienza.”
In questi anni di confronto abbiamo conosciuto resistenze e anche incomprensioni reciproche.

Richiamare queste resistenze non vuol dire semplicemente “denunciarle” o farne motivo che inficia le affermazioni di merito, ma attraversarle, leggerne le ragioni profonde e provare a districarle da fantasmi, proiezioni reciproche che intorbidano la relazione e il merito del confronto. L’esperienza del gruppo “sui generi” svolta ad Anghiari ha esplicitato più di altre questo nodo facendone un terreno di ricerca comune: nel ciclo delle tre giornate di confronto emergevano a un certo punto equivoci, incomprensioni e insofferenze rivelatrici di proiezioni reciproche, aspettative, rappresentazioni su cui era possibile sviluppare nel restante tempo un lavoro di scavo, comune, conflitti creativi e produttori di consapevolezza.

In questa discussione mi pare emerga un senso di insofferenza, di fastidio femminile verso un impegno maschile per altri versi sollecitato e genuinamente ricercato. Ne è per me un esempio l’osservazione di Laura Colombo: “Di più, se un uomo parla contro la violenza sessista “brilla” e subito la cosa diventa politicamente significativa, più che se parlassero cento donne. Tuttavia i proclami non bastano e troppo spesso le belle parole di comunicati e convegni sono lontane da una pratica concreta di impegno nelle relazioni.” Allo stesso modo ho visto negli interventi di Marisa Guarneri sui centri per uomini maltrattanti8 che le osservazioni puntuali di merito, per molti versi condivisibili, erano segnate da un tenore generale di sarcasmo infastidito quando non di insofferenza. Ho visto ridurre così la “Questione maschile su cui da anni tentiamo di ragionare: "Eccola la vera questione maschile: ritrarsi quando la situazione si fa difficile, non saper dare giudizi netti e fare atti coraggiosi verso chi la violenza la compie, e non la riconosce come propria, anche se appartiene alla sua parrocchia."9

Forse qui dovremmo chiederci “cosa ci sia in ballo” in questa reazione che non riguarda solo il lavoro con i maltrattanti ma anche l’esperienza di maschile plurale e che mi pare mini il lavoro di costruzione di relazioni politiche tra donne e uomini. Oltre alla valutazione, distorta, degli atti e delle parole prodotti dalla rete di maschile plurale c’è un tema politico più profondo. (un punto politico, si direbbe).
Io credo ci sia una resistenza al mettersi in gioco, ad affrontare il rischio di una relazione politica tra donne e uomini riconoscendone la potenzialità reciprocamente trasformatrice, il rischio di misurarsi con un interlocuzione che non lasci l’altro fisso nel ruolo tranquillizzante dove ti aspetti che sia.

Ma la possibilità di confronto tra noi comincia dal reciproco riconoscimento.
Claudio e Sara, infatti, riconoscono nel loro testo che: “E’ indubbio che la ferita prodotta dal patriarcato sulla vita delle donne rende difficile anche per le donne riconoscere un'autorità maschile differente.”
Mi pare significativo che in molti testi precedenti ci fossero come parole ricorrenti libertà e soggettività femminile, desiderio, parzialità e relazione che sono state sostituite da una preponderanza dei termini autorità femminile e affidamento. C’è un evidente mutamento delle forme in cui queste relazioni vengono pensate.

Sara Gandini, nel descrivere l’esperienza del gruppo Intercity-intersex scriveva in una fase differente:

una storia di donne e uomini, appassionati di politica, che hanno cominciato a riflettere sulle relazioni fra i sessi, sulle relazioni di differenza. In particolare voglio mettere al centro la forza trasformatrice di alcune parole, come eros, attrazione, immaginario, e le difficoltà incontrate nella nostra esperienza, in modo diverso, da parte di uomini e donne. Il nostro punto di partenza è stato la consapevolezza che il mondo è radicalmente cambiato grazie all'avvento della libertà femminile.10

Riconoscere l’autonomia e la libertà femminile come risorse e assumere il debito maschile verso il pensiero e la pratica delle donne è altro da un “affidarsi” degli uomini all’autorità femminile. Ma è il riconoscimento di questa a fare apparentemente problema:

