Milano: un paesaggio mentale?

di Lea Melandri

 


“Milano  - si legge in una breve intervista a Elvio Fachinelli del 1989, l’anno sua morte - “è una città in qualche modo astratta, asettica, ‘non’ provinciale e proprio per questo molto attraente per un intellettuale”. A me è capitato spesso, negli ultimi anni, di definirla “un paesaggio mentale: un luogo dove i sensi si eclissano, perché non hanno niente a cui appoggiarsi e su cui sostare, e dove, al contrario, i pensieri possono viaggiare indisturbati, affondare nella memoria o aprirsi a soluzioni nuove, impensate.
Ma è sempre stata così, per me, per Elvio, per tutti quelli che, arrivati qui dalla provincia negli anni cinquanta o sessanta, hanno poi respirato la ventata libertaria del ’68, del movimento non autoritario e del femminismo? E’ vero che i “gruppi affinità, di simpatia, di  bizzarria” che si formarono allora, intolleranti dei vincoli imposti dalla tradizione e desiderosi di creare “nuove istituzioni d’amore”, si sono rapidamente dissolti come “cristalli liquidi”. Ma cosa ha poi impedito che si ricristallizzassero altrove? Da quando, per molte donne e uomini che l’abitano come me da oltre quarant’anni, e che si sono abituati a pensarla come “casa”, Milano è diventata così evanescente, così famigliare e sconosciuta al medesimo tempo?

Dietro l’etichetta di “anni di piombo”, si può dire che è sparito un decennio di tentativi generosi e straordinariamente creativi, di portare al centro della città quelle che sono state da sempre le sue periferie, i suoi margini, i suoi “rifiuti” storici: una perdita salutare di confini che lasciava intravedere nuove forme di socialità, intrecci inusuali di privato e pubblico, di affetti, amicizie e progettualità politica, di territori fino ad allora separati, come la scuola e la fabbrica, gli studi degli analisti e le piazze. Non c’è radicamento più solido e duraturo, più esente da ambivalenze  -nostalgia e tentativi di fuga- di quello che si costruisce dietro la spinta di una passione politica che non separa la sorte dell’individuo dalla vita sociale, le pareti domestiche dalle strade della città, gli affetti intimi dalle collettività in lotta, i casermoni anonimi delle periferie dai palazzi monumentali del centro città.

Per la sua natura composita, che la vede ogni volta ripopolarsi di masse inurbate, ora dalla provincia italiana ora dalla provincia del mondo, Milano si può considerare il luogo più adatto a produrre fertili spaesamenti e nuove imprevedibili convivenze. La mancanza di grandi parchi, la sua fisicità dura e disadorna, in alcuni casi respingente, la fa somigliare a una grande fabbrica destinata a svuotarsi nei fine settimana, lasciando allo scoperto solo gli ultimi venuti. Ma è questa, paradossalmente, la condizione che spinge chi la abita a disegnare la mappa cittadina secondo le linee del paesaggio che più si avvicina alle proprie necessità vitali e ai propri desideri. Non so spiegarmi altrimenti il fatto che, a distanza di alcuni decenni, e coi mutamenti che sono intervenuti nel frattempo, molte delle aggregazioni e dei percorsi che sono nati negli anni settanta, siano ancora presenti e attivi, come un paese dentro la città che, pur avendoli di nuovo messi ai margini, tuttavia non li ignora.

I centri di potere economico e politico sono diventati sempre più imperscrutabili per il cittadino comune, la cultura sempre più lontana dalla vita sociale e dai conflitti che l’attraversano. Eppure, dentro questa presenza-assenza delle istituzioni, delle amministrazioni pubbliche, dei centri di potere economico, dei luoghi deputati del sapere, come le università, persistono tenaci quelle che Aldo Bonomi chiama le “comunità operose”, le “comunità di cura”, forti e diffuse tanto da arginare gli odi, le paure, le insicurezze che minano il tessuto sociale. Il “paesaggio dei pensieri” non è più innestato, come negli anni settanta, nel corpo vivo e mutante della città, nei rivolgimenti profondi che interessarono allora i rapporti di classe, ma anche la famiglia, l’educazione, la relazione tra i sessi, l’idea di normalità e di follia. E tuttavia non si può dire che sia diventato così astratto da non sentire il disagio in ogni angolo di strada, quand’anche ci si muovesse solo nel crocevia che sta tra il panettiere e il giornalaio.

 A tratti, mentre si ripercorrono le traiettorie consolidate dal tempo, che portano alle sedi storiche di associazioni e gruppi, può capitare di sentire il pungolo doloroso dell’inadempienza, il richiamo all’assunzione di una responsabilità che si finisce quasi fatalmente per tacitare. Se non ho mai pensato seriamente di trasferirmi nelle città di cui ammiro ogni volta la bellezza e la vivibilità, è anche vero che ho potuto restringere il perimetro della mia collocazione e dei miei spostamenti milanesi, perché spesso i pensieri o un treno mi portano altrove. Forse il migrante che è arrivato qui anonimo e straniero è destinato in parte a rimanere tale, soprattutto se si arresta, insieme all’accoglimento, la disponibilità a costruire insieme il luogo in cui ci si è trovati a vivere.

I richiami al territorio, al radicamento, alle appartenenze identitarie, alle mitologie fondative, che oggi vengono da più parti a tentare di chiudere ferite e lacerazioni profonde, non aiutano a uscire dalla posizione di stallo che si intuisce diffusa tra i cittadini milanesi, fatta di presenza e assenza, impegno e disinteresse, operosità e inerzia. Il senso di impotenza che nasce dagli sforzi reiterati e quasi sempre delusi di fare incontrare le collettività sparse, diverse e spesso sconosciute le une alle altre –che ancora si adoperano per principi elementari di libertà, giustizia sociale, di rispetto reciproco-, finisce inevitabilmente per produrre rassegnazione, adattamento e resa all’esistente.

I corsi e ricorsi elettorali lo riportano allo scoperto, lo acuiscono e si prestano quasi sempre a offrire ragioni ulteriori di disimpegno.
Eppure, Milano è la città che non ha mai smesso di manifestare per le strade –lavoratori, studenti, maestre e bambini della scuola elementare-, che ha visto riemergere, quando tutti lo davano per morto, un movimento di donne capace di ritrovarsi in grandi assemblee, e un corteo di oltre duecentomila presenze, come è stato quello promosso da “Usciamo dal silenzio”del 14 gennaio 2006. Sono questi segni, così durevolmente impressi sui muri, sulle strade, sui volti che si sono conosciuti e che di tanto in tanto si ritrovano, camminando insieme fianco a fianco come in passato,  a tenermi comunque ancorata a un luogo che sembra dissolversi ogni volta che si chiude la porta di casa? Per chi è venuto da fuori –i provinciali di ieri e i migranti di oggi-, Milano conserva il fascino ambiguo, contraddittorio, che ha l’anonimato rispetto alle oppressive comunità d’origine, promessa di libertà e sogno di cambiamento, rientro in se stessi e allargamento del cerchio della vita.

Piazza Duomo, che quasi scompare divorata dalla massa che l’attraversa durante la settimana, la domenica prende sorprendentemente la fisionomia bonaria, pigra e ritualistica, della piazza di paese, monumento e simbolo dell’anima duplice e della seduzione segreta che esercita questa città per tutti coloro che un giorno si sono messi in viaggio alla ricerca di un “altrove”.

da Gli Altri – 2 ott. 2010