Donne, tra vizi e “virtù”successi e tabù
A cura di Maria Pia Fontana
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Tamara De Lempicka,
Jeunes filles, 1927
Non è semplice parlare di virtù delle donne, se vogliamo evitare i luoghi comuni e le banalizzazioni. Già la parola virtù sembrerebbe avere poco a che fare con il genere femminile, in quanto la sua radice etimologica (da vir, viri) la riconduce all’uomo, come se le qualità che rendono una persona virtuosa siano più facilmente accessibili al genere maschile che non a quello femminile.
Se comunque vogliamo identificare le qualità della “donna virtuosa” saremo influenzati dallo stereotipo che ancora condiziona il nostro immaginario di una donna modesta, riservata, pudica e tesa all’abnegazione nel lavoro di cura familiare.
C’è da chiedersi di quale considerazione godono oggi i virtuosismi femminili nel campo simbolico della politica e dell’impegno civile, a fronte di una persistente tendenza a ricondurre in via privilegiata le qualità morali ed etiche della donna all’ambito degli affetti primari. Tuttavia, la virtù, in quanto tale, non dovrebbe incontrare delimitazioni di campo d’azione. Il coraggio e la giustizia, ad esempio, tradizionali virtù politiche o civili, per le quali è peraltro facile trovare figure femminili esemplari che nel corso della storia si sono distinte anche in azioni militari o di governo, sono qualità nobili ed essenziali anche nella sfera delle relazioni private e familiari, non solo nella sfera pubblica.
Inoltre, l’analisi delle virtù non può prescindere da quella dei vizi, giacché se consideriamo la virtù come la capacità di conoscere i propri desideri (e talenti) e di modularli in vista del bene (1) e condividiamo l’idea di Nietzsche che la grandezza non significa altro che dare una direzione alle forze che ci agitano dentro,allora possiamo concludere che la base delle virtù è la medesima dei vizi, cioè la carica passionale. La differenza tra vizi e virtù, quindi, consisterebbe quindi nella misura e nella nostra capacità di indirizzare i moti del cuore verso scopi edificanti per noi e per la vita comune. Est modus in rebus, avrebbe detto Orazio. A tal riguardo già Aristotele aveva identificato la virtù con la ricerca e con la pratica del giusto mezzo, il coraggio quindi non sarebbe altro che la mediazione tra la viltà e la temerarietà, così come la mitezza sarebbe il giusto mezzo tra la mancanza di irascibilità e la collericità.
Posto che la perdita di questa posizione mediana, di ardua identificazione, fa scivolare la virtù in vizio, viene da chiedersi se esistono virtù e conseguentemente vizi tipicamente femminili o tipicamente maschili oppure se virtù e vizi prescindono dal genere. Secondo Platone, che pure risentiva della cultura fortemente maschilista del suo tempo, le differenze tra i sessi valgono solo a livello procreativo, mentre a livello morale e spirituale la donna, se è educata al pari dell’uomo, potrà essere come lui. Al contrario, Aristotele, rigetta l’idea che le virtù di una donna possono essere identiche a quelle di un uomo, in quanto ad un corpo diverso corrisponde una mente diversa, in un sinolo di materia (corpo) e di forma (anima) (2) . Questa visione serviva a confermare la naturale superiorità maschile rispetto alla donna, in quanto “il primo comanda e l’altra ubbidisce, nell’uno v’è il coraggio della deliberazione, nell’altra quello della subordinazione”.
Oggi che gli studi in campo neurofisiologico ci hanno mostrato come l’evoluzione della specie umana e i condizionamenti ambientali e culturali abbiano concorso nel determinare lievi differenze nella morfologia cerebrale tra donna e l’uomo, che esercitano qualche effetto nella modalità di selezionare e di rielaborare i dati informativi, si pone il problema di identificare una specificità di attitudini cognitive ed emotive che tuttavia non ricada nelle trappole del modello della complementarietà tra i generi, posto alla base delle diadi pubblico/privato, razionalità/emotività, logica/corporeità, cielo/terra che identificano il primo polo con l’universo simbolico maschile e il secondo con quello femminile. In questo senso occorrerebbe superare sia gli schematismi posti alla base del modello identitario, che annulla le differenze omologando le specificità, e sia le rigidità e i rischi connessi al modello della differenza/complementarietà. Infatti, si ritiene che ciascun polo della relazione sia portatore di tutta la gamma delle potenzialità delle doti umane affettive e cognitive, sebbene declinate con delle specificità riconducibili più all’unicità della sua individualità e alle influenze culturali, che alle differenze biologiche proprie dei sessi, senza che tuttavia ciò voglia dire annullare o misconoscere tali differenze o i loro riverberi psicologici.
L’“intuito femminile”, ad esempio, troverebbe il suo corrispettivo fisiologico nella maggiore capacità delle donne di collegamento tra emisfero destro e sinistro del cervello, ossia tra la sede del ragionamento logico-analitico e quella che governa i processi creativi. E’ facile dedurre come da tale caratteristica possa discendere una tendenziale attitudine della donna ad un accesso facilitato al mondo emozionale e una maggiore capacità di dialogo tra pensiero, parola, emozione ed azione, fatte comunque salve le specificità individuali, che concretamente possono far sì che un dato uomo disponga di maggiori abilità di una donna determinata rispetto a tale facoltà.
