Le donne flessibili e 
      il racconto delle condizioni del lavorare 
      di Adriana Nannicini
      
      
        
      Diana Hakobian
      
      Relazione al seminario " 
      La fabbrica e la società"  Museo di Arte Contemporanea, Barcellona 
      aprile 2005 
      
      Premessa 
      
      Cristina Borderias propone di collegare i 
      temi della “femminilizzazione del lavoro” con  quelli del postfordismo. 
      Proposta impegnativa che suggerisce di volgere lo sguardo agli elementi di 
      ambiguità che tratteggiano il postfordismo, ad un concetto  che si 
      caratterizza per una grande ricchezza descrittiva e interpretativa nei 
      campi di molteplici discipline e che allo stesso tempo mette in luce una 
      certa ambiguità politica. Ambiguità che  si può assumere come un indizio 
      di una più diffusa crisi del postfordismo in atto – finanziaria, 
      localizzata, economica, sociale..- e che si consolidi come crisi della 
      classe media, di cui “una metà cadrà nella povertà e l’altra metà vivrà di 
      rendita”. 
      
      Riflettere intorno alla 
      femminilizzazione del lavoro oggi, significa, a mio avviso, collegare 
      questa alla crisi del macrocontesto, e sono convinta sia possibile farlo 
      continuando ad agire quel rovesciamento che Lia Cigarini richiamava: non 
      ridursi cioè a “ inseguire il protagonismo assoluto del capitale, capitale 
      che macchina tutto , che decide tutto. Ha proceduto così il gruppo di 
      lavoro di cui faccio parte da circa dieci anni, ma tutti i gruppi di donne 
      che riflettono sul lavoro, non assumono in genere un approccio 
      socio-economico ma quello di partire dall’esperienza di quelle che ne 
      fanno parte, cercando di interpretarla.”[1] 
      
      Il terreno delle trasformazioni del lavoro 
      oggi mi pare che subisce continui mutamenti, accelerazioni di passaggi, 
      situato in una costante transizione. Mi pare difficile considerare la 
      questione della femminilizzazione soltanto come una valorizzazione della 
      qualità della presenza delle donne in questo mondo del lavoro oppure come 
      un segno di debolezza precaria tout court. Maturati nell’esperienza di 
      partecipazione politica a gruppi di discussione e riflessione con altre 
      donne propongo qui pensieri, ancora provvisori, e molto parziali, che 
      tendono a dar conto di esperienze. Esperienze come elaborazioni di fatti, 
      di accadimenti; riflessioni che mettono in luce che i rapporti che le 
      donne hanno con questi lavori non sono lineari, sono anzi attraversati da  
      incertezze diffuse sulla possibilità che le nuove forme di lavoro possano 
      mutarsi in uno spazio di libertà “ trasformando la discontinuità in 
      autonomia”. Da queste elaborazioni ancora in corso vorrei proporre qui 
      alcuni punti, marginali forse rispetto alla centralità del tema proposto 
      da Borderias, ma mi auguro non inutili. 
      
      Narrazione
      
      Considero il tema della narrazione intorno 
      al lavoro centrale nella comprensione del valore di originalità e di 
      innovazione prodotto dalle riflessioni e dalle pratiche del movimento 
      femminista di questi ultimi anni. Appare in varie occasioni pubbliche e in 
      varie produzioni di testi come già nel ritrovarsi, nel raccontare trovino 
      corso istanze conoscitive e desideri trasformativi. 
      
      Il narrare, inteso qui come racconto 
      di qualcuna a qualcun’altra, presente vis a vis o ascoltatrice immaginata, 
      costituisce nelle esperienze a cui faccio riferimento soprattutto una 
      situazione che privilegia l’oralità, elemento forte e distintivo di una 
      dimensione originaria, nel rapporto fisico che intercorre tra gli sguardi, 
      tra le voci e i silenzi, la vicinanza e la distanza, la velocità o la 
      lentezza, tra le storie,una dimensione in cui accade talvolta che il 
      contenuto della storia sia il veicolo del raccontare, che la narratrice 
      solleciti esperienza sociale e creativa. Sorge, si avvolge e si svolge, 
      anche se talvolta sottile ed effimero come il filo della ragnatela, un 
      sapere distante dal costrutto analitico, scientifico, oggettivante. Si può 
      intravede quel “tessuto narrativo” a cui Francesca Rigotti fa riferimento 
      quando scrive “ in realtà l’elaborazione di un testo è sempre stata 
      pensata come lavoro di tessitura di segni…la proprietà di essere un 
      intreccio (treccia, trama, tessuto) e di costituire perciò una tesatura, 
      cioè un arrangiamento reciproco di elementi, una rete relazionale, una 
      struttura.”[2] 
      
