“Andate in palestra, piuttosto”
di Camilla Cederna

pubblicata da L’Europeo nel 1950

I giovani incolonnati la sera del 30 dicembre verso il Piccolo Teatro di Milano sembravano piuttosto recarsi a una corrida invece che alla conferenza della senatrice Lina Merlin sulla "Abolizione di una schiavitù".
Rossi in viso, con le sciarpe an­nodate fuori dal bavero dei soprabiti, fischietti in tasca e grandi cartelli con sopra scritti in inchiostro rosso consigli alla senatrice: «Lina fa la calza» oppure «Merlin non t'impicciare», entrarono ridendo nella sala dove gli inservienti in guanti bianchi indicarono loro i posti con gesti complici e amichevoli.

Così, la sala, a parte qualche fila di poltrone occupate da meste signore sui cinquant'anni, da grossi uomini calvi e da piccoli vecchi afflosciati dentro ampi cappotti, prese l'aspetto di uno stadio sportivo. Chi pestava i piedi, chi batteva le mani, e molti, compresi quelli che erano dello stesso parere, cominciarono presto a litigare fra loro: «Cosa faranno dopo le ragazze? Ne prenderesti una in casa come cameriera?

Come vivrà quel mobiliere di Cantù specializzato nell'arredamento delle case chiuse?». Quindi si misero tutti d'accordo nel fare a voce alta le più stravaganti supposizioni sulle cause del ritardo della conferenziera. «Fuori il lupo», gridarono a un tratto, chiamando ripetutamente la signora Merlin sul palcoscenico come un'attrice, e scandendone il nome, finché («Eccolo, eccolo») davanti al tavolino coperto di rosso comparve l'oratrice, paragonabile, con maggior proprietà, alla nonna di Cappuccetto Rosso.

Vestita di nero, con una scollatura modesta e due grossi spilloni infissi come spade incrociate sul berretto nero da cui sfuggivano i morbidi ricci grigi. La sua voce era invece gracile e cristallina, con alcune intonazioni infantili, eppure risoluta, una voce gentile, che uscen­do da labbra lievemente appassite, pronunciò tutto il tempo parole molto gravi, facendo trasalire una signora entrata per caso e presto assopita, che si svegliava per mormorare al suo vicino: «Che modo di parlare, mio Dio», (si svegliava, infatti, alle parole: sesso, prostitute, afrodisiaci, spirochete, prosseneti). La signora Merlin parlò senza leggere e senza il minimo impaccio, e benché spesso in­terrotta dagli studenti con fischi, esclamazioni ironiche o indignate, non perse mai la calma.

La sua conferenza cominciò come un racconto. «Come mai», le chiedono spesso, «le è venuta una simile idea? In seguito a quale brutto so­gno, a quale cattiva digestione, ha pensato di mettere in subbuglio l'Italia?». Con molta semplicità spiegò la ragione della sua iniziativa al pubblico. A parte il fatto che è l’81esima persona nel mondo che ha presentato questo stesso progetto di legge, rivendicando la parità dei diritti per la donna nei rapporti tra i sessi, la senatrice disse che, nel far sua questa proposta, fu mossa da un profondo senso di giustizia offeso tanti anni fa, proprio da una persona che amava molto, la sua nonna.
Giunta al giorno del fidanzamento, la nonna infatti le aveva detto: «Ti raccomando di comportarti secondo le leggi della morale comune. Non indagare mai cosa fa e dove va il tuo fidanzato. Se vieni a sapere che frequenta "sciagurate", non indignarti, e lascia fare. Sono loro che ti permettono di salire all'altare con i fiori d'arancio. Per fortuna c'è qualcuno che si sacrifica per te».

Fu allora che la signora Merlin decise di aiutare le donne che le avevano permesso di andare all'altare con i fiori d'arancio. A questo punto il pubblico del Piccolo Teatro si divise: mentre le meste signore, alcuni operai dalle mani marrone e le donne più giovani applaudirono approvando, i ragazzi con il berretto goliardico e i foruncoli sulla fronte cominciarono a protestare gridando: «Viva la nonna». Ridevano come se avesse­ro udito un'arguta barzelletta.