“La principale[difficoltà] riguarda l'autorità femminile e i fantasmi che si porta dietro. Nei discorsi di molti uomini vicini alle femministe vediamo ripetersi parole come autonomia, indipendenza, bisogno di sottrarsi alle pressioni femminili, esigenza di non prendere posizione tra i vari femminismi, che mostra la necessità di “affrancarsi” dalla potenza femminile. Gli uomini si allontano per stare tra maschi, in un nuovo separatismo maschile, guerreggiando tra loro pur di non fare i conti con l'autorità femminile, e questo è un problema politico.” Più avanti Sara, a proposito di C. Raimo, critica il limite di un pensiero maschile che “non arriva a pensare che l’affidarsi a un’autorità femminile possa creare un nuovo ordine.” E infatti conclude il suo intervento affermando “ci sembra importante nominare esempi di uomini che si sono affidati alle donne, al loro sapere, a un’autorità femminile che apre ad altro”.

Più avanti ricorda che “la questione dell’autorità è aperta, e anche da parte femminile si fa fatica ad assumerla” “deve saper dare i limiti e quindi può essere percepita come feroce, perciò si deve “sopportare” i pianti e le recriminazioni, restando ferme e correndo il rischio di ferire.” 11

Io mi considero tra gli uomini vicini al femminismo e in effetti, credo che la proposizione di una relazione di “affidamento degli uomini all’autorità femminile” sia un modello poco fertile e con grandi ambiguità. Specie se si rappresenta l’autorità femminile come “potere luminoso che offusca tutto il resto12” e al quale affidarsi. Questo non ha mai prodotto la ricerca di un separatismo maschile nelle pratiche di maschile plurale che rimuovessero la relazione con le donne. Mi pare anche che proponendolo si assuma in modo semplicistico il riferimento all’affidamento tra donne (anch’esso come sappiamo largamente controverso nel femminismo) trasponendolo in una relazione tra donne e uomini che non è comparabile.

Qui emerge poi un’idea di autorità non come risultato relazionale di riconoscimento reciproco e come energia circolante ma come “funzione” regolatoria e di limite non a caso paragonata all’esercizio genitoriale e molto assonante alla legge paterna richiamata da alcuni autori. In un testo curato anche da Sveva, 13 ho provato a ragionare su questo tema dell’autorità come limite e come Legge:

Ma questa esperienza di limite, di differenziazione avviene solo attraverso l’incontro con il divieto ad accedere al godimento assoluto offerto dalla Cosa materna? Diversi modi di leggere le posizioni del padre e della madre nel processo di sviluppo psichico del/la bambina/o hanno come conseguenza due modi differenti di leggere i rapporti tra donne e uomini nella sessualità e nelle relazioni sociali. Manuela Fraire costruisce proprio a partire dal riconoscimento della madre come soggetto sessuato portatore di un desiderio perturbante per il bambino una lettura del processo di soggettivazione non guidato dalla parola normativa del Padre ma in cui lo sguardo e la parola della madre hanno un ruolo decisivo. Il limite con cui misurarci è il divieto imposto dal padre, è una norma o il riconoscimento dell’altra? L’antidoto al godimento autistico e oggettivante è la legge del padre? O proprio il riconoscimento del desiderio femminile e materno?
[…] È possibile una riflessione su questo nodo che non riconosca il carattere costruito del desiderio, il suo essere non riducibile a una pulsione originaria ma al forma socialmente e storicamente costruita?

Ma c’è anche una più radicale incomprensione quando si confonde un dissenso politico con una resistenza maschile a riconoscere l’autorità femminile e a fare i conti con la potenza del fantasma del materno. Molto più semplicemente: se dissento da una posizione politica di una donna non è necessariamente per paura della potenza femminile, è anche perchè ritrovo la fertilità di altre elaborazioni e prospettive femministe. Credo infatti che i saperi femminili, le prospettive politiche dei femminismi siano plurali. Nel mio rapporto con il femminismo, ma mi sento di dirlo per l’esperienza di maschile plurale, è stato per me importante riconoscerne il valore dell’elaborazione e al tempo stesso credo sia un atto politico assumere la responsabilità di un rapporto critico e creativo, che gioca l’autonomia non come separatezza o indipendenza ma, appunto, come differenza in relazione. Non so quanto possa interessare alle donne una posizione maschile che “si schieri” con un femminismo o l’altro e che consideri i femminismi degli “schieramenti” da scegliere.