      Narrazione come intreccio tra registro 
      comunicativo e ritmo del pensiero dunque, sottolinea ( è necessario?) che 
      quella a cui mi riferisco si sviluppa all’interno di un’esperienza come “ 
      l’esperienza del femminismo ( che) ha fatto sì, quindi, che le donne 
      mettessero in atto un’interrogazione radicale della soggettività 
      attraverso una pratica dell’autointerrogazione – consegnataci con il nome 
      di “pratica di partire da sé”-[3] 
      Fin dall’origine del movimento dunque il raccontare si è esteso nella 
      quotidianità , nel ricorrere di un agire e nell’approfondirsi di un 
      pensiero. 
      
      Dall’inizio del nuovo millennio- ironia 
      della datazione- numerose occasioni di narrazione si sono avviate intorno 
      al tema della relazione con il lavoro assumendo modi e strutture diverse.
       
      
      Mi pare necessario sottolineare che vi è un 
      elemento di particolare novità nella crescita di una miriade di narrazioni 
      intorno ad un tema, quale quello del lavoro. 
      
      Novità sul piano temporale, ma soprattutto 
      sul piano concettuale. 
      
      Nuovo nel tempo perché alla 
      generazione fondatrice del movimento risultò poco frequentato? Perché si 
      intreccia con l’apertura di domande pressanti intorno alla natura del 
      passaggio epocale del cosiddetto postfordismo?[4] 
      perché le sedi sindacali non sono ( ancora?) in grado di riunire i 
      racconti dei/lle lavoratrici autonome? Perché? 
      
      Alcune donne rivisitano questa 
      pratica, mentre altre più giovani vi approdano per la prima volta, ma 
      accade su questo tema, ciò mi pare confermi la possibilità di 
      metterlo in evidenza come dato imprevisto e innovativo, fatto che induce 
      ad osservare a distanza più ravvicinata lo svolgersi di queste narrazioni. 
      
      Se ne ritrovano talvolta tracce pubblicate 
      in testi di varia 
      
      [5]tipologia, 
      nel passaparola che promuove incontri, convegni, conferenze.. 
      
      Vi sono stati gruppi di 
      riflessione, si sono estese le occasioni pubbliche, conferenza e 
      seminario, incrementati gli scambi tra oratrici e le altre nel pubblico; 
      sono rimasti, forse addirittura dilatati , nella loro intermittente 
      vitalità, gli incontri informali, i toni intimi e confidenziali dei 
      dialoghi con le amiche. 
      
      Se non tutte sono 
      accomunate dalla tenacia e da una dimensione riflessiva costante, sembrano 
      invece accomunate da un’urgente necessità: conoscere ,e produrre questa 
      conoscenza insieme con altre donne, quello che diventa il rapporto con il 
      lavoro, anzi con queste forme di lavoro detto postfordista; forme e 
      strutture che avanzano a ritmi accelerati, lungo linee disseminate. 
      
      Le narrazioni che si sono sviluppate in 
      ambito femminista si situano in un ambito del tutto differente rispetto a 
      quello caratterizzato dalla dissimetria tra i soggetti che 
      contraddistingue la ricerca accademica . 
      
      L’abbandono di una prospettiva 
      fortemente dissimetrica, di un registro relazionale tra soggetto 
      ricercatore e oggetto della ricerca, quella stessa che porta all’uso di 
      categorie interpretative di stampo oggettivante , orientato anche sul 
      lavoro femminile, è stato scelto da Cristina Borderias e ribadito in 
      numerose occasioni . Ha messo in risalto il valore nell’ascoltare le donne 
      intervistate come narratrici e interpreti della propria storia invece che 
      come fornitrici di dati da interpretare.[6] 
      
      Mutamento di prospettiva significativo 
      questo attuato da Borderias, confido anche in grado di proiettare 
      influenze su uno spazio più ampio, poiché a mio avviso contribuisce a 
      consolidare mutamenti di gerarchia tra saperi “codificati in un corpus 
      scientifico” dall’accademia e i saperi più direttamente connessi e 
      intrecciati alle dimensioni esperienziali, che vanno crescendo negli 
      interstizi della quotidianità. 
      