Risero anche quando, sempre impassibile, la conferenziera fece una rapida storia della prostituzione regolamentata; batterono le mani a Napoleone Bonaparte che fu il primo ad averne l'idea, quindi a Camillo Benso conte di Cavour che introdusse in Italia il sistema francese, e infine a Vittorio Emanuele II che non rispose mai a una lettera di protesta e deplorazione del papa, ridendo inoltre del deputato medico Tommaso Crudeli, che nel 1885 volle fare un'esatta e documentata statistica degli svantaggi delle case chiuse, ma ne fu sempre ostacolato dai ministri allora in carica. «Vedete?», disse la signora Merlin, «è sempre stato difficile lottare contro il danaro guadagnato troppo facilmente sulla sventura».

Allora gli studenti non risero, ma, scontenti di non poter interrompere, approfittarono della partenza di un signore molto colorito in paltò di cammello, per gridargli: «Tenutario, hai paura?». E il signore se ne andò senza voltarsi. Alla cruda descrizione che seguì, da parte della signora, di una di quelle case, i giovani trattennero il fiato, approvando l'esatto ordine gerarchico degli sfruttatori elencati, la descrizione dei cartelli, compreso quello che «con tanto di bollo della Repubblica italiana reca scritto il prezzo dell'imposta generale d'entrata».
«Serve anche per i vostri gettoni di presenza», urlò un uomo grasso e nero. «Sì» rispose la senatrice. «E so che non è giusto. Fuori dell'istituto del matrimonio, ogni rapporto è privato, e lo Stato non deve entrarci per nulla».

La signora Merlin fece poi il nome di alcune case di Roma, ne disse le tariffe, la lunga lista delle spese che devono sostenere le ragazze e quella ancora più lunga dei guadagni dei proprietari e degli ingaggiatori, descrisse il terrore che le prostitute hanno della polizia, denunciò le pene che minacciano "quelle giovani sventurate", la loro triste fine, la loro difficile riabilitazione in una società che esige che passino tre anni prima che una si rimetta a lavorare onestamente. Abolire dunque la connivenza dello Stato con questo mercato, concluse la senatrice, dare una nuova dignità alla donna, curare le malattie, impartire ai giovani una precoce educazione sessuale e dare alle loro esuberanze altri motivi di vita. «Quali?», tuonò la platea.

«Andate in palestra, e fate degli sport», consigliò la senatrice. «Se foste giocatori di calcio, il vostro allenatore vi imporrebbe la castità, e voi obbedireste», gridò la senatrice, agitando per la prima volta le sue piccole mani bianche e grassocce. «Ma qui siamo al catechismo», protestarono alcuni giovanotti andandosene con aria offesa. Gli altri lasciarono il teatro alla fine della conferenza, ed erano più rauchi della senatrice Merlin, che fino all'ultimo parlò con la sua esile voce, continuando a dar statistiche di malattie, percentuali precise di guarigioni e di riabilitazioni.

Gli studenti riposero i loro cartelli dentro le buste di cuoio e risalirono le scale discutendo. «L'è profetica, l'è brava, l'ha parlato come la "sibilla cubana"», concluse un operaio confessando che, in tre anni di matrimonio, in quelle case c'era stato soltanto quattro volte. «Ma non possiamo diventare tutti atleti», diceva un giovane magro; «Un'altra Merlin», fece un altro, spostandosi con un balzo da una vecchietta che gli consigliava di far tesoro di quella conversazione, invece di far dello spirito cretino.
Quasi tutti poi si incolonnarono di nuovo, guardati con sospetto dagli agenti della Celere, di guardia al teatro, e con sorpresa dai milanesi, mentre passavano per via Dante cantando in coro: «Abbiam poche primavere / e vogliam sempre godere».

9-03-2009

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