25 novembre 2009 a Milano


di Cristina Morini


Un presidio a Milano, in Piazza Cadorna, indetto da varie realtà femministe cittadine durante la giornata mondiale contro la violenza sulle donne. Ci sono le Mai state zitte, le Vespe, le donne di Cox 18 e dell’Ambulatoria autogestita, qualcuna che frequenta la Libera università delle donne, altre ancora fanno capo al Comitato antirazzista. Donne di età e di colori diversi.

In questa giornata particolare che tocca la sensibilità di tutte, l’appuntamento ha intenzione di ricordare - come si sta facendo anche a Bologna e a Roma - che nei Centri di identificazione ed espulsione le donne migranti sono spesso sottoposte a molestie sessuali e a tentativi di stupro.

Durante il processo seguito alla rivolta di agosto nel Cie di via Corelli nel capoluogo lombardo, una donna, Joy, ha denunciato di aver subito un tentativo di violenza da parte di un ispettore. Le donne immigrate chiuse in queste prigioni dal nome terribile, invisibili, nell’anonimato paradossale consentito dal reato di clandestinità introdotto per tutelare la sicurezza degli italiani, rischiano soprusi e violazioni del corpo e dei diritti. La loro “condizione” le priva di difesa, le consegna, inermi, in mani d’altri.

Questo si intende raccontare alla città che, anche se ormai è calata la sera, continua a correre tra la fermata della metropolitana, la stazione e la scultura con l’ago e il filo colorato, omaggio all’operosità meneghina.
Le ragazze, una cinquantina, aprono uno striscione, c’è scritto in viola: “Nei Cie la polizia stupra”. Viene appeso tra due pali. Nel frattempo la polizia si schiera e intima di levarlo, non c’è il permesso.
Le donne lo staccano ma lo reggono bene in vista mentre c’è chi volantina, chi spiega ai passanti e chi si saluta e chiacchiera. La vista di quella scritta, si capirà più tardi, infastidisce enormemente i tutori della sicurezza. Lo striscione continua a stare lì, nel mezzo della piazza, tra la gente che va e che viene.

E a un certo punto, senza preamboli, parte la prima carica. Le donne provano a resistere, premono corpi e mani contro gli scudi che si chiudono sempre più tra due ali mentre si alzano i manganelli. Incuranti della contraddizione di picchiare un gruppo di donne durante la giornata contro la violenza sulle donne, i poliziotti ci danno dentro.
Per terra resta il sangue ma non basta ancora perché a quel punto le “forze dell’ordine” si impuntano a far sparire anche il megafono che viene usato per spiegare a una Milano che sembra riscuotersi, per un attimo, dal suo torpore (“ma che cose è successo?” si domanda) che la polizia ha malmenato le donne che facevano un presidio per denunciare le molestie e i soprusi che subiscono.
E allora sono di nuovo botte, parte un’altra carica particolarmente nervosa. Tra urla e slogan c’è anche chi continua a gridare “perché?”. Si è capito, poi, quando si è palesata la Digos che il problema era, esplicitamente, lo striscione.

La Milano di Letizia Moratti non si smentisce, laboratorio biopolitico straordinario, frutto di un composto esplosivo tra ansia da lavoro precario, immaginari di onnipotenza e consumo compulsivo. Una città disorientata dalla tensione e dalla paura di un nemico qualsiasi, troppo impegnata per fermarsi a pensare davvero.
La scorsa settimana sono stati picchiati e arrestati gli studenti, il 25 novembre è toccato alle donne.
Quest’ultimo episodio – per i caratteri particolarmente odiosi che evidenzia - conferma che in questo Paese sembra rimasta solo la “democrazia del telecomando” perché manifestare dissenso sta diventando un vero problema.
E la sbandierata “sicurezza” in nome delle donne, si rivela, una volta di più, un puro strumento di propaganda. Sappiamo come essa sia, in realtà, solo un dispositivo di governance straordinario, strumento tecnico essenziale per la complessa e pervasiva forma che assume il potere contemporaneo, come ci ha insegnato Michel Foucault.

 

 

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