Le nuove mercenarie

di Tahira Abdullah



 

“Ecco che passa di nuovo la brigata Ninja”. Questo era un ritornello familiare tra la gente, durante i sei mesi di crisi ad Islamabad, nell’osservare le donne negli abiti neri che lasciano visibili solo i loro occhi. Fra la maggioranza della popolazione dell’Asia del sud (che parla Urdu, Hindi, Bangla, Punjabi) il termine più usato è “burqa posh”, che denota non solo l’infame burqa blu con la grata da pollaio, di rigore durante il regime talebano in Afghanistan, ma anche le più recenti importazioni dall’Arabia Saudita e dal Golfo, gli hijab ed i niqab.

Tale codice d’abbigliamento è in netto contrasto con le secolari pratiche di una larga parte delle donne dell’Asia del sud, che al massimo coprono parzialmente la testa con vari chunni, dupatta, chaddar, scialli, sari o semplici sciarpe, e alcuni di questi copricapi sono opachi, altri sgargianti, alcuni di garza, altri di chiffon.
Entrambe le mie nonne musulmane, non segregate e non recluse, entrambe relativamente progressiste, liberali e “moderne” coprivano le loro teste in questo modo. Il che era più parte di un’eredità culturale comune alla regione, anziché un precetto islamista o religioso. La mia zia hindu, che vive in un ashram vicino a Delhi, a volte si copre la testa per la stessa ragione, e così fanno in alcune occasioni le mie amiche baha’i, buddiste, sikh e parsi.

I gruppi rampanti di donne in burqa sono solo il volto più ovvio e recente dell’Islam militante. Di maggior importanza è la piana, persistente penetrazione di un tipo estremista di Islam militante nelle istituzioni politiche e laiche, nella burocrazia e nel sistema educativo pubblico, portato avanti da donne che vedono se stesse come le rappresentanti della “vera” fede. Ovviamente la fede ha svariate sfumature, e va da devoti osservanti che la vivono come qualcosa di molto personale, a coloro che predicano e fanno sermoni, in modo invasivo, contro quelli che percepiscono essere “in errore”.
Poi c’è una terza categoria, che ha preso su di sé il compito della salvazione non solo dei musulmani nell’ummah, ma dell’intera razza umana. Questo trend fanatico è in diretto contrasto, e le contravviene seriamente, con le numerose ingiunzioni coraniche sulla non imposizione della religione, non imposizione che si applica a uomini e donne. Gli estremisti di questo tipo comprendono i militanti transnazionali e attentatori suicidi di Al-Qaida, lo “stato entro lo stato” creato dai militanti della moschea rossa ad Islamabad, la coalizione politica pakistana Muttahida-Majlis-e-Amal (MMA); così come i finemente istruiti, nati in Gran Bretagna ed allevati come radicali, quelli che hanno rapito e assassinato il giornalista Daniel Pearl a Karachi.
A tali autoproclamati custodi della fede, il cui solo obiettivo è l’ottenimento di potere politico per poter imporre la sharia come legge della Terra, la gente si riferisce di solito, in Urdu, con un peggiorativo: sono i “thekedar”, i mercenari.

Un fenomeno più recente ma ancora poco discusso è la rapida crescita del numero di donne che entrano nella branca estremista. Il trend può essere fatto risalire al regime repressivo e brutale del generale Zia ul-Haq ed al suo cosiddetto “programma di islamizzazione”, di cui tutti riconoscono l’essere stato poco più di un artificio per prolungare la sua illegittima permanenza al potere. Sebbene Zia non ci sia più dal 1988, i suoi eredi non sono solo vivi e scalcianti oggi, ma molti di essi sono al potere nell’amministrazione pakistana attuale, guidata da una giunta militare.
Il generale Zia usò il più vecchio dei partiti politici-religiosi, Jamaat-e-Islami (JI, che ha equivalenti in Bangladesh ed in India) per darsi una facciata di legittimità. In cambio, fece ampie concessioni agli islamisti, per la maggior parte concernenti la repressione delle donne e delle minoranze religiose, come le note “ordinanze hudood” del 1979 e svariate leggi contro la blasfemia. Il partito non toccò mai questioni spinose tipo l’islamizzazione dell’economia, che avrebbe significato eliminare l’interesse (“riba”, o usura) e che sarebbe ovviamente stato troppo indigesto per il corrente ordine economico globale.

