questo articolo è apparso su
il manifesto del 7 agosto 2004
Se il cardinale
Ratzinger fosse un mio studente, di molte cose mi piacerebbe ragionare con
lui, complimentarmi, interrogarlo, distanziarmi o consentire, a proposito
della sua Lettera sulla collaborazione dell'uomo e della donna. Dovrei
però fargli notare un errore, uno solo, quello di credere (o di lasciar
credere) che l'oscurarsi della differenza o dualità dei sessi, per usare
parole sue, sia una tendenza recente del pensiero umano. Si tratta, al
contrario, di una tendenza secolare, ben riconoscibile nella tradizione
filosofica. Lo dichiara, con indiscussa autorità, Heidegger: l'ontologia
ci ha sempre insegnato ad assumere l'essere umano come neutrale rispetto
alla relazione (io-tu) e rispetto alla sessualità (uomo-donna). Una
neutralità, occorre aggiungere, che la critica femminista ha dimostrato
essere una concezione centrata sull'uomo di sesso maschile (androcentrica).
Che io sappia, prima di questo testo del cardinale Ratzinger, la filosofia
d'ispirazione cristiana non si è mai opposta a questa tendenza, o, se lo
ha fatto, lo ha fatto senza risalire all'ontologia della neutralità
sessuale. Tant'è che la personologia cristiana non ha un pensiero della
differenza sessuale. Insomma, ci troviamo davanti a un testo più
dirompente e nuovo di quanto esso stesso non lasci intendere. Qualcosa di
simile al punto della neutralità sessuale, vale anche per un'altra
tendenza, che la Lettera giustamente associa alla prima, quella a
liberarsi dai propri condizionamenti biologici. Anche questa è antica,
antichissima anzi, risalente alle origini stesse del patriarcato, che ha
inventato di tutto per minimizzare la nostra insormontabile dipendenza
dalla relazione materna.
Che cosa, dunque, è avvenuto di nuovo a ispirare la sorprendente presa di
posizione della Chiesa, non da parte di qualche teologo di frontiera ma
del prefetto stesso della Congregazione per la dottrina della fede? Per la
seconda tendenza mi pare meno difficile tentare una risposta. Nel campo
della rinnegata dipendenza dai condizionamenti biologici, la novità è
costituita dal duplice passaggio alla modernità e ai suoi sviluppi
postmoderni, passaggio che possiamo così riassumere: il pensare si è
separato dal sentire per conformarsi più precisamente alla ragione, fonte
di una presunta autonomia dell'uomo, la quale ragione a sua volta si è
lasciata sostituire dalla tecno-logica. (È per questa strada che l'Europa
è arrivata alla follia della prima guerra mondiale, prima di una serie di
altre guerre e di altre follie il cui conto è lasciato ai nostri posteri.)
Ebbene, il passaggio alla modernità, la Chiesa cattolica lo ha patito, ci
ha pensato, ne ha parlato. Non è stata la sola e neanche la prima, va
detto. Penso al grande filosofo che non troviamo nei manuali di filosofia,
Giacomo Leopardi, il quale torna e ritorna, con accenti profetici, sul
tema della catastrofica nostra perdita di vicinanza con la Natura, perdita
che va di pari passo con i progressi della modernità.
Più difficile è capire che cosa abbia portato quest'uomo, Joseph Ratzinger,
a fare suo il pensiero della differenza sessuale. Pensiero - bisogna
precisare perché la Lettera non lo fa - che si è sviluppato all'interno
del femminismo, in conflitto con altre teorie e politiche femministe: il
femminismo, infatti, è sempre stato plurale e conflittuale, trovandosi al
cuore di cambiamenti combattuti e difficili che toccano le basi della
civiltà, in quanto riguardano i rapporti fra i sessi (fra donna e uomo,
sì, ma anche e insieme fra donna e donna, fra uomo e uomo).
Che di questo si tratti nella Lettera, molti commentatori, pur intuendo la
sua novità, non si sono resi conto. Molti hanno confuso il femminismo
radicale con le teorie di genere attaccate da Ratzinger. Ida Dominijanni
fa eccezione. Lei riconosce bene la parentela della Lettera con una parte
del femminismo, così come sa bene che il femminismo radicale (pensiamo a
Carla Lonzi, per l'Italia) nasce come pensiero della differenza sessuale,
in lotta con l'emancipazionismo, prima, e con il femminismo della parità,
poi, oltre ad avere lei una conoscenza approfondita dei testi della gender
theory. Perciò rimando chi mi legge al suo commento di martedì 3 agosto.
Per parte mia, vorrei più direttamente rispondere a chi ha detto che la
Lettera non è veramente nuova perché ripete la vecchia posizione cattolica
della complementarità fra i sessi, assegnando alle donne il solito ruolo.
La lettura del testo, specialmente del capoverso 14, dovrebbe bastare ad
eliminare la seconda critica, l'autore infatti teorizza nitidamente il
senso libero della differenza sessuale, sia pure in termini che sono
compatibili con la sua fede e il suo credo morale. Ma potrebbe essere
diversamente? Che relazione sarebbe, che scambio potrebbe mai esserci, se
l'altro deve pensarla in tutto come la penso io?
