“Da quando abbiamo smesso d’amare come Anna Karenina”
di Emanuela Moroli

Tra quelle migliaia di gambe che avanzavano saltellando, ballando, correndo, non riuscivo a staccare gli occhi dai miei zoccoli, nuovi, rossi, lucidi, messi sopra un paio di lunghi calzettoni a righe bianche e rosse. Era un segno di appartenenza, mi inserivano definitivamente in un contesto, una sorta di investitura, mi sentivo forte, determinata, inevitabilmente vincente. Quegli zoccoli completavano un percorso. Ero lì con altre decine di migliaia di donne sorridenti e spavalde, insieme a manifestare per un aborto libero e gratuito. Era il 6 dicembre del ’75, faceva un freddo gelido, ma la giornata era limpidissima.

Lo scorrere energetico della manifestazione a noi sembrava una marcia trionfale. Come era possibile ritrovarsi in così tante, come era possibile essere così creative, così colorate, così in sintonia senza esserci minuziosamente organizzate prima? Stupore, gioia e una specie di consapevolezza che ce la potevamo fare si insinuava velocemente tra l’una e l’altra. Aborto libero e gratuito, chiesto alla classe politica di un Paese che aveva ancora nel codice il delitto d’onore e considerava la dolorosa rinuncia di una maternità troppo difficile da affrontare un crimine da punire con la galera.

Una gigantesca bambola di carta pesta svettava sul corteo, sotto la scritta: “Io sono tutte le donne che non ci sono”. Ma lo slogan più bello lo si trovava a metà del corteo, recitava: “Da quando abbiamo smesso d’amare come Anna Karenina”. Di spezzone in spezzone rimbalzava lo slogan: “Tremate, tremate le streghe sono tornate” i passanti che sui marciapiedi guardavano attoniti lo sfilare di quell’incredibile fiume di donne, difficilmente potevano immaginare che quello slogan non era né ironico, ne minaccioso: era vero! Erano tornate le streghe con il loro prezioso bagaglio di poteri alternativi.

 

Il metodo Karman e il self-help

A Roma, Firenze, Padova, Milano e chissà in quante altre città e paesi, gruppi di donne avevano imparato a praticare il Karman, un metodo semplice e quasi indolore per effettuare un aborto entro le prime 8 settimane. Dalla Francia erano venute in Italia le compagne femministe del Mlac ad insegnare il metodo, per sottrarre potere alla classe medica, per evitare il ricatto economico dei cucchiai d’oro, per liberare le donne dalle mammane, per lottare contro codici fascisti, per dare una solidarietà concreta a donne che fra mille difficoltà prendevano atto con disperazione di essere ancora una volta incinte.

Imparare il metodo karman per aspirazione aveva significato alzare il sipario su uno degli scenari più significativi del femminismo internazionale: un nugolo di collettivi e piccoli gruppi erano nati ovunque dalla lettura e dal dibattito intorno a “Noi e il nostro corpo” un libro che raccoglieva le elaborazioni di un collettivo studentesco della Università di Boston, pubblicato nel ’68 e che solo negli Stati Uniti nel primo anno aveva venduto venti milioni di copie, poi tradotto in 20 lingue diverse. Una bomba esplosa intorno al tema della sessualità femminile, tutta da scoprire, tutta da inventare, tutta da rivendicare.

Quel giorno del dicembre del ’75 finalmente la lotta per un aborto libero e gratuito così a lungo preparata prendeva forma e forza. I piccoli gruppi di autocoscienza, i collettivi femministi, le donne del Crac, del Cisa, dell’ Mld e dei nuclei delle femministe radicali che bisettimanalmente organizzavano intense e straordinarie riunioni con centinaia di donne incinte per capire insieme se veramente volevano rinunciare a quella maternità e su come, in nome dell’autodeterminazione, si poteva procedere per sottrarsi alla speculazione di medici e mammane e alla caparbia misoginia di Chiesa e ben pensanti, assaporavano il primo momento vincente.

Per molte femministe romane quella era la terza volta che scendevano in piazza. Nel maggio del ’71, il giorno della festa della mamma, provocatoriamente si erano date appuntamento in alcune centinaia, un’avanguardia, a piazza Navona sotto uno striscione dove si leggeva “L’utero è mio e me lo gestisco io”, ma il tema non si era ancora radicato fra le donne e raccolsero più risentimento che consensi; la seconda volta l’8 marzo del ’72 a piazza Campo de’ Fiori; insieme a tante altre proposte riaffiorava il tema di una sessualità liberata e di un aborto legalizzato. Ma il corteo festoso, grondante mimose e colorato da centinaia di fiocchi di carta crespa rosa finì con una violenta carica della polizia che mandò all’ospedale con la testa rotta non certo Jean Fonda che era venuta a partecipare con un codazzo di fotografi al seguito, ma Alma Sabatini, una grande femminista, che più tardi per la Commissione sulla Parità della Presidenza del Consiglio avrebbe studiato il sessismo nella lingua italiana e meritevolmente avrebbe rivisitato il vocabolario.

 

L’unica vita che volevamo vivere

Tutte avevamo sempre saputo che raggiungere un aborto libero e gratuito era impresa assolutamente impervia, ma ineludibile. Di lì passava quella vita da gestire con piacere e responsabilità, l’unica che volevamo vivere.

Lotte, delusioni, contrasti, grandi esperienze. Quando nel ’76 il movimento femminista romano occupò palazzo Nardini a via del Governo Vecchio, e vi irruppe con tutte le sue coraggiose e spavalde attività politiche, le donne che prendevano parte ai gruppi di self-help fecero un’esperienza straordinaria. Bisognava imparare a conoscere e bene il proprio corpo, la propria sessualità se si voleva rifiutare il potere medico tutto incardinato su quello che tu non sai.