Il tentativo di costruire una soggettività maschile critica e autonoma, anziché essere riconosciuto come un’opzione politica e tantomeno una risorsa, è rappresentato come “sintomo”, come un riflesso inconscio.

“compare il fantasma del pericoloso oscuro materno da cui ci si deve difendere e da cui prendere le distanze e dimostrare autonomia, a sé e al mondo?” 14

Io, in effetti, ho affermato la necessità della costruzione di un’autonomia politica del percorso di riflessione critica maschile e del posizionamento degli uomini in conflitto con il patriarcato. Non, dunque, “dimostrare” un’autonomia” ma provare a dare voce alla propria esperienza, produrre, a partire da sé una parola che sia fertile anche nelle relazioni con l’altra e col mondo. Avrò un problema con il fantasma dell’oscuro materno? Molto probabile. Cerco di avere presente le mie contraddizioni. Non mi considero del tutto trasparente a me stesso e non mi interessa una politica che si affermi come parola astratta e disincarnata. Non so se sia possibile, e auspicabile, una “politica senza inconscio”, pura prestazione, performance o pura parola normativa. Ma il punto è un altro. Le donne che sono interessate a una relazione politica con gli uomini, sono interessate alla costruzione di un’elaborazione politica autonoma che interpreti in modo conflittuale l’esperienza maschile? E gli uomini, sono interessati a produrla?
Il riferimento all’autonomia della riflessione maschile come risorsa la trovo proprio nella presentazione dell’esperienza Intersity-intersex della stessa Sara:

In alcuni scambi con il nostro gruppo Intercity-Intersex, abbiamo sperimentato la possibilità di fare in modo che i conflitti non diventino distruttivi, di lasciare un tempo sospeso, di non giudizio, di incomprensione. Un tempo che possa far capitare qualcosa. Un tempo aperto ad un futuro imprevedibile. Questo è stato possibile prima di tutto grazie alla forza questi uomini hanno acquisito con le relazioni, gli scambi, e la consapevolezza acquisita tra loro, tra uomini. La vitalità del conflitto dipende infatti anche dall'autonomia relazionale, dalla capacità di dare consistenza al proprio essere.15

In Maschile Plurale ho scelto di fare percorso su di me e che, a partire dalla mia storia e dai miei desideri di cambiamento e dalle mie contraddizioni, costruisse una pratica politica collettiva, pubblica di uomini e in relazione con le donne. L’impegno contro la violenza maschile contro le donne sono per me parte di una pratica politica di trasformazione che chiede l’espressione di una soggettività maschile capace di esprimere in autonomia uno sguardo critico sul mondo e un desiderio di cambiamento. Questa soggettività non può prescindere non solo da una relazione politica con le donne ma dal riconoscimento del proprio, limite, della propria parzialità.
Ma questa relazione politica è possibile se questo desiderio è reciproco e se è incontro tra due differenze che si riconoscono parziali, non autosufficienti e sul riconoscimento che l’alterità non è una minaccia ma una condizione costitutiva di noi stessi.16
I tanti anni di confronto tra noi credo non rendano necessario che io premetta il mio riconoscimento di quanto il mio e il nostro percorso come uomini abbia avuto nel femminismo strumenti per leggere e spazio sociale per esprimersi.
Qualche mese fa, in uno scenario evidentemente diverso mi ero trovato a condividere con Claudio Vedovati un intervento17 in cui affermavamo tra l’altro:

“Non ci piace l’ossequio di maniera al femminismo e al valore delle donne, non ci convince una posizione maschile che, anziché mettere in gioco se stessa e la responsabilità e il desiderio di stare nel mondo in modo differente, si limiti a dire di “dare spazio alle donne”. Le donne il loro spazio hanno iniziato da tempo a prenderselo autonomamente. La domanda, per noi uomini, è cosa vogliamo delle nostre vite e cosa vogliamo che cambi. [In quel testo ci riferivamo alla libertà femminile (più che all’autorità) e dicevamo che questa era stata] per noi l’occasione per costruire un percorso di libertà maschile. [e che dunque] le relazioni di differenza sono una scommessa politica che nasce contemporaneamente dalla affermazione della soggettività, dell’autonomia e della libertà delle donne e dal percorso critico di uomini della propria appartenenza di genere. […] In questa relazione il conflitto che ci sentiamo di mettere in gioco è quello per il riconoscimento della nostra soggettività e perché questa non venga schiacciata in una rappresentazione che liquida le differenze.”

