Prima di partire. Era dal
2000 che volevo fare un campo di lavoro in Palestina. L’associazione
promotrice l’avevo trovata in internet. Mi sono iscritta prima di aprile,
quando la situazione è peggiorata a seguito dell’occupazione forzata nei
Territori della Cisgiordania.
Man mano che si avvicinava la data della
partenza, fissata al 10 luglio, la possibilità di raggiungere Nablus si
faceva sempre più incerta: arrivavano notizie di pacifisti di varie
associazioni rispediti indietro dall’aeroporto di Tel Aviv. La stessa
associazione universitaria di Nablus con la quale eravamo in contatto aveva
chiesto a noi quattro volontari italiani, due giorni prima della partenza,
di prenotare una notte in un ostello di Tel Aviv per dimostrare che eravamo
turisti, non volontari. Ci aveva raccomandato, nei frequenti contatti via
e-mail, di non fare nomi né portare alcun indirizzo dell’Ufficio Relazioni
Pubbliche dell’Università An-Najah di Nablus.
Il consiglio era quello di
spedire tutti gli indirizzi “compromettenti” in una mail che avremmo letto
una volta arrivati, e di criptare il nome e il numero di cellulare
dell’autista, arabo israeliano, con cui avevamo appuntamento per andare a
Nablus. Francamente mi sembravano eccessive queste misure di precauzione.
Solo dopo ho capito che per la situazione non erano esagerate.
All’aeroporto. Io e un altro volontario milanese avevamo scelto la
compagnia israeliana El-Al perché aveva le tariffe più convenienti da
Milano-Malpensa. Sapevamo che ci avrebbero fatto diverse domande, come a
tutti. Sapevamo che c’erano i cecchini all’imbarco, ma io non mi aspettavo
un trattamento come quello che ci è toccato.
Durante il mio
“interrogatorio”, in inglese, hanno subodorato che non ero propriamente una
turista, anche se io non ho fatto neanche un accenno alla Palestina.
Probabilmente l’hanno capito dalla mia faccia, e anche dalla poca
convinzione con cui cercavo di raccontare bugie in lingua inglese. Volevano
sapere cosa sarei andata a vedere da turista, e io restavo molto sul vago.
Ho anche complicato le cose, quando, sentendomi messa alle strette, ho
mostrato una richiesta di permesso per fare una ricerca all’Università
Ebraica di Gerusalemme. La richiesta me l’aveva preparata un mio amico
professore all’Università Cattolica e sarebbe dovuta servire come
lasciapassare. Quel foglio di carta intestata invece aveva destato ulteriore
sospetto.
Solo dopo essere stata a Gerusalemme e proprio all’Università
Ebraica, il medesimo giorno in cui è scoppiata una bomba in uno dei bar
dell’università, ho capito il motivo di tanta preoccupazione.
Dopo circa una
ventina di minuti di domande, in cui fra l’altro hanno voluto sapere se
avevo preparato personalmente la valigia e se l’avevo custodita fino a quel
momento, ci hanno perquisito, facendoci firmare un’autorizzazione da parte
della polizia italiana: senza questa procedura non saremmo partiti.
Io sono
stata perquisita da una donna. Ci hanno fatto togliere anche le scarpe per
controllarle. A un controllo minuzioso sono stati sottoposti anche i nostri
bagagli. Alla fine hanno trattenuto i walkman e la torcia, perché non
facevano in tempo a controllarli: ce li avrebbero spediti con il volo del
giorno seguente, ma abbiamo preferito riprenderli al nostro ritorno. Quando
siamo saliti sull’aereo ci stavano aspettando per partire.
Vivere il coprifuoco.
A Nablus il coprifuoco era stretto: soltanto due
giorni alla settimana era consentito uscire di casa, in genere dalle 8 alle
15. La televisione ne dava avviso la sera dopo le undici, in sovrimpressione
sui programmi di intrattenimento. Il programma per noi volontari comprendeva
la partecipazione ad alcuni progetti dell’Università di Nablus: un video per
documentare la situazione, la creazione di un archivio di vignette
internazionali, e la collaborazione alla preparazione della festa dei
laureandi.
Ma nessuno degli studenti ha potuto laurearsi, l’università apriva solo nei
giorni in cui non c’era il coprifuoco. Abbiamo cambiato i programmi
previsti.
Durante questi giorni di forzata inattività, abbiamo
avuto modo di conoscere molti palestinesi: studenti universitari, famiglie,
ragazze dell’orfanotrofio, bambini, esponenti dell’Unione delle Donne Arabe,
volontari dell’ISM (International Solidarity Movement), personale del
Medical Relief, e la gente dei campi profughi.
Abbiamo fatto forse la cosa
più importante: vivere il coprifuoco. Qui vi racconto due episodi,
riportandoli direttamente dal diario che ho scritto in quei giorni: uno che
riguarda i soldati israeliani e l’altro che ha per protagonisti i bambini
delle scuole estive nei campi profughi.
Il
tank di notte.
