Le donne flessibili e
il racconto delle condizioni del lavorare
di Adriana Nannicini

Diana Hakobian
Relazione al seminario "
La fabbrica e la società" Museo di Arte Contemporanea, Barcellona
aprile 2005
Premessa
Cristina Borderias propone di collegare i
temi della “femminilizzazione del lavoro” con quelli del postfordismo.
Proposta impegnativa che suggerisce di volgere lo sguardo agli elementi di
ambiguità che tratteggiano il postfordismo, ad un concetto che si
caratterizza per una grande ricchezza descrittiva e interpretativa nei
campi di molteplici discipline e che allo stesso tempo mette in luce una
certa ambiguità politica. Ambiguità che si può assumere come un indizio
di una più diffusa crisi del postfordismo in atto – finanziaria,
localizzata, economica, sociale..- e che si consolidi come crisi della
classe media, di cui “una metà cadrà nella povertà e l’altra metà vivrà di
rendita”.
Riflettere intorno alla
femminilizzazione del lavoro oggi, significa, a mio avviso, collegare
questa alla crisi del macrocontesto, e sono convinta sia possibile farlo
continuando ad agire quel rovesciamento che Lia Cigarini richiamava: non
ridursi cioè a “ inseguire il protagonismo assoluto del capitale, capitale
che macchina tutto , che decide tutto. Ha proceduto così il gruppo di
lavoro di cui faccio parte da circa dieci anni, ma tutti i gruppi di donne
che riflettono sul lavoro, non assumono in genere un approccio
socio-economico ma quello di partire dall’esperienza di quelle che ne
fanno parte, cercando di interpretarla.”[1]
Il terreno delle trasformazioni del lavoro
oggi mi pare che subisce continui mutamenti, accelerazioni di passaggi,
situato in una costante transizione. Mi pare difficile considerare la
questione della femminilizzazione soltanto come una valorizzazione della
qualità della presenza delle donne in questo mondo del lavoro oppure come
un segno di debolezza precaria tout court. Maturati nell’esperienza di
partecipazione politica a gruppi di discussione e riflessione con altre
donne propongo qui pensieri, ancora provvisori, e molto parziali, che
tendono a dar conto di esperienze. Esperienze come elaborazioni di fatti,
di accadimenti; riflessioni che mettono in luce che i rapporti che le
donne hanno con questi lavori non sono lineari, sono anzi attraversati da
incertezze diffuse sulla possibilità che le nuove forme di lavoro possano
mutarsi in uno spazio di libertà “ trasformando la discontinuità in
autonomia”. Da queste elaborazioni ancora in corso vorrei proporre qui
alcuni punti, marginali forse rispetto alla centralità del tema proposto
da Borderias, ma mi auguro non inutili.
Narrazione
Considero il tema della narrazione intorno
al lavoro centrale nella comprensione del valore di originalità e di
innovazione prodotto dalle riflessioni e dalle pratiche del movimento
femminista di questi ultimi anni. Appare in varie occasioni pubbliche e in
varie produzioni di testi come già nel ritrovarsi, nel raccontare trovino
corso istanze conoscitive e desideri trasformativi.
