Ritornando
intorno alla metafora della parola - un'incontro promosso dalle donne
della biblioteca di Cabella Ligure (Alessandria), che si è
svolto il giorno del 23 settembre 2005 - riprendo i temi che riguardano
il pensare, lo scrivere, l'interpretare.
La
metafora della parola
di Donatella Bassanesi
Pensare
"Pensare
ha l'effetto di una magia illuminata che permette di sostituire, creare
e prevedere l'esperienza, il mondo e gli uomini. La necessità della
ragione dà alle possibilità pensate un barlume di realtà,
infonde ai desideri razionali una specie di vita illusoria, non lascia
avvicinare l'inammissibile reale, non lo riconosce" (H. Arendt, Rahel
Varnhagen. Lebensgeschichte einer deutschen Judin aus der Romantik, R.
Piper & Co. Verlag, Munchen, 1959. Tr. it. Rahel Varnhagen. Storia
di una ebrea, Mondadori, Milano, 1988, pp. 16-17).
Il pensiero appartiene al non-tempo del passato e al non-tempo del futuro
- e i racconti sono attraversati da pensieri: quelli che li fanno nascere
(il pensiero crea parole) e quelli che ne derivano (il pensiero si ricrea
nelle parole: nuovi pensieri cercano nella parola che racconta, mentre
il fatto è salvato dal sistema nel quale è posto, entra
in relazione con i simboli e ne diventa esso stesso parte).
Il pensiero sta anche nel presente. Poiché si pone come interrogazione
non può che interrogare il presente. E poiché il pensiero
interroga il presente (che è frammento), come frammento mostra
il senso e il tempo-frammento transitorio (mortale). Riconoscendo il presente
come crisi, si colloca ai limiti del mondo, tra le macerie che sono il
presente, in spazi invisibili, in un non-luogo parallelo al tempo (e al
mondo, che è degli oggetti), in quel non-luogo a ragione del quale
è possibile ricordare e immaginare (i non-luoghi del passato e
del futuro). E sta nell'ombra, dove ci sono incrinature, interstizi, passaggi
come vuoti, non-luoghi imprigionati dal fondo, che stanno al di là
degli ordinamenti. Ai limiti del mondo, il pensiero, oscuro interroga
il presente (l'altro, sé altro) dove l'ombra si stacca dal corpo
e mostrandosi come pura ombra affronta l'oscurità.
Il pensiero così osserva il tempo (che è presente, è
strada interrotta, è spezzato, sta come frammento tra passato e
futuro), e interviene nell'interruzione, in un certo senso facendone parte.
Mentre il tempo - che è "la vita dell'anima", "è
in essa e insieme con essa", generato dall'anima che è l'irrequietudine
della mente (Plotino, Enneadi), deriva dall'esplosione del non-tempo del
passato (il ricordo) e del non-tempo del futuro (l'immaginazione) - è
tempo-istante: infinitamente più limitato rispetto al non-tempo,
agisce direttamente sulle cose, per la sua limitatezza in-influente rispetto
al fluire del non-tempo, è inizio, segno, incide la strada, che
è poi quello spezzone di strada che sta tra il non-tempo e il non-luogo
(del passato e del futuro), e si produce come anima.
Perciò il pensiero si produce continuamente, rende al tempo il
movimento (rende il tempo movimento) - "La pensée n'a nì
commencement nì fin. Nous pensons aussi longtemps que nous vivons
parce qu'il nous est absolutment impossible de faire autrement (H. Arendt,
Introduction a H. Broch, Création et conossaince, Gallimard, 1966,
p. 24) - mentre, per altro verso, la parola accende il pensiero, sta all'origine
dell'attività pensante ed è il senso della presenza umana
nel mondo (H. Arendt).
Dunque la
parola è il pensiero del presente (è nel presente), e affronta
la fatalità del non-tempo. In altri termini, lo spazio di riflessione
dilata il presente, mettendo il tempo presente in relazione al non-tempo
passato e futuro.
Una parola spezza il silenzio da cui proviene (si dice spezzare il silenzio).