“Nablus, 17 luglio 2002. Stanotte ho preso paura. Una
piccola paura della guerra, probabilmente. La paura. Erano circa le cinque
del mattino (la preghiera c’era già stata), quando ho sentito un rumore come
di pioggia, crescente d’intensità: Sempre più forte. Nel dormiveglia pensavo
a un temporale. Ho realizzato dopo molti secondi che era un tank. Fa un
rumore spaventoso quand’è vicino. Sembra che sia entrato in casa, che stia
distruggendo tutto. Ho avuto paura: Che bombardassero, qui o le case vicine.
Sono corsa a chiamare Davide, che dormiva nella sua stanza più lontana dal
balcone. Gli ho detto “Davide, c’è un carro”. E’ venuto a vedere dalla
finestra nella mia stanza. Io non avevo messo gli occhiali. Ha detto che
c’era un carro armato grosso, col cannone, fermo nella strada.
Non abbiamo
acceso la luce. Anche Amer si è svegliato e ci ha detto di scostarci dalla
finestra e di non fare rumore. Si è alzato anche Stefano, che ha il sonno
pesante ed è arrivato con la macchina fotografica. Amer ha avuto un impeto
di stizza e nervosismo assieme: non si può fotografare. Ci siamo fermati
tutti in sala con le luci spente. Si sono sentiti degli spari di mortai. Io
avevo paura che i soldati salissero da noi. Abbiamo saputo poi che avevano
portato via il cugino di un nostro vicino di casa. Il giorno dopo ho dormito
vestita, con le lenti a contatto. Sulla porta Stefano ha avuto l’idea di
attaccare un foglio: “European Union citizens here”.
Le
scuole estive nei campi profughi.
“Nablus, 25 luglio 2002. Siamo al Children Refugee Camp di Askar, uno dei campi profughi alla periferia di
Nablus. E’ nato nel ’93. Ci sono 15 educatori, dai 18 ai 30 anni, tutti
volontari. E 250 bambini, solo per il primo turno: in tutto i bambini che
vengono accolti sono 500.
Said ci fa da guida, parla inglese. Spiega che c’è
un supervisor, che si occupa di distribuire il materiale, che viene
acquistato con i fondi delle associazioni per i rifugiati. Faccio conoscenza
con Manan (Alia è il nome sulla carta d’identità, mi spiega), un’insegnante.
E’ una donna di 29 anni, con un bel viso dai lineamenti dolci. E’ truccata e
ha gli occhiali. Durante la pausa, scambio quattro chiacchiere.
Ha con sé la
figlia di cinque anni, ma di figli ne ha cinque: di 13, di 7, di 5, di 3 e
di 2. Mi spiega orgogliosa: ’We love children’. Gli ultimi sono maschietti e
sono a casa col papà e la nonna. Gli altri sono al campo.
Viene qui tutti i
giorni, dalle 8 di mattino.
Abita qui vicino, ma lo steso dice che ci sono
volte che ha paura ad attraversare la strada. Ha paura dei soldati. Vuole
sapere cosa ci faccio lì e mi chiede se sono con loro o con i soldati. Le
rispondo che sono una volontaria. Lei è un’insegnante di arabo e religione.
A tratti ha lo sguardo diffidente. Ha le lacrime agli occhi quando parla dei
soldati. Dice ‘they have no children’. Anche lei tiene un diario. Ama
scrivere. Mi ringrazia.
Assistiamo alle attività. Durante la pausa i ragazzi
ripuliscono la palestra dalle carte delle merendine, sotto forma di gioco,
guidati da un fischietto. Ogni quarantacinque minuti i gruppi ruotano: arabo
e religione, pittura, canto e danza, drammatizzazione, attività ludiche in
palestra.
Solo i più piccoli sono in classi miste, gli adolescenti vengono
divisi. Davide ed Emanuele stanno cercando di insegnare palla prigioniera ai
ragazzi in palestra. Quando i bambini mi vedono, vengono a stringermi la
mano sorridenti e a chiedermi ‘what’s your name?’ e ‘how are you?’ senza
neanche aspettare la risposta. Ho stretto un’infinità di mani ed è
straordinario vedere la curiosità e la vivacità dei ragazzi che non sembrano
per niente spaventati dalla visita di stranieri.
C’è la voglia di conoscere
persone nuove. Sorridono sempre. Eppure un insegnante ci spiega che qualche
giorno prima i tank hanno cominciato a sparare e i bambini nella scuola
erano spaventati. In palestra è un rimbombo di voci.
Penso che non c’è
differenza con i bambini italiani. Tutti sono vestiti bene e curati, non ce
n’è nessuno particolarmente trascurato.
Assisto alla parte finale della
lezione di drammatizzazione.
L’insegnante mi spiega che stanno rappresentando
un vecchio modo di vivere l’autorità in famiglia. Il padre è molto più
vecchio della madre (per questo hanno scelto uno degli insegnanti per
rappresentarlo) e si lamenta che le figlie vogliano studiare o uscire la
sera.
Said mi spiega che nei campi profughi permangono le tradizioni che le
famiglie si sono portate dietro dalle città di provenienza e che per alcune
è ancora normale far sposare le figlie a 13/14 anni.”
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