Il narrare, inteso qui come racconto
di qualcuna a qualcun’altra, presente vis a vis o ascoltatrice immaginata,
costituisce nelle esperienze a cui faccio riferimento soprattutto una
situazione che privilegia l’oralità, elemento forte e distintivo di una
dimensione originaria, nel rapporto fisico che intercorre tra gli sguardi,
tra le voci e i silenzi, la vicinanza e la distanza, la velocità o la
lentezza, tra le storie,una dimensione in cui accade talvolta che il
contenuto della storia sia il veicolo del raccontare, che la narratrice
solleciti esperienza sociale e creativa. Sorge, si avvolge e si svolge,
anche se talvolta sottile ed effimero come il filo della ragnatela, un
sapere distante dal costrutto analitico, scientifico, oggettivante. Si può
intravede quel “tessuto narrativo” a cui Francesca Rigotti fa riferimento
quando scrive “ in realtà l’elaborazione di un testo è sempre stata
pensata come lavoro di tessitura di segni…la proprietà di essere un
intreccio (treccia, trama, tessuto) e di costituire perciò una tesatura,
cioè un arrangiamento reciproco di elementi, una rete relazionale, una
struttura.”[2]
Narrazione come intreccio tra registro
comunicativo e ritmo del pensiero dunque, sottolinea ( è necessario?) che
quella a cui mi riferisco si sviluppa all’interno di un’esperienza come “
l’esperienza del femminismo ( che) ha fatto sì, quindi, che le donne
mettessero in atto un’interrogazione radicale della soggettività
attraverso una pratica dell’autointerrogazione – consegnataci con il nome
di “pratica di partire da sé”-[3]
Fin dall’origine del movimento dunque il raccontare si è esteso nella
quotidianità , nel ricorrere di un agire e nell’approfondirsi di un
pensiero.
Dall’inizio del nuovo millennio- ironia
della datazione- numerose occasioni di narrazione si sono avviate intorno
al tema della relazione con il lavoro assumendo modi e strutture diverse.
Mi pare necessario sottolineare che vi è un
elemento di particolare novità nella crescita di una miriade di narrazioni
intorno ad un tema, quale quello del lavoro.
Novità sul piano temporale, ma soprattutto
sul piano concettuale.
Nuovo nel tempo perché alla
generazione fondatrice del movimento risultò poco frequentato? Perché si
intreccia con l’apertura di domande pressanti intorno alla natura del
passaggio epocale del cosiddetto postfordismo?[4]
perché le sedi sindacali non sono ( ancora?) in grado di riunire i
racconti dei/lle lavoratrici autonome? Perché?
Alcune donne rivisitano questa
pratica, mentre altre più giovani vi approdano per la prima volta, ma
accade su questo tema, ciò mi pare confermi la possibilità di
metterlo in evidenza come dato imprevisto e innovativo, fatto che induce
ad osservare a distanza più ravvicinata lo svolgersi di queste narrazioni.
Se ne ritrovano talvolta tracce pubblicate
in testi di varia
[5]tipologia,
nel passaparola che promuove incontri, convegni, conferenze..
Vi sono stati gruppi di
riflessione, si sono estese le occasioni pubbliche, conferenza e
seminario, incrementati gli scambi tra oratrici e le altre nel pubblico;
sono rimasti, forse addirittura dilatati , nella loro intermittente
vitalità, gli incontri informali, i toni intimi e confidenziali dei
dialoghi con le amiche.
Se non tutte sono
accomunate dalla tenacia e da una dimensione riflessiva costante, sembrano
invece accomunate da un’urgente necessità: conoscere ,e produrre questa
conoscenza insieme con altre donne, quello che diventa il rapporto con il
lavoro, anzi con queste forme di lavoro detto postfordista; forme e
strutture che avanzano a ritmi accelerati, lungo linee disseminate.
Le narrazioni che si sono sviluppate in
ambito femminista si situano in un ambito del tutto differente rispetto a
quello caratterizzato dalla dissimetria tra i soggetti che
contraddistingue la ricerca accademica .
L’abbandono di una prospettiva
fortemente dissimetrica, di un registro relazionale tra soggetto
ricercatore e oggetto della ricerca, quella stessa che porta all’uso di
categorie interpretative di stampo oggettivante , orientato anche sul
lavoro femminile, è stato scelto da Cristina Borderias e ribadito in
numerose occasioni . Ha messo in risalto il valore nell’ascoltare le donne
intervistate come narratrici e interpreti della propria storia invece che
come fornitrici di dati da interpretare.[6]
Mutamento di prospettiva significativo
questo attuato da Borderias, confido anche in grado di proiettare
influenze su uno spazio più ampio, poiché a mio avviso contribuisce a
consolidare mutamenti di gerarchia tra saperi “codificati in un corpus
scientifico” dall’accademia e i saperi più direttamente connessi e
intrecciati alle dimensioni esperienziali, che vanno crescendo negli
interstizi della quotidianità.