      Cercando di avvicinare maggiormente 
      queste narrazioni, il concetto elaborato da Ginevra Bompiani di spazio 
      narrante può aiutare a illuminare la scena “ tra la voce 
      narrante e il desiderio di ascoltare si stabilisce una tensione, una 
      distanza in cui germina la storia (…) questa tensione è la prima struttura 
      spaziale- anche se si tratta di uno spazio puramente virtuale- dell’opera 
      narrativa(…) Solo quando e finchè voce narrante e desiderio di ascoltare 
      si trovano insieme le storie vengono narrate.”[7] 
       
      
      L’originalità, irriducibile, delle 
      narrazioni delle donne nel movimento si situa nell’aver costruito il luogo 
      che era necessario perché il racconto avesse inizio. La costruzione di 
      contesti intermedi tra le dimensioni informali e la strutturazione di 
      vicende pubbliche , ha suscitato dei veri “spazi narranti”, in questi casi 
      per narrare il proprio rapporto con il lavoro, quando un desiderio di 
      ascoltare quel racconto ( la voce che narra la vicenda – diversa, 
      anche se solo impercettibilmente, per ogni narrazione -) si esprime e 
      attiva l’avvio della storia. 
      
      Poiché il desiderio di ascoltare , 
      reciproco del raccontare, una storia che metta al centro la relazione con 
      il lavoro, una storia che dica secondo quali modalità per ognuna si 
      declina “sentirsi lavoratrici”è probabilmente il tratto più 
      caratterizzante delle lavoratrici “post-fordiste”.[8] 
      
      Il desiderio di raccontare si esprime se un 
      desiderio di ascoltare si attiva ed entra in dialogo con l’altra, instaura 
      il gioco a cui Bompiani accenna. Ciò che colpisce non sono i continui 
      rimandi tra i soggetti nello complessità del dialogo nello spazio 
      narrante, quanto che la narrazione avvenga fuori dagli spazi lavorativi, o 
      meglio che avvenga qui, un qui che è stato costruito perché
      là la narrazione non può avvenire. Queste donne hanno costruito un 
      “altrove” per poter esprimere un “altrimenti”. 
      
      Lo spazio narrante parla di un desiderio di 
      relazione diverso, altro, da quella che è possibile praticare nei luoghi, 
      fisici o immateriali, dove si realizza la produzione. Parla dell’assumere 
      una sorta di distanza, un angolo che sia di osservazione, di riflessione 
      appunto . Che possa interrogare i nodi delle propria relazione con il 
      lavoro, con se stessa e con le altre. 
      
      Nel narrare appare possibile veder ciò 
      che non risulta visibile nell’azione. Cavarero evidenzia” la differenza 
      fondamentale tra azione e narrazione: il potere rivelativi dell’azione si 
      brucia nell’attimo dell’accadimento, la storia conserva invece nel tempo 
      l’identità”[9] 
      . Se nella disamina di Cavarero il narratore non partecipa direttamente al 
      contesto delle azioni di cui in seguito racconta la storia, nelle 
      narrazioni a cui faccio riferimento può essere che invece vi sia 
      coincidenza tra chi narra e colei che fu prima protagonista dell’azione. 
      Il mutare di prospettiva, quasi una sorta di rovesciamento di intenti 
      mantiene , a mio parere, la possibilità di quel carattere di svelamento e 
      comprensione dei significati della storia, che, suggerisce ancora Cavarero, 
      è proprio di chi narra. 
      
      Perché dunque le 
      narrazioni sono pressanti e urgenti, perché avvengono all’esterno dei 
      luoghi lavorativi? Alle pressioni esercitate dall’avvertire una sensazione 
      di urgenza si intreccia quella dell’emergere di una passione conoscitiva, 
      del porre a questi “nuovi lavori” una domanda sul senso. 
      