Tuttavia, se una donna sa mettere a frutto questa capacità di sintesi e di dialogo, è facile che possa pervenire a visioni o a prospettive globali su temi astratti mantenendo tuttavia un forte ancoraggio ad aspetti a forte coloritura relazionale ed affettiva. Potrebbe riuscire così, ad esempio, a sposare principi ideali senza perdere di vista l’uomo concreto con i suoi bisogni, le sue esigenze e i suoi limiti. Emblematico, ad esempio, è il caso di Antigone di Sofocle, nella sua dialettica con il tiranno Creonte, in quanto l’una incarna un modello di giustizia e di coraggio fondato sugli affetti e sulle relazioni, e l’altro invece rappresenta il modello dell’astratta ed impersonale legalità. E il mondo della politica, che continua ad ostacolare la donna, forse anche per la paura connessa alla sua eccessiva aderenza al dato personale, troverebbe beneficio e rinnovamento dall’umanizzazione femminile, che riporti ai fondamenti di fraternità e di solidarietà del nostro ordinamento, cosa ben diversa dalle pratiche clientelari e di corruzione di cui la politica prevalentemente maschile di questi ultimi anni ha dato numerosi esempi.
Eppure talvolta la donna usa male questa via d'accesso facilitata alle emozioni e ai sentimenti, e il corrispettivo patologico del suo virtuosismo nell’accogliere, dare nutrimento affettivo, sostenere, accompagnare, condividere, ascoltare, promuovere, in assenza di un’adeguata valorizzazione della sua specificità dialogica tra ragione e sentimento, può diventare l’abilità nel circuire, soggiogare, sedurre, manipolare, istigare, irretire e creare dipendenza. Non è un caso, ad esempio, che in quelle circostanze in cui assistiamo a delle forme di prevaricazione, dal bullismo, al nonnismo o alle varie manifestazioni di mobbing o stalking, la donna si distingua per l’esercizio di forme di aggressione o di violenza più raffinate e subdole rispetto all’uomo. Infatti, non entrano in gioco di norma attacchi di tipo fisico o diretto, in quanto essi generalmente riguardano l’esercizio di un ascendente emotivo o relazionale per manovrare o per squalificare l’altro o l’altra in modo indiretto, psicologico o sotterraneo. Si tratta frequentemente di forme di aggressione verbale, che di norma si esprimono nel pettegolezzo, nella critica, nel sarcasmo o nel complotto, oppure di sofisticate strategie di ricatto affettivo. E non è infrequente che queste manifestazioni patologiche siano anche tinte di rosa, cioè “infiocchettate” e mascherate da plateali esibizioni di affetto o da sorrisi di circostanza e da graziosi convenevoli, in linea con ciò che suggerisce il bon ton.
Questa caratteristica si collega anche alla nota rivalità femminile che, secondo una prospettiva psicologica, discenderebbe dalla competizione ambigua e segnata da tanti sensi di colpa e mistificazioni, che la figlia può sperimentare nei confronti della propria madre nel contendersi le attenzioni paterne. A questi fattori di ordine psicologico vanno comunque aggiunti anche fattori di tipo storico in quanto la donna tradizionalmente ha vissuto una condizione di sottomissione e di ritiro sociale, imparando a considerare disdicevole l’agonismo, prerogativa tipicamente maschile, che conseguentemente è stato confinato nell’area del non detto, del mondo dell’ipocrisia, del sotterfugio e dell’inconfessato. Eppure anche la competizione di per sé può essere positiva. A ben vedere l’etimologia della parola cum-petere, ci riporta alla necessità di misurarci con gli altri e letteralmente vuol dire domandare insieme delle cose. Peraltro, è la stessa radice della parola competenza, per cui noi riusciamo a verificare e a valutare le nostre effettive capacità solo in relazione ai contesti concreti e al rapporto con altre persone. E’ vero quindi che la gara verso il virtuosismo è soprattutto con noi stessi, ma è anche vero che per raggiungere l’eccellenza non possiamo prescindere dal confronto con gli altri e con chi è più bravo di noi, anche solamente per misurarci con un modello ideale o con qualcuno che ci ha preceduto in una data azione o impresa. Quindi le donne dovrebbero recuperare sia la capacità di collaborare e di essere solidali con generosità, come quella di competere in modo franco e leale.
Secondo una prospettiva classica riconducibile a Platone, la virtù si lega al bello oltre che al bene. Questa idea è bene espressa dalla parola greca aretè, che appartiene alla stessa famiglia di aretào, che significa prosperare, essere fortunati, fertilità. In un contesto sociale dominato da modelli castranti ed impoverenti di bellezza meramente estetica, dei quali la donna oggi è la prima vittima, anche quando pensa di potersene avvantaggiare, sarebbe edificante recuperare l’idea platonica di bellezza come splendore del vero oltre che come matura realizzazione delle proprie dotazioni individuali. E se il “vero umano” non è altro che la consapevolezza rispetto alla propria condizione oggettiva e soggettiva, ai movimenti femministi dobbiamo riconoscere il merito di aver smascherato le ingiustizie e le mistificazioni della società maschilista e patriarcale riportando a verità la condizione della donna. Una storia millenaria di sottomissione e di sacrificio è stata svelata, guardando dentro la stanza buia delle discriminazioni che la donna ha patito e che continua grandemente a patire, specie in alcuni paesi del mondo. Oggi tuttavia questa consapevolezza si è accresciuta ancora e la donna riesce anche a guardare dietro il back stage di sé stessa e dei suoi limiti e rischi, dei vizi in cui il femminile può scivolare se non è amorevolmente curato nello stesso modo in cui si sono da sempre elargite cure agli altri. E in questa consapevolezza di sé e della sua verità profonda, del genio femminile, come dei vizi di genere, ogni donna può rifondare le ragioni di una bellezza nuova e piena.
(1) Natoli S., L’edificazione di Sé, Istruzioni sulla vita interiore, Editori Laterza, Roma, 2010
(2) Benedetta Selene Zorzi, Al di là del genio femminile. Donne e genere nella storia della teologia cristiana, ed. Carocci, 2014
27 marzo 2015
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