Il tema della libertà e della soggettività femminile come elementi che interrogano, incalzano e sollecitano un percorso politico maschile è al centro di tutti i documenti di maschile plurale non come notazione teorica o astratta ma come risorsa per una riflessione sulla propria esperienza e come riferimento per una propria collocazione:

Viviamo nel tempo in cui le donne affermano sempre di più e ovunque la propria libertà. E’ un mutamento radicale, profondo, che cambia le vite di tutti. Per gli uomini non è facile riconoscerlo e accettarlo pienamente, forse perché può causare disagio, paura e rancore. Ricevere dei “no” o essere lasciati, per esempio, è per molti uomini ancora un’esperienza insostenibile, che può determinare il ricorso alla violenza: contro le compagne o ex-compagne, ma anche contro figli e figlie, a volte anche contro se stessi.
Noi conosciamo, almeno in parte, le dinamiche di questo disagio e di questa disperazione. E pensiamo che sia possibile reagire, vivendo e mettendo in gioco un desiderio costruttivo, capace di alimentarsi nel riconoscimento della differenza tra uomini e donne.
L’originaria angoscia maschile, legata anche al fatto di avere un corpo che non può generare, è stata fonte di insicurezza e paura, e ha prodotto ansie di controllo del corpo altrui. Tracce di quell’angoscia le ritroviamo nella sessualità, pensata e vissuta, nella cultura del dominio maschile, come strumento di controllo delle donne e di negazione dei diversi orientamenti sessuali. Questo ha schiacciato la nostra sessualità nell’ansia della prestazione, della verifica di una virilità associata al dominio, e ha ristretto la nostra socialità nella percezione del corpo maschile come minaccia, oltre che nell’ansia omofoba.
Incontrare la libertà e l’autonomia femminile ci mette di fronte al nostro limite e alla nostra parzialità. Quest’esperienza, invece di essere motivo di frustrazione, può dare inizio alla ricerca di una relazione libera, di uno scambio sessuale e affettivo nella differenza. 18

 

NOTE

1 L’autonomia e il senso del percorso di maschile plurale, per me. S. Ciccone www.maschileplurale.it

2 Sito libreria 24 luglio

3 la grande beffa Paola Tabet

4 Il legame insospettabile tra amore e violenza, Lea Melandri, Stefano Ciccone

5 Al centro della politica ci vuole eros, desiderio e immaginazione. Sara Gandini

6 Andare oltre la violenza. I desideri degli uomini, la politica, la vita. Maschile Plurale marzo 2013

7 Gen 2013 “Mio fratello è figlio unico” ”Cosa cambia se cambiano i desideri degli uomini?”

8 Stereotipi vecchi e nuovi, di Marisa Guarneri, www.libreriadelledonne.it 9 ottobre 2014

9 La questione maschile, di Marisa Guarneri www.libreriadelledonne.it 22 ottobre 2014

10 Al centro della politica ci vuole eros, desiderio e immaginazione. di Sara Gandini

11 Il punto fermo della differenza, lezione di Sara Gandini alla Scuola della differenza a lecce 2014

12 Idem

13 Uomini contro le donne? Le radici della violenza maschile, S. Magaraggia, D. Cherubini UTET Università, 2013

14 L'eros è l'essenza delle relazioni e lasciandogli spazio può capitare qualcosa di nuovo

15 Al centro della politica ci vuole eros, desiderio e immaginazione. Sara Gandini www.libreriadelledonne.it 26/4/2010


16 L’autonomia e il senso del percorso di maschile plurale, per me. S. Ciccone www.maschileplurale.it


17 Il percorso maschile a Paestum, di Stefano Ciccone e Claudio Vedovati 13 settembre 2013 http://paestum2012.wordpress.com/

18 Andare oltre la violenza. I desideri degli uomini, la politica, la vita. Testo collettivo di Maschile Plurale




5-11-2014


 

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