Fornite di speculum e di una grande voglia di comunicare, le donne dei nuclei conducevano per mano le altre alla scoperta dei segreti del proprio corpo: diapositive, disegni, testimonianze e autovisite. Ma organizzavano anche i viaggi a Londra di chi superato il terzo mese di gravidanza era nella condizione di dover abortire. Per coloro che invece erano incinte da poche settimane ci si organizzava a gruppi di tre-quattro; una offriva casa propria per ospitare le altre che avevano lo stesso problema. Le donne dei nuclei con la valigetta del karman sapevano come trasformare una situazione che si presentava angosciante in un momento di grande comunicazione. Ancora oggi i racconti di coloro che hanno partecipato a quella esperienza, sia che appartenessero ai gruppi d’intervento sia che avessero avuto bisogno dell’aborto, invece che ansie e angoscia fanno riaffiorare momenti di allegra e forte solidarietà, ricordano le tazze di tè bevute insieme che avevano il sapore della rivoluzione e una solidale irripetibile confidenza fra sconosciute. Si trasformava il trauma in presa di coscienza. Una risposta politica ad uno Stato per mammane. Liberare dalla paura e dal senso di colpa donne che non avrebbero potuto portare avanti quella gravidanza.

Era così che donne di borgata, impiegate lontanissime dalla politica, professioniste un po’ arroganti, casalinghe rassegnate, ragazze abbandonate dal fidanzato venivano “toccate” dal femminismo e si trasformavano a migliaia in militanti decise a spuntarla sul tema dell’aborto. Si inventava una politica utile per il mondo, una politica senza contraddizioni fra crescita personale e crescita politica.

 

La legge 194 e il sequestro Moro

Quando per la prima volta finalmente alle Camere si apre il dibattito su una legge che liberalizza l’aborto è in corso il sequestro Moro. E così se qualche donna, come ad esempio la senatrice Pci Talassi Giorgi sostiene: «Questa legge non sarebbe nata se non esistesse un grande movimento femminile unitario» dai banchi della Dc il sen. Trifogli replica: «Mi batto contro la barbarie di chi vorrebbe salvare Moro dalla prigione delle Br e però vuole uccidere il nascituro nella prigione dell’utero» a cui fa eco il Dc Agrimi: «In questo Paese si condanna la caccia e si tutelano le uova di selvaggina ma contemporaneamente, con la legge sull’aborto, si apre la caccia all’uomo…».

Per chi in quei giorni per dovere di cronaca si trovava nelle sale stampa, ne sentiva delle belle.

Il procuratore generale alla corte d’appello dell’Aquila, Bartolomei, in una conferenza molto mondana, organizzata nel capoluogo abruzzese sul diritto alla vita sentenziava: «L’aborto legalizzato è contrario alla naturale riservatezza delle donne che preferiscono quello clandestino….».

I collettivi femministi tutti convenivano che tanta enfasi e tanto accanimento nasceva dalla paura del potere patriarcale di perdere il controllo sul corpo delle donne e quindi sulla loro stessa vita. Ma la partita era ormai sfuggita di mano al patriarcato e pur con mille mediazioni la legge fu approvata. Era il maggio del 1978. Nessuna si nascondeva che ci sarebbe stato ancora e a lungo da lottare: quell’articolo che autorizzava i medici a dichiararsi obiettori di coscienza era un micidiale cavallo di troia posto all’interno della legge con l’intenzione di incendiarla. A tutte appariva chiaro che la sinistra ancora una volta, pur potendo vincere, non aveva saputo rinunciare ad una pericolosa mediazione che si sarebbe inevitabilmente rivolta verso la sinistra stessa.

Erano trascorsi quattro mesi dall’entrata in vigore della legge e a Firenze il pm Casini, strenuo sostenitore del Movimento per la vita, processava una donna per procurato aborto ed esercizio abusivo della professione medica. In realtà era un processo alla legge. Ma radicali, femministe, nuclei del self-help gremirono l’aula determinati e carichi di rabbia.

A Padova si rifiutavano di rendere pubbliche le liste degli obiettori di coscienza, molti medici che si erano arricchiti con gli aborti clandestini, ora per carriera e opportunismo dichiaravano che “in coscienza” non se la sentivano di praticare aborti, ma si vergognavano a dichiararlo pubblicamente. La nuova lotta era: stanare i furbi. A fare le spese delle denunce femministe furono decine di ex medici abortisti improvvisamente trasformatisi in obiettori di coscienza.

A Pesaro in tribunale viene sollevata l’eccezione di incostituzionalità della legge, la questione arriva alla Corte Costituzionale. Fiato sospeso. Aumentare la pressione, la visibilità del movimento, promuovere i suoi contenuti. Sospiro di sollievo la Corte Costituzionale respinge l’eccezione.

La corsa a ostacoli continua, e quello che sembrava l’ultimo è davvero un grande pericolo: due referendum abrogativi presentati per ragioni opposte dal Movimento per la vita e dal partito radicale. Il primo rifiuta la legge, il secondo la vuole più liberale. Una scheda verde e una arancione, si deve votare…! La legge supera anche questa prova e in modo inequivocabile.

Potevamo immaginare che negli ultimi giorni del 2005, Chiesa e benpensanti avrebbero riproposto le stesse accuse come se questi 21 anni non fossero passati? Come se una nuova generazione di donne, cresciute con la certezza delle libertà femminili, potessero ora accettare di riportare il loro corpo e la loro cultura ai tempi oscuri del delitto d’onore, del matrimonio riparatore, del reato d’aborto. Illusi, nessuno l’accetterà.

 

questo articolo è apparso su Queer dell' 8 gennaio 2006