I migranti
di Lea Melandri

 

Si può dire che la "terre di nessuno", le strisce di deserto "controllate solo da pattuglie di passaggio", e i tratti di mare considerati "acque internazionali", sono sempre stati in realtà popolatissimi, attraversati da migranti della più varia specie: potenti e miserabili, avventurieri e disperati, carnefici e vittime. Dietro l'apparenza del vuoto, del silenzio, della libertà, hanno coperto un pieno di storia e di relazioni umane innominabili, testimoni e insieme protagonisti di distruzioni reiterate, seppellimenti impietosi.







 

Oggi tornano tragicamente di attualità come aree di confine e di incrocio di flussi umani paralleli e contrapposti, provenienti da mondi speculari nella loro complementarità, come l'Occidente e il Terzo mondo. Una stessa condizione climatica, l'arrivo anticipato della stagione estiva, sembra aver scatenato il sogno "europeo" delle popolazioni martoriate dell'Asia e dell'Africa, e, al contrario, il miraggio esotico, ecologista o militante, dei vacanzieri occidentali. In fuga da 'comodità' cittadine che si stanno rivelando una trappola infernale, le code di macchine allineate sotto il sole torrido, dirette verso il mare più vicino, o verso lontane, "incontaminate" mete turistiche, hanno conteso le prime pagine dei giornali alle file composte dei migranti africani e mediorientali sbarcati fortunosamente nell'isola di Lampedusa. Nella rischiosa duplice avventura, mossa da ragioni opposte di penuria e di sazietà, i morti sono previsti, anonimi, interessanti solo come dati statistici, considerati un prezzo sopportabile per la sopravvivenza o per la soddisfazione di bisogni indotti. I cammini incrociati, della speranza e del desiderio, disegnano sulle carte del Mediterraneo una specie di chiasmo, linee che procedono in senso inverso sovrapponendosi in un unico punto, che è anche quello che le allontana. Nella spinta incontenibile a fuggire da morte certa, a colmare squilibri o a placare coscienze inquiete, le diversità si esasperano. Il Nord si colora di promesse salvifiche, il Sud di ritrovamenti paradisiaci, "verginità" naturali, etiche, antropologiche dimenticate. L'"altrove", proprio quando si fa prossimo, diventa l'evidenza invisibile, una realtà che, pur riconosciuta, subisce una sorta di diniego. Mai i clamori, le passioni, i conflitti prodotti da un'emergenza che si profila lunga e senza uscita, sono stati coperti da tanto silenzio, nonostante i titoli gridati dei giornali: il silenzio dei profughi, gli occhi abbassati quasi a voler cancellare una presenza indesiderata, il silenzio dei turisti di Lampedusa, convinti che basti non vedere, non parlarne, non pensarci, per far scomparire gli sbarchi e i cadaveri dispersi in mare, il silenzio dei testimoni, gli abitanti delle coste tunisine e libiche, che dicono di non aver mai visto dei "traghettatori", il silenzio della "coscienza civica europea", che avrebbe dovuto prevedere, il silenzio delle forze dell'ordine, che comunicano coi gesti, il viso coperto da mascherine per evitare contagi, il silenzio degli atti di solidarietà, il silenzio dei barconi lasciati a marcire nei porti, e infine il silenzio del mare che si richiude sui morti limitandosi a restituirne qualche resto o soltanto l'odore, perché la cancellazione non sia totale. Le immagini dei tristi cortei dei sopravvissuti, i racconti scarni delle atroci sofferenze del viaggio, sono passati senza tregua in televisione e nei giornali, ma lì sembrano essersi fermati, sul confine di una virtualità che fa comodo pensare come l'unica esistenza di fatti che altrimenti potrebbero sconvolgere privilegi acquisiti, abitudini consolidate, coscienze sempre più consapevoli degli effetti catastrofici del proprio modello di sviluppo. "Io neanche sapevo del naufragio, in albergo non abbiamo la tv", ha dichiarato una turista, e quanto ai morti sepolti in mare, "basta non pensarci". Ma a rassicurare la vista dei vacanzieri ha contribuito senza dubbio anche la rapidità con cui è stata occultata la fastidiosa presenza degli "invasori", vomitati dal mare e subito inghiottiti dai centri di accoglienza. A marcare il confine tra sguardi che avrebbero potuto indagare, chiedere, capire, c'era sempre un filo spinato dalle maglie tanto larghe da lasciare filtrare un sogno, uno sgomento, ma non abbastanza da permettere un incontro. È questa barriera, chiamata col nome allettante di "area protetta", che l'Unione Europea vorrebbe alzare attorno al "mare nostrum" per salvaguardare un benessere di cui comincia a dubitare.


Articolo pubblicato su Carnet - agosto 2003