Cercando di avvicinare maggiormente
queste narrazioni, il concetto elaborato da Ginevra Bompiani di spazio
narrante può aiutare a illuminare la scena “ tra la voce
narrante e il desiderio di ascoltare si stabilisce una tensione, una
distanza in cui germina la storia (…) questa tensione è la prima struttura
spaziale- anche se si tratta di uno spazio puramente virtuale- dell’opera
narrativa(…) Solo quando e finchè voce narrante e desiderio di ascoltare
si trovano insieme le storie vengono narrate.”[7]
L’originalità, irriducibile, delle
narrazioni delle donne nel movimento si situa nell’aver costruito il luogo
che era necessario perché il racconto avesse inizio. La costruzione di
contesti intermedi tra le dimensioni informali e la strutturazione di
vicende pubbliche , ha suscitato dei veri “spazi narranti”, in questi casi
per narrare il proprio rapporto con il lavoro, quando un desiderio di
ascoltare quel racconto ( la voce che narra la vicenda – diversa,
anche se solo impercettibilmente, per ogni narrazione -) si esprime e
attiva l’avvio della storia.
Poiché il desiderio di ascoltare ,
reciproco del raccontare, una storia che metta al centro la relazione con
il lavoro, una storia che dica secondo quali modalità per ognuna si
declina “sentirsi lavoratrici”è probabilmente il tratto più
caratterizzante delle lavoratrici “post-fordiste”.[8]
Il desiderio di raccontare si esprime se un
desiderio di ascoltare si attiva ed entra in dialogo con l’altra, instaura
il gioco a cui Bompiani accenna. Ciò che colpisce non sono i continui
rimandi tra i soggetti nello complessità del dialogo nello spazio
narrante, quanto che la narrazione avvenga fuori dagli spazi lavorativi, o
meglio che avvenga qui, un qui che è stato costruito perché
là la narrazione non può avvenire. Queste donne hanno costruito un
“altrove” per poter esprimere un “altrimenti”.
Lo spazio narrante parla di un desiderio di
relazione diverso, altro, da quella che è possibile praticare nei luoghi,
fisici o immateriali, dove si realizza la produzione. Parla dell’assumere
una sorta di distanza, un angolo che sia di osservazione, di riflessione
appunto . Che possa interrogare i nodi delle propria relazione con il
lavoro, con se stessa e con le altre.
Nel narrare appare possibile veder ciò
che non risulta visibile nell’azione. Cavarero evidenzia” la differenza
fondamentale tra azione e narrazione: il potere rivelativi dell’azione si
brucia nell’attimo dell’accadimento, la storia conserva invece nel tempo
l’identità”[9]
. Se nella disamina di Cavarero il narratore non partecipa direttamente al
contesto delle azioni di cui in seguito racconta la storia, nelle
narrazioni a cui faccio riferimento può essere che invece vi sia
coincidenza tra chi narra e colei che fu prima protagonista dell’azione.
Il mutare di prospettiva, quasi una sorta di rovesciamento di intenti
mantiene , a mio parere, la possibilità di quel carattere di svelamento e
comprensione dei significati della storia, che, suggerisce ancora Cavarero,
è proprio di chi narra.
Perché dunque le
narrazioni sono pressanti e urgenti, perché avvengono all’esterno dei
luoghi lavorativi? Alle pressioni esercitate dall’avvertire una sensazione
di urgenza si intreccia quella dell’emergere di una passione conoscitiva,
del porre a questi “nuovi lavori” una domanda sul senso.