Il generale Pervez Musharraf tentò di seguire la stessa strada usando l’MMA per il voto del 17° emendamento costituzionale, quello che gli ha permesso di essere allo stesso tempo presidente e capo delle forze armate. Ha anche tentato di giocare la carte dei diritti delle donne con l’aiuto di una folla curiosamente variegata, che includeva dall’MMA al Partito pakistano del popolo (PPP) che inclina a sinistra.
La tattica non solo non ebbe successo, ma Musharraf finì per alienarsi sia gli ortodossi sia i progressisti con un annacquato “Atto per la protezione delle donne” nel 2006, che permetteva la morte per lapidazione in caso di adulterio e l’inammissibilità nei processi legali di testimoni che fossero donne o non musulmani, e però non replicava le ordinanze hudood.

Uno sviluppo più sinistro cominciato durante gli anni di Zia, e il cui impatto negativo affligge la società ancor oggi, fu l’islamizzazione dei curriculum per funzionari e insegnanti delle scuole pubbliche. Questo fu fatto da mullah bigotti e misogini, che si intrufolarono nel Ministero dell’Istruzione e pianificarono la loro occupazione con il reclutamento di impiegati a tempo pieno e con la partecipazione a varie commissioni e comitati creati ad hoc.
Di nuovo, il fulcro centrale del programma erano le donne e le minoranze (in special modo gli hindu). Come risultato finale, un’intera generazione di bambini cresciuti negli anni ’70 e ’80 è stata indottrinata di misoginia patriarcale e di odio per fedi diverse. Questo filone ricevette ancora maggior sostegno durante l’invasione sovietica dell’Afghanistan nel 1979, quando più di tre milioni di rifugiati afgani passarono i confini: per la maggior parte erano conservatori, con visioni patriarcali sul trattamento da riservare a donne e bambine e sui loro diritti.

Dai primi anni ’80 in poi, insistendo su una supposta minaccia all’Islam proveniente dal comunismo, i partiti politico-religiosi pakistani cominciarono ad addestrare ragazzi pakistani e afgani nelle madrassa, affinché si unissero alla jihad. In questo lavoro furono aiutati dai fondi elargiti dagli Usa e dall’intelligence pakistana.
Gradualmente, venne alla luce che anche le ragazzine frequentavano queste madrassa, sebbene la ragione per cui i loro genitori ce le iscrivevano avevano più a che fare con una miseria durissima che con il fervore religioso. All’epoca, i livelli di povertà in Pakistan si aggiravano attorno al 35/40%, con concentrazione nelle aree rurali dove erano stati ammassati i rifugiati afgani.
Non è una coincidenza che la percentuale di alfabetizzazione femminile nella zona andasse dallo 0,8% al 2%.

Quasi simultaneamente, due altri fenomeni cominciarono ad emergere in Pakistan. Uno fu l’ascesa della seconda fase del movimento per i diritti delle donne, con la formazione del Forum d’Azione delle Donne (FAD) nel 1981, che entrò in collisione aperta con la giunta di Zia, specialmente riguardo alle numerose leggi discriminatorie che venivano promulgate, e alle severe restrizioni imposte alle donne.
Il secondo fu l’opposizione al FAD da un gruppo di donne urbanizzate, appartenenti all’inizio alla classe elitaria, ma che incorporarono in seguito anche donne della classe media. Una di queste donne velate della classe superiore era Apa Nisar Fatima, membro del Majlis-e-Shura (una sorta di parlamento islamico) controllato dal generale Zia. Ella fondò un’organizzazione chiamata Pakistan Anjuman-e-Khawateen-e-Islam (PAKI, cioè Associazione pakistana delle donne dell’Islam), strettamente legata al partito Jamaat-e-Islami. Fatima reclutò donne professioniste, molte delle quali avevano studiato in università statunitensi, affinché diffondessero la sua propria rigida, e retrograda, versione dell’Islam. Il PAKI è rimasto un gruppo piccolissimo, ma la sua influenza è sproporzionatamente grande.
Una delle diffusore di questo proselitismo aggressivo fu la dottoressa Farhat Hashmi, insegnante al Campus delle donne nell’Università internazionale islamica di Islamabad. Hashmi fondò anche una sua propria scuola, “l’Accademia internazionale al-Huda per le donne”, dove sembrò limitarsi ad insegnare l’arabo ed a interpretare e tradurre il Corano in inglese ed urdu.
La vera agenda di Hashmi emerse però in fretta: si trattava di impedire la crescita dell’autorevolezza del Forum d’Azione delle Donne e delle altre ong che si occupavano di diritti umani. A tutt’oggi, le fonti di finanziamento del gruppo e della scuola restano un mistero, sebbene si speculi su vari mentori politici. Rapporti dei media internazionali indicherebbero anche l’assistenza di gruppi militanti attualmente banditi in Pakistan.