C'è un mutamento di stato. Il silenzio precedente compare come
un silenzio sospeso: qualcosa era sospesa nell'aria, stava per avvenire,
la tensione si risolve nel suono. Di quel silenzio porta le tracce, e
sul quel silenzio lascia un segno (sta tra vita e morte). "Il silenzio
è una parola che non è una parola" (G. Bataille). Sappiamo
del silenzio dell'universo. Riusciamo a immaginare un perfetto silenzio?
(quando abbiamo sentito provenire da Titano il satellite di Saturno un
suono come un soffio, un vento, l'impressione è stata di essere
in presenza della vita, di una vita in farsi, abbiamo pensato a un processo
evolutivo simile a quello della Terra. C'è un legame tra soffio
e respiro che sembra rendere al soffio la natura del respiro: il respiro
della Terra - le maree, il cambiarsi dei venti - è un soffio, una
temperatura, e il respiro nostro che va con il battito del cuore, è
il soffio corrispondente al battito quasi inavvertibile, assordante, del
cuore). Così la parola si stacca dal silenzio originandosi dal
silenzio stesso. È come se il silenzio si alterasse allontanandosi
da una condizione di quiete. Noi colleghiamo l'origine della vita al suono,
ma il silenzio è l'origine dell'origine.
Scrivere
Scrivere
è incontrare 'il mendicante ai margini della strada'. "Il
mendicante ai margini della strada non è nessuno; è senza
nome, senza storia e senza viso. È lo sconosciuto per eccellenza.
E si può veramente parlare solo con lo sconosciuto per cui non
esiste più ormai rischio della confidenza, perché non è
prevedibile e non si può rinviare. Se lo sconosciuto non è
identificabile, anche chi parla perde lentamente la propria identità,
il proprio nome, il proprio viso, quello che l'altro non conosce e non
ha bisogno di conoscere. Ciò che resta è soltanto la storia,
il puro racconto, quello che si sa accaduto" (H. Arendt, Rahel Varnhagen.
Storia di una ebrea, cit. pp. 154-155). Ne deriva che "quanto nel
pensiero è impersonale minimizza ciò che nell'infelicità
è solo-umano, solo-casuale" (ibid. p. 16).
Perciò la scrittura è muta. Silenzio, voce assente. Il non-tempo
e il vuoto (tra passato e futuro, spazio del solo pensabile) è
il suo non-luogo. E poiché "non è l'assenza al posto
della presenza ma una traccia che sostituisce una presenza che non è
mai stata presente, una origine dalla quale non è cominciato nulla",
"scrivere è avere la passione dell'origine", "ripetizione
è la scrittura prima. Scrittura originaria, scrittura che si espone
all'origine, che insegue i segni della sua sparizione" (J. Derrida,
La scrittura e la differenza, Torino, 1971, p. 378).
E tuttavia. La scrittura è espressione del desiderio. E nel desiderio
si colloca il simbolo (che è linguaggio indiretto) che "può
essere valido, non perché è equivoco, ma, benché
sia equivoco" (ibid. p. 70).
La scrittura interroga. "L'interrogazione della scrittura non poteva
essere aperta se non a libro chiuso", "l'apertura al testo era
l'avventura", "un momento dell'erranza" (ibid. p. 377).
Appartiene al gioco, che è la ricerca del centro - che "è
lo spostamento della domanda" (ibid. p. 380). "E come potrebbe,
nella ripetizione o nel ritorno del gioco non attirarci il fantasma del
centro? È su questo punto che tra la scrittura come decentramento
e la scrittura come affermazione del gioco, l'esitazione è infinita.
Essa appartiene al gioco e lo collega con la morte" (ibid., p. 381).
Ma poiché "il centro chiude anche il gioco che apre e rende
possibile" e "in questo centro esso è il punto in cui
la sostituzione dei contenuti, degli elementi, dei termini, non è
più possibile (
) il centro (
) per definizione è
unico" (ibid. p. 359-360). Perciò "quando è possibile
leggere un libro nel libro, una origine nella origine, un centro nel centro,
è l'abisso, il senza-fondo del raddoppiamento infinito. L'altro
è lo stesso. L'Altrove è dentro" (ibid. p.379).
I fatti vengono
alla luce ricordando. Le vicende si ricordano, si fissano nei luoghi che
ne sono in un certo senso permeati, ritornano, risultano dallo spostamento
della realtà su un altro piano che è quello della trasmissione
in forma di allegoria (dunque tradotte, tradite).