Quanto alla complementarità, è ben vero che il testo di Ratzinger sostiene
che l'eguale dignità delle persone si realizza come complementarità
fisica, psicologica ed ontologica, dando luogo ad un'armonica «unidualità»
relazionale. Questo passaggio è stato molto citato, troppo secondo me. Non
si è tenuto conto di altri passaggi che affermano il libero esplicarsi
della presenza femminile anche nei campi tradizionalmente maschili, e la
possibilità che i valori che più stanno a cuore alle donne siano un
insegnamento valido anche per gli uomini: queste sono vedute in cui la
complementarità cede il passo alla asimmetria fra i sessi assunta
nell'uguaglianza e nella libertà. Che è, secondo me, il cuore del pensiero
della differenza sessuale.
C'è da dire anche che il molto citato passo della complementarità si
riferisce esplicitamente ad una condizione edenica, ossia prima del
peccato originale: quest'ultimo avrebbe reso potenzialmente conflittuale
il rapporto fra i sessi, dice la Lettera. Qui, mi rendo conto, si entra in
un terreno difficile ma ritengo inevitabile entrarci per tentare di capire
il linguaggio religioso che parla del peccato originale e delle sue
conseguenze. Nei paesi della Riforma, misurarsi con questo linguaggio e
con queste tematiche, è cosa che i pensatori laici non rifiutano a priori
di fare. Da noi, sarebbe buona regola astenersi, ma io non sono d'accordo,
io la penso come quel lettore (dichiaratamente non cristiano) del
manifesto che ha sentito il bisogno di scrivere una lettera per dire,
giustamente: non fingiamo che il cristianesimo non faccia parte a pieno
titolo della nostra eredità culturale. Detto in positivo: per me l'eredità
cristiana, luci e ombre, è ricchezza del pensiero ed è a disposizione di
tutti.
Tutto questo per arrivare a formulare una precisa domanda al «mio
studente»: perché, dopo quell'accenno al conflitto fra donna e uomo, non
sei tornato a parlarne? Perché non hai riconosciuto l'inevitabilità del
conflitto, perché non hai mostrato che confliggere non è fare la guerra e
che esiste la possibilità di un conflitto relazionale? Lo chiedo perché a
me sembra che queste cose rispondano alla necessità in cui ci troviamo di
fare i conti con le conseguenze del peccato originale. In altre parole, io
penso che la collaborazione tra donne e uomini, che è il tema della
Lettera, non sia possibile se non ammettiamo che possa esserci conflitto -
così come ammettiamo il dolore di nascere, la fatica di lavorare, la paura
di morire. E, soprattutto, se non ci spendiamo per renderlo, il conflitto,
compatibile con l'amore, l'amicizia, la collaborazione.
Conflitto relazionale è una formula coniata da pensatrici della
differenza, femministe. Se dicessi che è anche una pratica politica ben
radicata, direi troppo. È una ricerca, c'è un bisogno, è un'idea e ci sono
momenti e frammenti che la fanno brillare: di più non potrei dire.
L'ostacolo è grande. Lo avverto in me. Lo riconosco nel testo stesso di
questa Lettera, che non tace sul suo bersaglio polemico, che sono teorie
femministe, ma tace su alcune fonti del suo discorso, che sono altre
teorie femministe. E immagino che la reticenza su queste altre fonti sia
dovuta al fatto che il testo non può farle interamente sue. Torna così il
rapporto sterile di reciproco respingimento che mi faceva dire sopra: che
relazione sarebbe, che scambio può mai darsi, se l'altro deve pensarla in
tutto come me?
Le interpretazioni della Lettera che a me sembrano meno fedeli sono
dovute, secondo me, proprio a questo debito non pagato dall'autore verso
una parte delle sue fonti. Come fonti taciute penso, in ordine
d'importanza, primo, al femminismo cattolico, generoso e maltrattato come
quella signora del Vangelo che sparge unguento sui piedi e i capelli di
Gesù (detto alla buona: non so come quelle donne abbiano fatto a resistere
alla tracotanza clericale); secondo, alla teologia femminista, ingegnosa e
studiosa come la famosa Marta che prepara il pranzo a Gesù, vivamente
lodata non da Gesù (che, anzi, affettuosamente la sgrida) ma da Maestro
Eckhart, in uno dei suoi sermoni tedeschi. Terzo, viene il pensiero della
differenza sessuale che, volendo insistere con il parallelo evangelico,
potremmo associare alla non meno famosa Samaritana del pozzo, con cui Gesù
si ferma a discorrere. Fra le interpretazioni meno fedeli della Lettera
metterei, senza offesa, quella di Vittorio Messori sul Corriere della
sera. La Lettera, leggo, è un insegnamento «per tutti ma a cominciare
dalle donne, ingannate e rovinate da dottrine che si presentano, suasive,
come benefiche». È un mondo di fantasmi: Eva che si lascia ingannare dal
serpente, il sesso femminile mentalmente debole, il primato femminile
nella colpa delle origini... Il torto più grande di una simile lettura, al
punto in cui siamo arrivati, anno 2004, non lo patiscono più le donne, lo
patisce il testo di Ratzinger. Che però vi si presta.
