La violenza sulle donne oltre gli stereotipi

di Ileana Montini


Mary Cassatt

Ormai continuo a provare un certo fastidio per lo stile linguistico che da decenni si usa a sinistra. Mi sembra che l’espressione reiterata di una serie di concetti abbia via, via perso di significato.

Così è stato leggendo un articolo uscito su Liberazione del 12 ottobre in prima pagina, a seguito della notizia inquietante di nuovi stupri. Lo ha scritto uno dei principali firmatari di un appello degli uomini contro la violenza alle donne. L’autore, Stefano Ciccone, esordisce elencando la varietà delle violenze a partire da quelle consumate tra le pareti delle case, per arrivare alla costrizione all’esercizio della prostituzione.

Tutto vero, ma l’astrazione inizia quando, protestando (giustamente) che si deve smettere di mettere in cronaca nera questi fatti, propone “una iniziativa politica e culturale”; politica in quanto la violenza sulle donne deve essere considerata “espressione di un sistema di valori, di un modello di relazioni, di un’idea della sessualità, che deve essere posta al centro di una pratica collettiva di trasformazione.”

Fa seguito la condanna (giusta) della politica emergenziale che ha l’effetto di marginalizzare il fenomeno occultandone “il carattere strutturale e pervasivo” rappresentandolo “come frutto di devianza, di patologie da porre sotto controllo, da reprimere.” Mentre la violenza contro le donne ha radici  profonde nella cultura e nelle forme di organizzazione della società fino a permeare l’immaginario. E pertanto andrebbe invece messo in discussione il desiderio maschile che detta le regole della convivenza e del mercato.

Tutto vero. Ma, alla fine dell’articolo, non ho capito cosa, in realtà, si deve e si può fare. L’impressione è quella di una bella perorazione di principio.

Per carità, molto diversa dalle prese di posizioni degli uomini della Destra che cercano di limitare l’attenzione agli stranieri stupratori, iniziando con lo slogan patriarcale: “Giù le mani dalle nostre donne!”.

Quando leggo ora qui e ora là, che la violenza sulle donne è strutturale, espressione di un sistema di valori e di un modello di relazioni (tutto in successione) mi viene in mente il Parlamento e i parlamentari della Sinistra che parole del genere hanno usato  un’infinità di volte, mentre poco hanno sempre fatto per superare lo spettacolo della maggioranza delle poltrone appannaggio di soli uomini. Per non parlare dell’ultimo governo Prodi.

E che dire dello stato sociale italiano con la sua cronica scarsità di asili nido per le mamme, con le insufficienti scuole materne. Penso ai politici (quasi tutti uomini) dirigenti di partito, amministratori provinciali e comunali, che a differenza di altri Paesi europei dimostrano ancora scarso interesse per la Ageing Society costringendo le famiglie –ovvero le donne- a farsi carico degli anziani non autosufficienti.

L’autore dell’articolo so che sarebbe d’accordo: ma allora perché non cominciare a evitare di ricorrere alle pure affermazioni di principio?

L’immagine che del maschile emerge, scrive ancora, sono uomini “incapaci di stare in una relazione con una donna riconoscendone l’autonomia e la libertà …”.

Quando una giovane donna ha un figlio, la sua autonomia viene messa immediatamente in serio pericolo e così anche la sua libertà. Ma non soltanto a causa  del partner. A volte, anzi, nonostante il partner sia con lei, dalla sua parte.

Appunto, prima di tutto perché tocca a lei allontanarsi dal lavoro già durante la gravidanza e dopo a causa delle difficoltà a conciliare i tempi. E quanto arrivano le nonne in soccorso, un po’ di libertà e autonomia sono salve.

Mettiamo sempre che il marito o il convivente siano alleati della neo mamma che vorrebbe riprendere l’esercizio della professione anche per non finire emarginata  o restare indietro nella carriera. In questo caso se non si tratta di stretta necessità economica, la donna riceverà esplicite o larvate critiche dalla mamma, dalla suocera, dalle amiche, dalle colleghe, eccetera: “ma come, vuoi lasciare il figlio/a  a una estranea o al nido?” “E il marito glielo permette ? Ma che uomo è?”