Mi riferisco ancora alla ricerca di
Borderias quando sottolinea l’importanza – la significatività- ai fini del
suo percorso dell’uso del concetto di ambivalenza.”..categoria che ha
dimostrato il proprio valore euristico…per dar conto del rapporto che le
donne hanno con la doppia presenza e i modi in cui elaborano la propria
identità…nell’accesso a lavori fortemente mascolinizzati tale categoria mi
permise di descrivere e analizzare i conflitti molto reali e quotidiani
vissuti .”[10]
Credo che la motivazione
a insistere nella dimensione narrante, soggettiva e collettiva
nell’indagine intorno alla relazione con il lavorare stia effettivamente
nel riconoscere tutto il valore “euristico” del concetto di ambivalenza ,
come cifra distintiva di questa relazione.
Un’ambivalenza a cui
dare corso nelle conversazioni e spazio nei dibattiti, poiché è stata
omessa dalla gratificazione e da aspetti trionfanti. Invece parte
integrante di un incerto quadro di esperienze.
Un’ambivalenza che si è
avvertita nelle vite concrete , nel riconoscere la presenza accanto a lati
gratificanti e creativi di ombre, intessute di insicurezze ed ansie.
Segnalata da sensazioni
e comportamenti.
Divaricazione tra contenuto
e condizioni
Il lavoro di cura delle
organizzazioni
Borderias pone delle domande intorno al
lavoro ci cura centrandolo sulla cura delle persone. Propongo di spostare
lo sguardo e di mettere in primo piano le imprese; vedremo allora
apparire un lavoro di cura tutto particolare: la cura delle
organizzazioni.
Nelle situazioni che subiscono le turbolenze
e le incertezze dei mutamenti viene chiesto alle imprese di sperimentare
nuove forme di ricomposizione del dialogo tra identità dei singoli e
prestazioni lavorative, tra progetti professionali e percorsi di sviluppo
organizzativo.
Le imprese postfordiste hanno necessità di
“cure”, infatti sono contesti tendenti alla frammentazione, lanciati verso
delocalizzazioni, polverizzazioni su territori fisici e mentali sempre più
estesi, cosa accade al loro sistema di valori, ad un sistema di
regolazione a cui far sentire vincolati i collaboratori, ad un insieme di
saperi e di pratiche condivise da mettere in atto e da sviluppare? A
queste imprese servono cure che siano fatte di ricerca di consenso più che
di esercizio del comando, sono infatti contesti organizzativi che tendono
a privilegiare la cooperazione più che il controllo.
Negli uffici di direzione del personale,
alle funzioni selezione- formazione- gestione stages sono sempre più
numerose le donne, anche in ruoli dirigenziali.
Accade ciò che Antonella Picchio segnala
come problematico: le capacità relazionali femminili vengono recuperate in
una dimensione commerciale, piuttosto che essere forza di sgretolamento di
tale dimensione. Altre potrebbero invece obiettare che l’eccedenza
continua della soggettività sfugge a questi intenti, in quanto eccede,
oltrepassa i limiti imprenditoriali.
Un’attività di cura davvero particolare:
prendersi cura delle relazioni tra i singoli lavoratori e tra loro e
l’impresa, quale che sia il contratto, anzi i contratti; cura delle
famiglie professionali interne-esterne e dei loro diversi stili
comunicazionali, nel rapporto con la mission dell’impresa, i suoi valori (
il profitto?). Si opera sul piano sfuggente e inclinato della ricerca di
consenso, dell’appianamento dei contrasti, dell’ accostamento e
integrazione di funzioni esternalizzate, nell’esigenza di rendere visibili
( e dunque misurabili) compiti e obbiettivi difficilmente rappresentabili,
perché fluidi, impliciti...immateriali.
Attivare funzioni di cura per riprendere un
dialogo tra soggettività individuali e contesto organizzativo che risulta
talvolta interrotto, frammentato, oppure sovrainvestito fino a invischiare
le persone in relazioni difficilmente gestibili e scarsamente produttive.