Perciò i ricordi non appartengono realmente a un sistema, si collocano
frammentariamente. Dicono qualcosa che va oltre il momento collocandosi
in un non-tempo e in un non-luogo. Rendono a noi l'immagine di chi ricorda,
e il silenzio che li ha attraversati.
Appartenendo all'assenza che sta nel presente ma in un non-luogo (che
non è presente, non sta nel tempo), riportano figure alleggerite
del loro peso (della materialità), come svuotate. Diventano apparizioni,
si riferiscono a storie (figure che si affiancano alla realtà fattuale
come irruzioni che sono traduzioni della realtà in forma di allegoria).
Perciò "il passato reca con sé un indice segreto che
lo rinvia alla redenzione. Non sfiora anche noi un soffio dell'aria che
spirava attorno a quelli prima di noi? Non c'è, nelle voci cui
prestiamo ascolto, un'eco di voci ora mute? (
) Se è così,
allora esiste un appuntamento misterioso tra generazioni che sono state
e la nostra. (
) Allora a noi, come ad ogni generazione che fu prima
di noi, è stata consegnata una debole forza messianica, a cui il
passato ha diritto" (W. Benjamin, Sul concetto della storia, Einaudi,
Torino, 1997, p. 23). E poiché "la vera immagine del passato
guizza via", è conoscibile "solo come immagine che balena,
per non più comparire"(ibid. p. 73), bisogna afferrare "la
costellazione" in cui un'epoca "è venuta ad incontrarsi
con una ben determinata epoca anteriore" (ibid. p. 74), e tentare
"di strappare nuovamente la trasmissione del passato al conformismo
che è sul punto di soggiogarla" (ibid. p. 27).
Così i fatti, che come i luoghi appartengono all'ombra, che quando
vengono alla luce nascono come racconti, sono il luogo in cui il tempo
indagando se stesso, attraversandosi, svuotandosi, mostra un'impronta.
Perciò si può pensare che si traggono dall'origine, dalla
sofferenza del nascere (dell'iniziare) che è il peccato originario
o meglio il dolore dell'origine che è la sofferenza del nascere,
per entrare in quello 'spezzone' che è il tempo-istante-presente,
corrisponde al divenire (viventi e mortali). Perciò scrivere è
raccontare. E il racconto - nel suo essere attraversato dal pensiero (che
appartiene a un vuoto dove un vento, e-vento, soffia attraverso gli interstizi
suscitando il dimenticato, è esso stesso un vuoto che costringe
il non apparente ad apparire, re-agisce al tempo, lo rigenera, inverte
la sua direzione) - strappato al tempo, diventato unico (cioè autentico),
originario, permette di riconoscere l'originarietà dei fenomeni,
il miracolo dell'evento che per essere intuizione è variabile (i
racconti sono viventi, mortali).
Interpretare
Poiché
la parola è una "similitudine immateriale" - più
precisamente è "la più alta realizzazione della facoltà
mimetica; un medium in cui le prime facoltà percettive del simile
sono penetrate così profondamente che ora esso rappresenta l'elemento
in cui queste si incontrano e entrano in reciproco rapporto". Perciò
"è la similitudine non sensibile che fonda la tensione non
solo fra il detto e l'inteso, ma anche fra lo scritto e l'inteso, e così
come fra il detto e lo scritto" (W. Benjamin, Scritti 1932-1933,
vol. V, Einaudi, Torino, 2003, pp. 442, 524) - interpretare è comprendere,
si fonda sull'essere-nel-mondo, si caratterizza per quel movimento che
è passaggio dalla delimitazione dell'io verso l'incontro con gli
altri, "nell'ambientalità mondana", perché "il
mondo è già sempre quello che io con-divido (
) è
con-mondo" (M. Heidegger, Sein und Zeit, Max Niemeyer Verlag, Tubingen,
1927, tr. it. Essere e tempo, Longanesi, Milano, 1995, p. 154); è
tradursi del pensiero in azione, siamo nell'opportunità di rifiutare
appartenenza per cercare nell'esclusione la radice come via verso il mondo,
verso quel luogo dell'esperienza imprevedibile che è entrare nel
tempo, è comunicazione come ponte fragile e rischioso del presente
"con lo sguardo fisso sul volto inesorabile dell'esserci nel mondo"
nello "sperimentare l'essere nel naufragio" (K. Jaspers, Philosophie
III, Metaphisik, Springer, Berlin, 1956, tr. it. Filosofia III, Metafisica,
Mursia, Milano, 1978, pp. 368-369).