Accade anche, ovviamente e più spesso, che i partner siano espliciti o taciti alleati delle parenti ancora propense a pensare la maternità come assoluta dedizione ai figli che richiede capacità di rinuncia –unilaterale-  alle proprie aspettative individuali.

E’ questo un aspetto del mondo valorico ancora vigente e, nel nostro Paese, segnato dall’etica del sacrificio di cattolica memoria.

Se la donna-madre dà segni di ribellione e avanza desideri contrari al mondo parentale e amicale, può scatenare nell’uomo partner un’aggressività di difesa della propria immagine virile tradizionale, ma anche il timore inconscio di perdere l’amore della madre, delle sorelle, del padre, eccetera. Oltre alla stima degli altri maschi.

Quando una donna tra i 40 e i 50 (e sono sempre di più) si reca dal/dalla consulente matrimoniale per raccontare di essere in crisi, perché non le sta più bene di continuare a rinunciare a un po’ di vita per sé in nome della famiglia e del legame di coppia, è avvenuto un salto di qualità dentro di lei grazie anche al femminismo.

Sono infatti sempre più le donne a chiedere le separazioni contro partner e mariti che cercano di convincerle a restare. Ma proprio le donne non più giovani raccontano micro storie invischiate tra tradizione e modernità. Hanno “servito” figli e marito conciliando a fatica lavoro e governo della casa. Hanno per anni accettato di farsi vedere “brave” dalle loro mamme e suocere riconoscendo al compagno il diritto al lavoro e alla carriera senza coinvolgerlo nel lavoro di cura; spesso in cambio del controllo assoluto sull’organizzazione della vita dei membri della famiglia come compensazione.

Ma, verso i 50 improvvisamente fanno una sorta di conti della propria vita e avvertono il desiderio di una relazione amorosa  più coinvolgente (che invariabilmente si è spenta o rallentata) e con molti conflitti interiori si dicono pronte anche a rompere il legame. Sovente i mariti si dicono sorpresi, stupefatti e, con il sostegno dell’entourage parentale anche femminile, si oppongono alla richiesta di cambiamento e poi allo scioglimento del vincolo. Le reazioni violente che sempre più spesso ne conseguono le conosciamo dalle cronache.

In questa società liquida, come sostiene il sociologo Z. Bauman, l’eccesso di individualismo comporta anche il sentimento del rischio della solitudine, della marginalizzazione, mentre il senso della vita lo si ricava sempre di più dall’appartenenza affettiva fino alla dipendenza.

La reazione violenta è forse spesso la manifestazione della paura della propria fragilità umana in un mondo-bosco pieno di belve feroci. Il cucciolo narcisista  della mamma-madonna  italiana  divenuto partner di un’altra donna, teme il suo abbandono e la sua incapacità a stare-nel-mondo liquido.

Ma  anche le donne  più giovani raramente si rendono conto di avere educato la figliolanza con parametri diversi, dall’imporre di rifarsi il letto alle femmine e non ai maschi e tutto il resto. 

Per uscire dall’uso stereotipato di un linguaggio che ha un po’ fatto il suo tempo, credo che sarebbe utile esercitarsi in alternativa a raccontare storie ricavate dagli interstizi. La sociologia degli interstizi è oltremodo interessante perché abilita a cogliere ciò che sta in mezzo, collocato nell’intervallo: entre-deux.

Un nuovo modo di esprimersi potrebbe derivare proprio dalla metodologia interstiziale che spinge ad accettare di appartenere a più mondi (punti di vista, linguaggi…). Si sa che non  si vive un aspetto soltanto, o uno principalmente. In altri termini: non va patologizzata la violenza sulle donne, ma neppure va eliminata o censurata la complessità della psiche umana in relazione al contesto, quanto a dire che di disagio psichico si può e si deve parlare. Per esempio. E inoltre che il mondo dei valori e dei comportamenti non va ascritto ora alla “cultura” e ora alle religioni come se la Cultura fosse avulsa dalla ritualità e normatività imposta, questo sì, soprattutto per le tre religioni monoteiste, dagli uomini a ciò deputati.