Viene chiesto di orientare in modo
produttivo ( per chi?) le relazioni , di smussare angoli, di ricomporre
frammenti. Soprattutto nelle varie declinazioni dei compiti delle
direzioni del personale appare descritto da un lessico tale : ricomporre,
rimettere insieme, ricucire…ancora funzioni domestiche?
Attitudini tradizionalmente “femminili”
esercitate in un ambito per certi versi nuovo, anche se non nuovissimo,
all’interno del quale inoltrarsi.
Nel momento in cui le imprese assumono
connotati che sembrano fatti su misura per valorizzare le caratteristiche
che le donne portano sul lavoro, cioè un elevato investimento nelle
qualità relazionali, sembra essere in agguato la tendenza al
sovrainvestimento affettivo: il lavoro diventa oggetto di una passione che
rischia di fagocitare le donne e i soggetti che la esprimono. Tale
tendenza riguarda in particolare l’attuale scenario organizzativo in
quanto sono in forte crescita i settori ove il lavoro si fonda su
comunicazione e relazione, in altre parole su attività di tipo
linguistico, nelle quali viene privilegiata, non più solo l’innovazione
tecnologica, ma soprattutto la compenetrazione tra sfera affettiva e
lavorativa.
Si ipotizza che nel passaggio tra diversi
modelli di organizzazione del lavoro, nelle incertezze e nelle
accelerazioni che ne derivano, si presentino una pluralità di disagi
connessi a fattori più ”oggettivi” (ad es. le condizioni mutate del
contesto esterno) e altri fattori invece più “soggettivi”: mutamento di
modelli di identità, di competenze da costruire (per esempio rispetto
all’assunzione di ruoli di autorità), di cooperazione, di modelli di
carriera…
Nelle situazioni lavorative la richiesta che
viene fatta alle persone è di un investimento a tutto tondo di competenze
e disponibilità ad aderire a nuovi assetti produttivi, strategici,
comportamentali, mentre le organizzazioni tendono ad assumere contorni
sempre più sfumati e a costruire con gli individui legami sempre più
laschi in termini di supporto alla costruzione dell’identità
professionale; all’individuo viene richiesto, più o meno esplicitamente,
di riassumere in sé competenze tecniche, competenze di tipo gestionale, di
tipo relazionale e di progettazione di sé.
Le interazioni tra vita professionale e vita
personale assumono una visibilità nuova e cruciale. Un tema per tutti
appare centrale: la capacità di stare nelle situazioni di transizione, che
se appaiono sempre ricorrenti, ripropongono ambiti di esperienza
tipicamente femminili. Da sempre le donne, infatti, si sono trovate a
sviluppare delle strategie, delle abilità per gestire le intermittenze tra
vita personale e vita lavorativa, tra produzione e riproduzione: ma oggi
tali strategie non sempre risultano efficaci e soddisfacenti per tenere
insieme le esigenze personali con quelle organizzative.
Le richieste delle
organizzazioni sono state di investire a 360° le loro competenze nella
novità della situazione.
Queste voci raccontano
di come si siano trovate di fronte a richieste di riassumere personalmente
l’esercizio di competenze tecnico-professionali, ma soprattutto di tipo
gestionale. Di assumere i contorni dell’organizzazione, di presentificarla,
di renderla visibile e corporea. Contemporaneamente esposte sul piano
operativo e su quello gestionale dell’operare altrui. Alcuni di questi
racconti parlano di coinvolgimento, di desiderio di misurarsi, di
addentrarsi in un territorio poco conosciuto, che si può immaginare
sfuggente, o forse anche estraneo, ideologicamente impegnativo. Un
territorio mentale e relazionale che risulta difficile da controllare e da
confinare, che tuttavia offre talvolta quasi una sorta di ebbrezza nel
costruire spazi relazionali adattabili e non mortificanti. Qualcuna
racconta di come abbia cercato e deciso di assumere ruoli ed esercitare
competenze nel costruire, per esempio sistemi di regolazione più espliciti
e trasparenti, per sé e per le altre, utilizzando ruoli di autorità
costruttiva.