L'ostacolo alla pratica del conflitto relazionale è non meno grande del
disordine simbolico prodotto nei secoli dal dominio sessista. Ne fanno
parte l'adattarsi femminile - per amore di pace, dicevano le nostre madri,
per amore del mondo, diciamo noi - e l'abitudine maschile di stare comodi
con questo adattamento, posture entrambe, quella femminile e quella
maschile, molto meno appariscenti e scandalose di certi costumi
patriarcali - il burca! - ma tanto più durature e insidiose.
Ma questa Lettera è stata scritta da un uomo che non si sentiva più di
stare comodo, a causa di donne che, se anche amano la pace e il mondo (li
amiamo, sì), prima amano la loro libertà. Che cosa è successo, chiedevo
sopra, che ha ispirato non so come, calcolo mentale o di spirito santo,
questo testo in cui la Chiesa cattolica si congeda dal preteso
trascendimento maschile della differenza sessuale e dal rinnegamento della
dipendenza biologica che per secoli hanno improntato la nostra cultura?
Potrebbe essere questo, che sempre meno le donne si prestano a portare il
segno della differenza sessuale anche per conto dell'altro («il Sesso» è
stato, in Francia, un sinonimo di «le donne») e a correggere così
l'astrattezza unilaterale del pensiero maschile, a correggerla con un
lavoro silenzioso, quotidiano, tutto incarnato, mai veramente riconosciuto
e spesso misconosciuto. Alcune di loro - di noi, io sono una donna - hanno
deciso di tradurlo in lotta politica e pensiero pensante. Altre hanno
semplicemente smesso di farlo, il lavoro, per tentare strade inedite alla
libera espressione di sé nel grande mare del neutro tecnologico - o
semplicemente si lasciano portare dove le porta la corrente. Fra le prime
e queste altre c'è confronto e scontro. Al cardinale che entra nel campo
di battaglia, sarebbe sbagliato dire: tirati indietro, tu non c'entri. Al
contrario, la cosa lo riguarda enormemente, perché è venuto il tempo di
spartire e condividere, fra donne e uomini, la significazione della
differenza sessuale, come ha continuato ad insegnare Luce Irigaray.
Possiamo invece chiedergli, esattamente come ha fatto Ida Dominijanni: e
gli uomini? Tu, che sei uomo, come pensi di lottare, da uomo, contro la
deriva che porta l'amore femminile della libertà a perdersi nel gran mare
del neutro tecnologico? Quelli che tu chiami errori, lo sono nel senso più
letterale della parola, tentativi di tracciare strade là dove sempre più
donne si stanno avviando e strade non ci sono, per nessuno, che sia uomo o
donna.
A questo punto potrei fermarmi, tanto più che sono stanca, però vado
avanti per raccontare un seguito che mi sono immaginata. (Le cose sono
messe, non per colpa mia, in una maniera tale che bisogna aiutarsi
parecchio con l'immaginazione.) Ho immaginato che, giunti a questo punto,
«il mio studente» mi chieda come lui possa contribuire ad una ricerca
filosofica, religiosa e politica che ha per protagoniste le donne, senza
fare di loro, le donne, l'oggetto del suo discorso, come a lui verrebbe
spontaneo e come di fatto fa nella sua Lettera. Non è certo il solo. Io
gli risponderei: lo puoi pensando e parlando a partire da te, secondo una
pratica di parola che siamo in molte a conoscere ma che, purtroppo,
risulta piuttosto difficile agli uomini. Dopo di che, aggiungerei: Joseph,
ho buone notizie per te, ho scoperto recentemente che la prima
formulazione scritta di questa pratica del partire da sé è opera di un
uomo, un teologo-filosofo del Medioevo che aveva una certa intimità con il
pensiero delle donne, Maestro Eckhart. Ho come l'idea che un cardinale
della Chiesa ascolti più volentieri la spiegazione di un magister della
Sorbona. Dunque, il Maestro domenicano ha scritto (traduco in italiano dal
latino, non per Ratzinger, ovviamente, ma per i lettori del manifesto)
che, quale che sia l'argomento, terreno o divino, di cui si tratta, non
possiamo pretendere di sapere niente in forza di qualche argomento
esteriore, che sia personale o oggettivo, perché tutto quello che tentiamo
di dire indipendentemente da quello che ci muove dentro, tutto questo è
peccato mortale di menzogna. Detto da me, in positivo: per cominciare a
dire qualcosa di vero, o sperare di poterlo dire, ascoltiamo ciò che ci
muove a dire e cerchiamo di renderne conto, il resto (la verità) verrà per
soprammercato.
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