Maschilità
bifronte
Virilità ed effeminatezza: i due volti della comunità
storica degli uomini
di Lea Melandri
"L'omofobia
è qualcosa di più del timore irrazionale dell'omosessualità,
più della paura di essere considerati gay
trae origine dal
timore che altri uomini possano smascherarci, mettere in discussione la
nostra maschilità
scoprire che la separazione dalla madre
non è ancora del tutto compiuta." (Michael S.Kimmel,
Maschilità e omofobia, in Tra i generi, Guerini 2002).
L'esclusione della donna dalla vita pubblica non ha impedito che vi restasse
doppiamente implicata: per gli effetti del dominio che la comunità
storica degli uomini si è arrogata sul suo corpo e per quelle tracce
di "effeminatezza" che l'età virile eredita, suo malgrado,
dalla parziale identificazione originaria di ogni figlio con la madre,
e dalle cure che riceve da lei. Nel momento in cui si definiscono la figure
del maschile e del femminile, sulla base delle opposizioni note con cui
sono arrivate fino a noi -materia/spirito, biologia/storia, debolezza
/forza, ecc.- si può pensare che la donna sia già lontana,
confinata nell'interno delle case, e che a interagire nei vincoli, nelle
norme, nei linguaggi che gli uomini vanno costruendo tra loro, sia rimasta
soltanto la sua ombra. E'in questa posizione ambigua, di presenza e assenza,
che la femminilità si carica di significati e valenze contraddittorie,
diventando agli occhi dell'altro sesso perdizione e salvezza, mistero
e verità, morte e rigenerazione. Inscindibile dall'infanzia di
ogni essere umano, su di essa finiscono per convergere quei tratti, amati
e odiati, da cui il maschio ha creduto di poter prendere distanza: la
tenerezza, ma anche l'umiliazione e la dipendenza, la garanzia della crescita
e, al medesimo tempo, il rischio di rimanere per sempre bambino.
Le due donne che si presentano al bivio dove un Ercole adolescente è
chiamato a decidere del suo futuro, benché messaggere di destini
opposti - la mollezza dei piaceri del corpo e la virtù del cittadino
guerriero-, sono in realtà una persona sola, divisa tra la possibilità
di scomparire per lasciar vivere il frutto del suo sacrificio, o di restargli
a fianco, tentazione permanente e ostacolo al suo impegno civile. Il fascino
del mito mai tramontato che racconta il difficile, incerto passaggio dell'uomo-figlio
dall'abbraccio caldo e minaccioso della madre amante alla comunità
di padri e fratelli, trova in età moderna un'appassionata argomentazione
nella lettera che il giovane filosofo goriziano, Carlo Michelstaedter,
scrive alla madre il 10 settembre 1910, un mese prima di suicidarsi:
"Quando tu mi coprivi se avevo freddo, mi nutrivi se avevo fame,
mi confortavi quando piangevo
dimmi, allora, facevi questo come una
bambina fa con la sua bambola, come un'infermiera o una bambinaia, che
lo fa come lavoro quotidiano di tutta la sua vita, o lo facevi come la
mia mamma e mi nutrivi e mi riparavi e mi curavi perché ti crescessi
forte e sano, perché nella piccola, tenera, stupida cosa bisognosa
di tutto tu sognavi l'uomo forte, sicuro di sé di fronte a ogni
cosa
tu non mi curavi per potermi curare ancora in futuro, non mi
curavi con la speranza ch'io ti rimanessi eternamente fragile e impotente
oggetto di cure
ora io potrò camminare sulle mie gambe, ora
tu avrai i frutti del tuo lungo soffrire; ora non amerai più in
me il futuro incerto da curare e assicurare con la tua pena, ma il presente
vivo per se stesso. Pensa mamma alla tristezza, se stanco e sfiduciato,
adattato alla qualunque convenienza, col sorriso amaro e la sigaretta
sulle labbra io ti chiedessi il rifugio delle cure e delle carezze che
mi davi quand'ero bambino
" (C.Michelstaedter, Epistolario,
Adelphi 1983)
Lo sguardo impietoso, giudicante, con cui un uomo spia dietro la maschera
virile del suo simile il rimpianto di antichi piaceri e abbandoni, si
va a collocare su una linea di continuità con l'occhio di chi,
a sua volta, si volge preoccupato verso il retroterra della sua età
adulta, sperando di non trovarvi, immutata, l'offerta di cure di cui ha
già conosciuto i benefici. A segnare il traguardo di una raggiunta
differenziazione e autonomia rispetto alla condizione infantile di "piccola
cosa bisognosa di tutto", l'uomo chiama paradossalmente la persona
che lo ha avuto, confuso e indistinto, dentro di sé e poi in sua
balìa, e che ora per risparmiargli debolezze e umiliazioni, dovrebbe
accorparsi in qualche modo a lui, muovere i suoi passi nel mondo per suo
tramite.
La minaccia alla virilità non viene genericamente da un femminile
riconosciuto diverso dal punto di vista biologico e come tale carico di
enigmi, e forse non è neppure la conseguenza inevitabile dei segni
che lascia l'appartenenza intima all'altro sesso nella fase prenatale.