      Mi riferisco ancora alla ricerca di 
      Borderias quando sottolinea l’importanza – la significatività- ai fini del 
      suo percorso dell’uso del concetto di ambivalenza.”..categoria che ha 
      dimostrato il proprio valore euristico…per dar conto del rapporto che le 
      donne hanno con la doppia presenza e i modi in cui elaborano la propria 
      identità…nell’accesso a lavori fortemente mascolinizzati tale categoria mi 
      permise di descrivere e analizzare i conflitti molto reali e quotidiani 
      vissuti .”[10] 
      
      Credo che la motivazione 
      a insistere nella dimensione narrante, soggettiva e collettiva 
      nell’indagine intorno alla relazione con il lavorare stia effettivamente 
      nel riconoscere tutto il valore “euristico” del concetto di ambivalenza , 
      come cifra distintiva di questa relazione. 
      
      Un’ambivalenza a cui 
      dare corso nelle conversazioni e spazio nei dibattiti, poiché è stata 
      omessa dalla gratificazione e da aspetti trionfanti. Invece parte 
      integrante di un incerto quadro di esperienze. 
      
      Un’ambivalenza che si è 
      avvertita nelle vite concrete , nel riconoscere la presenza accanto a lati 
      gratificanti e creativi di ombre, intessute di insicurezze ed ansie. 
      
      Segnalata da sensazioni 
      e comportamenti. 
      
        
      
      Divaricazione tra contenuto 
      e condizioni
      
        
      
      
      
      
      
      
      
      
      
      
      
      
      
      
      Il lavoro di cura delle 
      organizzazioni
        
      
      Borderias pone delle domande intorno al 
      lavoro ci cura centrandolo sulla cura delle persone. Propongo di spostare 
      lo sguardo e  di mettere in primo piano le imprese; vedremo allora 
      apparire un lavoro di cura tutto particolare: la cura delle 
      organizzazioni. 
      
      Nelle situazioni che subiscono le turbolenze 
      e le incertezze dei mutamenti viene chiesto alle imprese di sperimentare 
      nuove forme di ricomposizione del dialogo tra identità dei singoli e 
      prestazioni lavorative, tra progetti professionali e percorsi di sviluppo 
      organizzativo.  
      
      Le imprese postfordiste hanno necessità di 
      “cure”, infatti sono contesti tendenti alla frammentazione, lanciati verso 
      delocalizzazioni, polverizzazioni su territori fisici e mentali sempre più 
      estesi, cosa accade al loro sistema di valori, ad un sistema di 
      regolazione a cui far sentire vincolati i collaboratori, ad un insieme di 
      saperi e di pratiche condivise da mettere in atto e da sviluppare? A 
      queste imprese servono cure che siano fatte di ricerca di consenso più che 
      di esercizio del comando, sono infatti contesti organizzativi che tendono 
      a privilegiare la cooperazione più che il controllo. 
      
      Negli uffici di direzione del personale, 
      alle funzioni selezione- formazione- gestione stages sono sempre più 
      numerose le donne, anche in ruoli dirigenziali. 
      
      Accade ciò che Antonella Picchio segnala 
      come problematico: le capacità relazionali femminili vengono recuperate in 
      una dimensione commerciale, piuttosto che essere forza di sgretolamento di 
      tale dimensione. Altre potrebbero invece obiettare che l’eccedenza 
      continua della soggettività sfugge a questi intenti, in quanto eccede, 
      oltrepassa i limiti imprenditoriali. 
      
      Un’attività di cura davvero particolare: 
      prendersi cura delle relazioni tra i singoli lavoratori e tra loro e 
      l’impresa, quale che sia il contratto, anzi i contratti; cura delle 
      famiglie professionali interne-esterne e dei loro diversi stili 
      comunicazionali, nel rapporto con la mission dell’impresa, i suoi valori ( 
      il profitto?). Si opera sul piano sfuggente e inclinato della ricerca di 
      consenso, dell’appianamento dei contrasti, dell’ accostamento  e 
      integrazione di funzioni esternalizzate, nell’esigenza di rendere visibili 
      ( e dunque misurabili) compiti e obbiettivi difficilmente rappresentabili, 
      perché fluidi, impliciti...immateriali. 
      
      Attivare funzioni di cura per riprendere un 
      dialogo tra soggettività individuali e contesto organizzativo che risulta 
      talvolta interrotto, frammentato, oppure sovrainvestito fino a invischiare 
      le persone in relazioni difficilmente gestibili e scarsamente produttive. 
      