Favorire che
l’esperienza di vita lavorativa in queste imprese potesse costituire una
sorta di passaggio, di transizione tra un mercato dai tratti totalmente
“informali” - quali ad esempio quello del lavoro di cura nelle abitazioni,
nelle notti di pulizie di uffici…- ad un mercato dalle condizioni più
strutturate, declinabili in contratti, regolamenti, anche questo può
rappresentare una sfida. Sapendo infatti che condizioni più regolari
dichiarano l’appartenenza ad un mercato “formale”, e dunque consentono a
ciascuna di essere maggiormente protagoniste di un’apertura verso
transizioni, di progettare cambiamenti, professionali e di vita.
Il desiderio di
costruire organizzazioni lavorative risulta una possibilità in
controtendenza,forse quasi diseconomica, disfunzionale…”le organizzazioni
svaporano non si costruiscono”…ma è possibile guardare mercati di nicchia
che si espandono, oppure che si spostano. Alcune lo raccolgono come il
valore di una sfida, sapendo che si rischia di situarsi fuori misura. Ma
sembra che sia coinvolgente poter giocare una sfida quando lo scenario
generale dipinto ha i colori del “declino” .
Chi prova a raccontare
cerca di descrivere immagini di un desiderio di costruire contesti
organizzativi che siano distinti e distanti dai miti e dai riti delle
famiglie, dai carismi di storie eccezionali. Non sono racconti di
fondazione, di iniziatrici di imprese quelli che vengono narrati, niente
di così personalizzato, invece vengono dipinti i tratti più dimessi della
manutenzione, di costruzioni che tengano in piedi alcune possibilità di
convivenza.
Non tutte e non sempre, si giocano sul
terreno delle cura organizzativa. Emergono segnali e linee di fuga ,
quasi la percezioe di scoprirsi giocate in una posizione che ripropone
tutte le ambivalenze del “materno”. Alcune delle voci raccolte nel
Quaderno di via Dogana dichiarano di “sfuggire ad un adattamento
(imitativo di atteggiamenti maschili) collocandosi in una posizione
periferica negli ospedali, nelle imprese, nelle università(…)” di
scegliere di non mobilitarsi per raggiungere traguardi apicali nella
gerarchia, di non voler sottomettersi a modi considerati degradanti. “
allora ad altri l’onore e l’onere, meglio la marginalità che mi consente
di stare dove il mio desiderio mi porta”[16].
Desiderio di non stare nel centro dell’impresa, ma forse addirittura di
allontanarsi dalla centralità del lavoro, come ricorda Marazzi a
proposito selle testimonianze americane “ il problema fastidioso per il
business è trattenere i talenti femminili”, quando comincia ad essere
visibile quantitativamente il numero delle donne , soprattutto a livelli
elevati, che interrompono la loro attività professionale, abbandonano
carriere e fonti di reddito per potersi riappropriare di spazi per sè[17].
Certo questo attivo
sottrarsi sembra essere disponibile solo per chi ha fonti di reddito
indipendenti da quelle che provengono dalla retribuzione lavorativa, ma
segnali in questo senso cominciano a prodursi anche in Italia.
Nella difficoltà , (o
nel disinteresse?) di costruire strategie trasformative più collettive,
alcune le attuano singolarmente, condividendole nei gruppi di discussione.
Si parla di strategie di ghosting, di un
sottrarsi alla dedizione di tempo e affettiva alle ragioni lavorative.
“per qualche ora al giorno sparisco, il mio cellulare non riceve più, non
voglio essere rintracciata”. Ci si sottrae, ci si nasconde, si svanisce,
provvisoriamente. Assomiglia a ciò che alcuni psicoanalisti inglesi
studiosi di fenomeni organizzativi hanno chiamato[18]
la “sincerità calcolata”.