Il gesto monotono e ripetitivo della "cura", in cui si vanno
a sovrapporre in modo inquietante il gioco della bambina con la bambola,
il lavoro dell'infermiera e della bambinaia, è quello che la storia
ha ritenuto fin dai primordi connaturato al femminile, così come
"naturale" è sembrata la rinuncia della donna a porsi
come individualità. Carlo Michelstaedter, fanciullo profeta della
lunga notte che ha tenuto gli umani in una infantile reciproca dipendenza,
giungerà a "gridare" per la prima volta la sua voce di
"uomo libero", non a tutti gli uomini come avrebbe voluto, ma
indirettamente, a una "commissione di professori". Quasi del
tutto assente dal suo unico libro, La persuasione e la retorica , tesi
di laurea incentrata su un'idea di libertà "assoluta",
sciolta da legami e nostalgie di infanzia, l'ombra di figure femminili
calde e protettive occupa invece interamente l'Epistolario, lettere spedite
da lontano ai famigliari, nel disperato tentativo di cancellare distanze
e separazioni.
Il dissidio mortale tra la tenerezza del figlio, che rimanda perennemente
la sua "uscita alla vita", e l'imperativo che chiama a una virilità
forte, imperturbabile, si tradurrà, negli stessi anni, nella teorizzazione
di più ampio respiro di Otto Weininger, improntata a toni opposti
di profonda misoginia e di odio razzista nei confronti della donna, considerata
nella sua "essenza" materia che genera e sessualità,
vita inferiore alogica e amorale, che insidia l'uomo dall'interno, perché
ne rappresenta la colpa e la caduta, mentre contamina, allo stesso modo,
popoli "effeminati", come gli ebrei e gli arabi.
Ad avvicinare Carlo Michelstaedter e Otto Weininger, l'autore di Sesso
e carattere, pubblicato a Vienna nel 1903, è apparentemente
solo il destino tragico di giovani suicidi e di pensatori estremi, indotti
a esplorare zone di frontiera dell'esperienza umana dall'assolutizzazione
di una frattura antica tra corpo e mente, femminile e maschile, abbandoni
sensuali e perfezionamento dello spirito. Ma dovrebbe far pensare il fatto
che due figure così drammatiche della maschilità, oltre
che della cultura occidentale nelle sue radici classiche e cristiane,
si vadano a collocare in quell'inizio di secolo, il '900, che già
segnalava una presenza diversa, consapevole e combattiva, delle donne
nella vita pubblica, come se il minaccioso corpo della madre, prima di
eclissarsi dietro l'insegna di donne emancipate, volesse lanciare i suoi
ultimi bagliori.
Quando riemerge sulla scena pubblica con tutta la sua carica di potenza
carnale generatrice e di estasi erotica, attraverso gli scritti che negli
anni '30 esaltano la mistica della guerra, la femminilità è
già parte integrante, assunta ora in modo esplicito, del rapporto
tra uomini. L'omofobia, da potente dispositivo di paura e difesa rispetto
a possibili cedimenti "femminili", si rivela, per un altro verso,
come la più efficace copertura della convivenza e dei compromessi
che il maschile e femminile hanno trovato all'interno di una società
di simili, in quanto volti opposti e complementari dello stesso sesso.
"Quinton considera la guerra come lo stato naturale dei maschi.
Essa dà loro la forza morale che la maternità dà
alle donne
Il contatto col nemico è un contatto con l'amore.
Le prime linee a riposo sono donne che dormono. Quest'atmosfera ispira
al maschio il senso dell'infinito. Egli comprende che è fatto per
essere sacrificato. La tentazione di morire si impadronisce di lui come
si impadronisce della femmina la tentazione di partorire." (
Roger Caillois, La vertigine della guerra, Edizioni Lavoro
1990).
Anche se mette a repentaglio le costruzioni millenarie della civiltà
e minaccia oggi la sopravvivenza stessa della specie, la guerra non ha
mai smesso di essere pensata come un ritorno "alle leggi semplici
e brutali della natura", a una maschilità guerriera tanto
più virile quanto più fa proprie quelle passioni, gioie
e patimenti del corpo che a malincuore ha creduto di dover consegnare
alle donne e alla sua memoria di bambino. La stessa società che,
come scrive Virginia Woolf nelle Tre ghinee, congiura a trasformare il
"fratello privato" in un " maschio mostruoso, dalla voce
prepotente e dal pugno duro", non ha mai smesso di accogliere, tollerare
e per certi aspetti incentivare quel sottobosco di "non- uomini"
-fanciulli, donne, schiavi, omosessuali, prigionieri, migranti- contro
cui riaffermare i propri paradigmi di vigore fisico e morale. L'Occidente,
come Ercole, mitico eroe della "fatica" guerriera civilizzatrice,
fondatrice di città, si accanisce ormai da secoli contro popoli
e culture che considera "altro" da sé, forze della pura
naturalità, effeminate o ipervirili, incapaci di un sano, civile
ordine democratico. Mai, come nelle guerre che oggi si definiscono "preventive"
e "umanitarie", secondo un'astratta contrapposizione di Bene
e Male, civiltà e barbarie, è stata così chiara la
parentela tra femminilità, omosessualità e razzismo, tra
i richiami al sesso che è stato escluso dal patto sociale e il
trasferimento immaginario che una comunità storica di soli uomini
ne ha fatto, per cementare legami al proprio interno.
In America e nei paesi dell'Unione europea si discute ormai apertamente
di matrimoni gay; nelle capitali del mondo le manifestazioni-spettacolo
dell'Orgoglio omosessuale sfidano l'opposizione dei governi conservatori
e delle chiese. Eppure rimane il sospetto che, dietro la maggiore tolleranza
riservata ai corpi, alla sessualità, alla differenza tra i sessi
e alle molteplici forme dell'amore, si nasconda la segreta pacificazione
di una maschilità che può spostare sull'anomalo, sul diverso
divenuto visibile, esperienze, interrogativi, passioni, difficili da riconoscere
in se stessa.
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