      Viene chiesto di orientare in modo 
      produttivo ( per chi?) le relazioni , di smussare angoli, di ricomporre 
      frammenti. Soprattutto nelle varie declinazioni dei compiti delle 
      direzioni del personale appare descritto da un lessico tale : ricomporre, 
      rimettere insieme, ricucire…ancora funzioni domestiche? 
      
      Attitudini tradizionalmente “femminili” 
      esercitate in un ambito per certi versi nuovo, anche se non nuovissimo, 
      all’interno del quale inoltrarsi. 
      
      Nel momento in cui le imprese assumono 
      connotati che sembrano fatti su misura per valorizzare le caratteristiche 
      che le donne portano sul lavoro, cioè un elevato investimento nelle 
      qualità relazionali, sembra essere in agguato la tendenza al 
      sovrainvestimento affettivo: il lavoro diventa oggetto di una passione che 
      rischia di fagocitare le donne e i soggetti che la esprimono. Tale 
      tendenza riguarda in particolare l’attuale scenario organizzativo in 
      quanto sono in forte crescita i settori ove il lavoro si fonda su 
      comunicazione e relazione, in altre parole su attività di tipo 
      linguistico, nelle quali viene privilegiata, non più solo l’innovazione 
      tecnologica, ma soprattutto la compenetrazione tra sfera affettiva e 
      lavorativa.  
      
      Si ipotizza che nel passaggio tra diversi 
      modelli di organizzazione del lavoro, nelle incertezze e nelle 
      accelerazioni che ne derivano, si presentino una pluralità di disagi 
      connessi a fattori più ”oggettivi” (ad es. le condizioni mutate del 
      contesto esterno) e altri fattori invece più “soggettivi”: mutamento di 
      modelli di identità, di competenze da costruire (per esempio rispetto 
      all’assunzione di ruoli di autorità), di cooperazione, di modelli di 
      carriera… 
      
      Nelle situazioni lavorative la richiesta che 
      viene fatta alle persone è di un investimento a tutto tondo di competenze 
      e disponibilità ad aderire a nuovi assetti produttivi, strategici, 
      comportamentali, mentre le organizzazioni tendono ad assumere contorni 
      sempre più sfumati e a costruire con gli individui legami sempre più 
      laschi in termini di supporto alla costruzione dell’identità 
      professionale; all’individuo viene richiesto, più o meno esplicitamente, 
      di riassumere in sé competenze tecniche, competenze di tipo gestionale, di 
      tipo relazionale e di progettazione di sé.  
      
      Le interazioni tra vita professionale e vita 
      personale assumono una visibilità nuova e cruciale. Un tema per tutti 
      appare centrale: la capacità di stare nelle situazioni di transizione, che 
      se appaiono sempre ricorrenti, ripropongono ambiti di esperienza 
      tipicamente femminili. Da sempre le donne, infatti, si sono trovate a 
      sviluppare delle strategie, delle abilità per gestire le intermittenze tra 
      vita personale e vita lavorativa, tra produzione e riproduzione: ma oggi 
      tali strategie non sempre risultano efficaci e soddisfacenti per tenere 
      insieme le esigenze personali con quelle organizzative. 
      
      Le richieste delle 
      organizzazioni sono state  di investire a 360° le loro competenze nella 
      novità della situazione.  
      
      Queste voci raccontano 
      di come si siano trovate di fronte a richieste di riassumere personalmente 
      l’esercizio di competenze tecnico-professionali, ma soprattutto di tipo 
      gestionale. Di assumere i contorni dell’organizzazione, di presentificarla, 
      di renderla visibile e corporea. Contemporaneamente esposte sul piano 
      operativo e su quello gestionale dell’operare altrui. Alcuni di questi 
      racconti parlano di coinvolgimento, di desiderio di misurarsi, di 
      addentrarsi in un territorio poco conosciuto, che si può immaginare 
      sfuggente, o forse anche estraneo, ideologicamente impegnativo. Un 
      territorio mentale e relazionale che risulta difficile da controllare e da 
      confinare, che tuttavia offre talvolta quasi una sorta di ebbrezza nel 
      costruire spazi relazionali adattabili e non mortificanti. Qualcuna 
      racconta di come abbia cercato e deciso di assumere ruoli ed esercitare 
      competenze nel costruire, per esempio sistemi di regolazione più espliciti 
      e trasparenti, per sé e per le altre, utilizzando ruoli di autorità 
      costruttiva. 
      