Strategie di
sopravvivenza, che agiscono senza nominare il conflitto, spinte da una
sorta di irriducibile contrasto con le condizioni del lavoro. Attingono
forse ad un armamentario arcaico, ma vitale, che rimanda alla
“capricciosità femminile”.
Si potrebbe suggerire la
“sincerità calcolata” come l’agire di un’obiezione, anche in relazione
alle difficoltà di accettare di agire i conflitti secondo modelli
tradizionalmente virili , rappresentazioni di incontro/scontro in cui due
soggetti si fronteggiano, una linea netta di demarcazione, le misurazioni
di rapporti di forza.
Alcune raccontano di
come l’uscita dallo “scontro conflittuale” sia appunto laterale: di come
sia possibile attingere ad identità di riserva, di come si possa giocare
su altri piani.
E se il lavoro perdesse
centralità?
Note
[1]
Cigarini;l. Comunicazione al seminario
[2]
Rigotti, F. Il filo del pensiero, Il Mulino, Bologna 2002
[3]
Vettor.T. il lavoro del senso, in Democrazia e diritto” n.7e 8/2000
[4]
su questo tema faccio riferimento a Accornero, Bologna, Fumagalli,Gorz;
Revelli
, Vantaggiato.segnalo
il saggio di Alesandra Allegrini Donne, lavoro e tecnologie IC. In
Ricerche del progetto Portico Bologna 2004
Nel corso
degli ultimi due anni in Italia si sono tenuti numerosi incontri,
conferenze, convegni, presentazioni di libri, gruppi di studio etc,
impossibile dar conto di ognuno, vedi ad es. dalle tessere alla figura
del mosaico, atti del convegno Roma 19-20 giugno 2004
[6]
Jourdan;C. strategie della libertà in Via Dogana, n.54, 2001 cit da
Vettor
[7]
Bompiani;G. Lo spazio narrante, La tartaruga, Milano 1978 pag 7
[8]
Si potrebbe volgere lo sguardo nella direzione mentalmente opposta:
verso le lavoratrici pre-industriali e trovare un tratto comune:
l’istanza di riconoscimento , dall’esterno( l’altro?) e da sé come
soggetto nel lavoro.
[9]
Cavarero;A. Tu che mi guardi, tu che mi racconti, Feltrinelli, Milano,
1997 pag 39
[10]
Borderias;C. Strategie della libertà, manifestolibri, Roma 2000.
[11]
Investimenti in termini di preparazione, di studio, di affinamento di
metodologie professionali , di sviluppo di abilità tecniche, di
aggiornamento e formazione, di costruzione di saperi e di reti…
[13]
Su questi temi si è sviluppato anche in Italia un filone di ricerca di
cui cito Cesare K aneklin e Franca Manoukian, a livello europeo invece
Richard Norman.
[14]
Trifiletti, R. Dare un genere all’uomo flessibile, in differenze e
disugualianze a cura di F.Bimbi, il mulino, Bologna 2003
[15]
Cartosio;M. 25 febbraio 2003 articolo non pubblicato.
[16]
Quaderno di via Dogana, Parole che donne usano nel mondo del lavoro
oggi, 2005, Milano
[17]
Marazzi;C. articolo su Il manifesto 5-04-2005
[18]
Intervista a Eric Miller, a cura di L. Brunner, in Spunti n 4, 2001
Relazione presentata al MACBA - museo di arte contemporanea, di
Barcellona, il 29 aprile 2005
Una giornata di seminario sul tema
La fabbrica e la società
Tema su cui il museo ragionerà per i prossimi mesi
Altri relatori:
Lia Cigarini
Cristian Marazzi
Sergio Bologna
Yann Moulier Boutang
Cristina Borderias
Teresa Thorn
Carla Casalini
13 gennaio 2006 |