Le parole vanno interpretate perché stanno nella regione del senso,
e l'interpretazione si caratterizza come "sospetto sulle illusioni
della coscienza", si tratta di "astuzia della decifrazione"
(P. Ricoeur, Dell'interpretazione. Saggio su Freud, Milano, Il Saggiatore,
1967, p. 49), "volontà di sospetto e volontà d'ascolto"
(ibid. p. 41), "tattica del sospetto e lotta contro le maschere"
(ibid. p. 39). Dopo un'analisi interpretativa, si deve ritornare al testo
(al senso letterale che è il primo testo, la 'fonte' in cui è
racchiusa ogni possibile interpretazione). Si potrebbe dire che le interpretazioni
costituiscono un insieme frammentario, che si allontanano, ma appartengono
essenzialmente al testo (che viene loro incontro indicando l'interpretazione
e il simbolo). Questo movimento di ritorno al testo è contrappasso.
Esso mostra il testo come frammentario, lacunoso, e dunque nella sua natura
di enigma. E si può anche dire che l'interpretazione, analizzando,
spezza il testo. Costituisce un passaggio attraverso il quale, a lato
del senso manifesto, scorre il senso latente. Dunque "il senso primario
mi conduce" , ma io "sono diretto verso di lui dal senso secondario"
(ibid. p. 29), cioè dall'interpretazione (e dal simbolo, che è
il senso del senso, richiede una sua propria interpretazione, ed è
esso stesso una fonte). Così "il segno sensibile è
legato dal senso simbolico che in esso dimora e che gli conferisce trasparenza
e leggerezza", e il senso simbolico a sua volta "è legato
al suo veicolo sensibile che gli conferisce peso e opacità"
(ibid. p. 66). Così l'interpretazione è "l'intelligenza
del senso duplice", cioè "un lavoro di comprensione che
mira a decifrare i simboli"(ibid. pp. 20, 21). Simboli che si prestano
all'interpretazione per i loro sensi multipli. Simboli che sono l'altro,
sono l'ombra che si stacca dal corpo, uno sfondo chiaro-scuro, stanno
nella parola che perciò è duplice (piena-vuota, densa-evanescente,
immagine-sfondo), sono "espressione linguistica dal senso duplice
che richiede un'interpretazione" (ibid. p. 21). Perciò "l'espressività
del mondo giunge al linguaggio ad opera del simbolo in quanto senso duplice"
(ibid. p. 27). I simboli esprimono "la non immediatezza della nostra
apprensione della realtà" (ibid. p. 23). Sono "il movimento
stesso del senso primario che ci assimila intenzionalmente a ciò
che è simbolizzato, senza che la similitudine possa essere intellettualmente
dominata da noi" (ibid. p. 29).
Attraverso il rapporto del senso col senso (del senso letterale con il
senso simbolico) si può avere interpretazione. E grazie all'interpretazione
si percepisce l'esistenza del simbolo che, pur provocando l'intelligenza
all'interpretazione rimane tuttavia enigma (accenna), ci mostra come la
nostra comprensione della realtà non sta nell'immediatezza.
Così
il pensiero si avventura scavalcando il senso immediato, ricercando nelle
pieghe del dato ciò che non è dato. In quanto passo (cioè
alternativamente sbilanciamento e ricerca del punto di equilibrio, dunque
né un precipitare né la stasi, ma uno slanciarsi che richiede
controllo) il senso è rischio. In quanto contrappasso contrasta
e viene incontro. Per essere di natura leggera non distrugge, piuttosto
come un vento svela (alétheia, la verità).
Così la ricerca di senso è abilità di scoprire spazi
invisibili dove l'ombra quale buia necessità mitica affronta l'oscuro
tempo comune, mostrandosi pura ombra - nell'oblio, "smarrito fra
gli oggetti e separato dal centro della mia esistenza", nel "duplice
movimento del simbolo verso la riflessione e della riflessione verso il
simbolo" (ibid. pp. 61, 70)
11- Ottobre
- 2005
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