      Favorire che 
      l’esperienza di vita lavorativa in queste imprese potesse costituire una 
      sorta di passaggio, di transizione tra un mercato dai tratti totalmente 
      “informali” - quali ad esempio quello del lavoro di cura nelle abitazioni, 
      nelle notti di pulizie di uffici…- ad un mercato dalle condizioni più 
      strutturate, declinabili in contratti, regolamenti, anche questo può 
      rappresentare una sfida. Sapendo infatti che condizioni più regolari 
      dichiarano l’appartenenza ad un mercato “formale”, e dunque consentono  a 
      ciascuna di essere maggiormente protagoniste di un’apertura verso 
      transizioni, di progettare cambiamenti, professionali e di vita. 
      
       Il desiderio di 
      costruire organizzazioni lavorative risulta una possibilità in 
      controtendenza,forse quasi diseconomica, disfunzionale…”le organizzazioni 
      svaporano non si costruiscono”…ma è possibile guardare mercati di nicchia 
      che si espandono, oppure che si spostano. Alcune lo raccolgono come il 
      valore di una sfida, sapendo che si rischia di situarsi fuori misura. Ma 
      sembra che sia coinvolgente poter giocare una sfida quando lo scenario 
      generale dipinto ha i colori del “declino” . 
      
      Chi prova a raccontare 
      cerca di descrivere immagini di un desiderio di costruire contesti 
      organizzativi che siano distinti e distanti dai miti e dai riti delle 
      famiglie, dai carismi di storie eccezionali. Non sono racconti di 
      fondazione, di iniziatrici  di imprese quelli che vengono narrati, niente 
      di così personalizzato, invece vengono dipinti i tratti più dimessi della 
      manutenzione, di costruzioni che tengano in piedi alcune possibilità di 
      convivenza. 
      
      Non tutte e non sempre, si giocano sul 
      terreno delle cura organizzativa. Emergono segnali  e linee di fuga , 
      quasi la percezioe di scoprirsi giocate in una posizione che ripropone 
      tutte le ambivalenze del “materno”. Alcune delle voci raccolte nel 
      Quaderno di via Dogana dichiarano  di “sfuggire ad un adattamento  
      (imitativo di atteggiamenti maschili) collocandosi in una posizione 
      periferica negli ospedali, nelle imprese, nelle università(…)” di 
      scegliere di non mobilitarsi per raggiungere traguardi apicali nella 
      gerarchia, di non voler sottomettersi a modi considerati degradanti. “ 
      allora ad altri l’onore e l’onere, meglio la marginalità che mi consente 
      di stare dove il mio desiderio mi porta”[16]. 
      Desiderio di non stare nel centro dell’impresa, ma forse addirittura di 
      allontanarsi dalla centralità del lavoro, come ricorda Marazzi  a 
      proposito selle testimonianze americane “ il problema fastidioso per il 
      business è trattenere i talenti femminili”, quando comincia ad essere 
      visibile quantitativamente il numero delle donne , soprattutto a livelli 
      elevati, che interrompono la loro attività professionale, abbandonano 
      carriere e fonti di reddito per potersi riappropriare di spazi per sè[17]. 
      
      Certo  questo attivo 
      sottrarsi sembra essere disponibile solo per chi ha fonti di reddito 
      indipendenti da quelle  che provengono dalla retribuzione lavorativa, ma 
      segnali in questo senso cominciano a prodursi anche in Italia. 
       
      
      Nella difficoltà , (o 
      nel disinteresse?) di costruire strategie trasformative più collettive, 
      alcune le attuano singolarmente, condividendole nei gruppi di discussione. 
      
      Si parla di strategie di ghosting, di un 
      sottrarsi alla dedizione di tempo e affettiva alle ragioni lavorative. 
      “per qualche ora al giorno sparisco, il mio cellulare non riceve più, non 
      voglio essere rintracciata”. Ci si sottrae, ci si nasconde, si svanisce, 
      provvisoriamente. Assomiglia a ciò che alcuni psicoanalisti inglesi 
      studiosi di fenomeni organizzativi hanno chiamato[18] 
      la “sincerità calcolata”. 
      
      Strategie di 
      sopravvivenza, che agiscono senza nominare il conflitto, spinte da una 
      sorta di irriducibile contrasto con le condizioni del lavoro. Attingono 
      forse ad un armamentario arcaico, ma vitale, che rimanda alla 
      “capricciosità femminile”. 
      