Hashmi si trasferì in Canada dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001, paese dal quale è stata recentemente espulsa per aver diffuso materiale che incitava all’odio fra le religioni, e per aver predicato in tal senso.

Le tattiche divisate da Fatima, Hashmi, e dalle loro seguaci, non erano limitate a commenti al vetriolo sulle donne del FAD e delle ong per i diritti umani (“infestate da immoralità occidentale”). Insistettero perché le loro rappresentanti fossero nominate al Parlamento negli anni ’80 e ’90. Persino il Parlamento attuale ha seggi riservati a tali donne, seggi che appartengono alla coalizione Muttahida-Majlis-e-Amal.
Inoltre, insistettero affinché costoro diventassero i membri ufficiali di tutte le commissioni riguardanti le donne: dalla Commissione sullo Status delle Donne (1983-85) alla Commissione d’inchiesta sulle Donne (1995-97). Sono state così efficienti e sostenute che la Commissione permanente sullo Status delle Donne, messa in piedi da Musharraf nel 2001, ha un seggio permanente per una “docente islamica”.
Ogni volta in cui queste commissioni finiscono ovviamente per raccomandare dei miglioramenti (ad esempio il ripudio delle “ordinanze hudood” e di leggi simili), queste donne scrivono una nota di dissenso al testo, che chiedono venga considerata come parte integrante del rapporto.

Poiché ormai queste estremiste si sono infilate in ogni nicchia offerta da governi federali e provinciali, ministeri e dipartimenti, hanno una conoscenza prioritaria delle conferenze internazionali, ed inviano ad esse i loro documenti politici. Si fanno nominare come membri di tutte le delegazioni ufficiali e spesso riscrivono e manipolano i documenti che vengono loro consegnati sino a che questi non le soddisfano.
In pubblico, le tecniche intimidatorie delle estremiste pakistane hanno preso sia forme aperte, sia forme più sottili. Al primo gruppo appartiene quanto si è manifestato durante la crisi relativa alla moschea Lal Masjid: le immagini di donne urlanti, completamente coperte di nero, con bastoni in mano, resteranno a lungo nella memoria collettiva della regione. Le forme più sottili includono la pretesa di essere le sole esperte di Islam: usano regolarmente Allah, il Corano, il Profeta e la sunnah (la tradizione) contro i loro oppositori durante i dibattiti pubblici.

Ci sono molte ragioni che inducono queste donne a propagandare una visione rigida e distorta dell’Islam e dei diritti delle donne. Quella che loro danno più spesso è che tale visione è un obbligo religioso, e che chi non la condivide sta violando terribilmente i comandamenti di Allah.
Poi sostengono di essere più “sicure” grazie al codice di abbigliamento, che secondo loro evoca “rispetto” nei maschi e ne spegne la lussuria, e inoltre, accettano la superiorità maschile e la subordinazione delle donne perché, dicono, così è ordinato dal Corano. Fare questo, aggiungono, dà loro un’ineffabile pace interiore, e relazioni maschio/femmina così armoniose da non poter produrre se non famiglie pacifiche e felici...

A livello globale, la crescente polarizzazione tra Islam ed Occidente sta certamente contribuendo a spingere le donne musulmane verso forme estremiste di religione che sono in realtà progetti politici. Ma questa è una spiegazione parziale.
Alcuni fanno notare che la piattaforma dell’islamismo politico, in una società profondamente conservatrice dove le donne letteralmente non sono ne’ viste ne’ sentite, può rivestire un certo appeal. E questo è sicuramente vero per le donne che vogliono far gruppo con altre donne nella stessa situazione, per sfuggire (non importante quanto temporanea è la fuga) alla dominazione di padri, fratelli e mariti.
Altri ascrivono la tendenza delle donne pakistane ad unirsi ai gruppi estremisti come il risultato delle crescente disparità economiche e di genere, particolarmente nei campi dell’istruzione, dell’impiego e dell’accesso alle risorse: un dato di fatto su cui la maggior parte delle attiviste per i diritti delle donne sarebbero probabilmente d’accordo.

 

 da Himal/Southasian ottobre/novembre 2007
da cui è tratta anche l'immagine dell'artista indiana Karen Haydock

trad. Maria G. Di Rienzo

 

26/11/2007

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