Messina

di Maria Rosa Cutrufelli


Frida Kahlo

 

Purtroppo, una storia come molte altre. La cronaca ci ha abituato a storie di questo genere. Uomini che uccidono donne: per gelosia, per vendetta, per l'insopportabile lacerazione di un abbandono. Questa volta è un fratello (ma poteva essere un padre, un marito, un amante) che uccide una sorella (ma poteva essere una moglie, una madre). Ai carabinieri dice di aver ucciso perché lei aveva 'disonorato' la famiglia - quindi anche lui, fratello minore - partorendo un figlio fuori dal matrimonio. Sono entrambi della Locride, nipoti di un capo della 'ndrangheta calabrese. Lei però si è allontanata da quella famiglia ingombrante e vive - del suo lavoro - a Messina, di là dallo Stretto. Dunque, stando alle prime dichiarazioni del ragazzo (il movente però è tutto da dimostrare), si tratterebbe del vecchio 'delitto d'onore', risuscitato per l'occasione da un giovane di 24 anni. Ma attenzione, ci ammoniva ieri Francesco Merlo su Repubblica, "qui non c'entrano la questione meridionale, la povertà, la disoccupazione", non facciamoci fuorviare dallo stereotipo razzista che dipinge un meridione culturalmente e socialmente arretrato, non lasciamoci accecare dal pregiudizio. Giovanni Morabito ha ucciso non perché così vuole la sua appartenenza geografica o una (in ogni caso sorpassata) 'cultura' mafiosa, ma perché è un "matto criminale", che potrebbe essere nato indifferentemente a Milano, a New York o a Kabul.

Parole di esemplare civiltà. Che fanno bene al mio cuore di donna messinese. L'insulto razzista è una ferita che non si rimargina mai... E tuttavia non riesco, proprio non riesco a considerare Giovanni Morabito semplicemente un "matto criminale". Per almeno tre ragioni.
Intanto perché il suo delitto non è isolato, non ha niente di originale, non è una stravaganza che viene dal passato. E ne fa fede la cronaca, come ho scritto all'inizio. In altre parole: noi viviamo in un mondo, in una società, in cui ancora gli uomini si sentono padroni delle donne. Del loro corpo. Dei loro sentimenti. Viviamo in una società che nelle sue strutture profonde è rimasta fortemente patriarcale. Che non accetta la libertà femminile. Che la punisce in mille modi e ovunque, nel lavoro e nella vita politica, nei rapporti sociali e in quelli interpersonali. D'altronde non mi sembra un caso che sia stato abolito solo nel 1981 il famigerato articolo 587 del codice penale, quello che non considerava il delitto d'onore (ovvero: la punizione 'privata' delle donne) come un vero e proprio delitto. Nel 1981, ripeto: dopo la conquista del divorzio, dopo la legge sull'aborto. Come mai un simile ritardo? Era così difficile abolire un articolo di legge esecrato all'unanimità, almeno in apparenza? Era più difficile abolire un'ignominia che ci rendeva lo zimbello d'Europa che non conquistare il divorzio e la legalizzazione dell'aborto? Ma forse perfino divorzio e aborto possono rivelarsi semplici ammodernamenti sociali (come sosteneva Pasolini). Necessari ritocchi al vecchio volto del patriarcato, un 'lifting' di ringiovanimento. Mentre l'idea dell'inviolabilità del corpo femminile, l'idea che la donna è sempre e ovunque soggetto a pieno titolo - "io sono mia", diceva un vecchio slogan - può essere 'troppo' pericolosa.

E poi c'è la famiglia. Intesa come società naturale e perciò immutabile. Dove i ruoli sono fissati per legge divina (fuori dal controllo umano, in ogni caso). Dove è difficile, forse impossibile, capire da che parte sta l'amore e da che parte sta il diritto. Come si può capire l'evoluzione o l'involuzione di qualcosa che sta al di fuori della storia umana (benché viva 'dentro' la storia umana)? Come si può capirne le patologie? Giovanni Morabito è un giovane con qualche precedente penale, che vive ancorato alla famiglia d'origine. Lei, Brunetta Morabito, si è inventata una vita tutta sua, ha tagliato i vecchi legami familiari, ha rotto perfino un matrimonio, scegliendo un altro uomo, un altro luogo dove condurre una vita diversa e far nascere un figlio. Si è sottratta al suo destino 'naturale'. A cui il fratello, con il suo gesto, l'ha nuovamente inchiodata.

E poi c'è la 'ndrangheta. O la mafia. 'Cosa nostra', che significa: cosa di uomini. Non perché le donne siano estranee al mondo mafioso. Tutt'altro, ahimé. Sono spesso conniventi e altrettanto spesso partecipi a pieno titolo di attività mafiose, conducono affari, comandano delitti e talvolta (più raramente) li commettono. Ma 'cosa nostra' è cosa di uomini perché lo spirito di mafia è direttamente legato alla mitologia delle virtù maschili. Perché non si fonda solo su un astratto 'concetto di onore', ma su un concretissimo 'culto della virilità'. Perché si basa sulla signoria prevaricatrice del maschio e sul sacrificio femminile sia all'interno della famiglia che della società. La mafia è l'irrigidimento, drammatico e caricaturale, del patriarcato.

Giovanni Morabito ha detto una cosa agghiacciante. Quando gli hanno chiesto come mai ha sparato alla sorella solo ora e non prima, ha risposto: "le donne incinte non si ammazzano mai". Tipica frase da codice d'onore mafioso. Un clichè, commentava giustamente Francesco Merlo. Un clichè che non ha più corso in nessun luogo, né al nord né al sud.
E allora probabilmente Giovanni Morabito è davvero un "matto criminale". Ma un "matto" che si sente autorizzato ad essere tale. Il prodotto folle - nel senso di estremo - di una cultura patriarcale, familistica, mafiosa che sopravvive a se stessa.


Pubblicato su Liberazione 28-3-06