      Si potrebbe suggerire la 
      “sincerità calcolata” come l’agire di un’obiezione, anche in relazione 
      alle difficoltà di accettare di agire i conflitti secondo modelli 
      tradizionalmente virili , rappresentazioni di incontro/scontro in cui due 
      soggetti si fronteggiano, una linea netta di demarcazione, le misurazioni 
      di rapporti di forza. 
      
      Alcune raccontano di 
      come l’uscita dallo “scontro conflittuale” sia appunto laterale: di come 
      sia possibile attingere ad identità di riserva, di come si possa giocare 
      su altri piani. 
      
      E se il lavoro perdesse 
      centralità? 
      
        
      
         
        
        Note 
        
        
          
          
          
          [1] 
          Cigarini;l. Comunicazione al seminario  
        
          
          
          
          [2] 
          Rigotti, F. Il filo del pensiero, Il Mulino, Bologna 2002  
        
          
          
          
          [3] 
          Vettor.T. il lavoro del senso, in Democrazia e diritto” n.7e 8/2000  
        
          
          
          
          [4] 
          su questo tema faccio riferimento a Accornero, Bologna, Fumagalli,Gorz; 
          Revelli  
        
          , Vantaggiato.segnalo 
          il saggio di Alesandra Allegrini Donne, lavoro e tecnologie IC. In 
          Ricerche del progetto Portico Bologna 2004 
          Nel corso 
          degli ultimi due anni in Italia si sono tenuti numerosi incontri, 
          conferenze, convegni, presentazioni di libri, gruppi di studio etc, 
          impossibile dar conto di ognuno, vedi ad es. dalle tessere alla figura 
          del mosaico, atti del convegno Roma 19-20 giugno 2004  
        
          
          
          
          [6] 
          Jourdan;C. strategie della libertà in Via Dogana, n.54, 2001 cit da 
          Vettor  
        
          
          
          
          [7] 
          Bompiani;G. Lo spazio narrante, La tartaruga, Milano 1978 pag 7  
        
          
          
          
          [8] 
          Si potrebbe volgere lo sguardo nella direzione mentalmente opposta: 
          verso le lavoratrici pre-industriali e trovare un tratto comune: 
          l’istanza di riconoscimento , dall’esterno( l’altro?) e da sé come 
          soggetto nel lavoro.  
        
          
          
          
          [9] 
          Cavarero;A. Tu che mi guardi, tu che mi racconti, Feltrinelli, Milano, 
          1997 pag 39  
        
          
          
          
          [10] 
          Borderias;C. Strategie della libertà, manifestolibri, Roma 2000.  
        
          
          
          
          [11] 
          Investimenti in termini di preparazione, di studio, di affinamento di 
          metodologie professionali , di sviluppo di abilità tecniche, di 
          aggiornamento e formazione, di costruzione di saperi e di reti…  
        
        
          
          
          
          [13] 
          Su questi temi si è sviluppato anche in Italia un filone di ricerca di 
          cui cito Cesare K aneklin e Franca Manoukian, a livello europeo invece 
          Richard Norman.  
        
          
          
          
          [14] 
          Trifiletti, R. Dare un genere all’uomo flessibile, in differenze e 
          disugualianze a cura di F.Bimbi, il mulino, Bologna 2003  
        
          
          
          
          [15] 
          Cartosio;M.  25 febbraio 2003 articolo non pubblicato.  
        
          
          
          
          [16] 
          Quaderno di via Dogana, Parole che donne usano nel mondo del lavoro 
          oggi, 2005, Milano  
        
          
          
          
          [17] 
          Marazzi;C. articolo su Il manifesto 5-04-2005  
        
          
          
          
          [18] 
          Intervista a Eric Miller, a cura di L. Brunner, in Spunti n 4, 2001 
             
       
      
      Relazione presentata al MACBA - museo di arte contemporanea, di 
      Barcellona, il 29 aprile 2005  
      Una giornata di seminario sul tema  
      La fabbrica e la società 
      Tema su cui il museo ragionerà per i prossimi mesi 
      Altri relatori:  
      Lia Cigarini 
      Cristian Marazzi 
      Sergio Bologna 
      Yann Moulier Boutang 
      Cristina Borderias 
      Teresa Thorn 
      Carla Casalini 
      
      13 gennaio 2006  |