Le donne flessibili e il racconto delle condizioni del lavorare
di Adriana Nannicini


Diana Hakobian

Relazione al seminario " La fabbrica e la società"  Museo di Arte Contemporanea, Barcellona aprile 2005

Premessa

Cristina Borderias propone di collegare i temi della “femminilizzazione del lavoro” con  quelli del postfordismo. Proposta impegnativa che suggerisce di volgere lo sguardo agli elementi di ambiguità che tratteggiano il postfordismo, ad un concetto  che si caratterizza per una grande ricchezza descrittiva e interpretativa nei campi di molteplici discipline e che allo stesso tempo mette in luce una certa ambiguità politica. Ambiguità che  si può assumere come un indizio di una più diffusa crisi del postfordismo in atto – finanziaria, localizzata, economica, sociale..- e che si consolidi come crisi della classe media, di cui “una metà cadrà nella povertà e l’altra metà vivrà di rendita”.

Riflettere intorno alla femminilizzazione del lavoro oggi, significa, a mio avviso, collegare questa alla crisi del macrocontesto, e sono convinta sia possibile farlo continuando ad agire quel rovesciamento che Lia Cigarini richiamava: non ridursi cioè a “ inseguire il protagonismo assoluto del capitale, capitale che macchina tutto , che decide tutto. Ha proceduto così il gruppo di lavoro di cui faccio parte da circa dieci anni, ma tutti i gruppi di donne che riflettono sul lavoro, non assumono in genere un approccio socio-economico ma quello di partire dall’esperienza di quelle che ne fanno parte, cercando di interpretarla.”[1]

Il terreno delle trasformazioni del lavoro oggi mi pare che subisce continui mutamenti, accelerazioni di passaggi, situato in una costante transizione. Mi pare difficile considerare la questione della femminilizzazione soltanto come una valorizzazione della qualità della presenza delle donne in questo mondo del lavoro oppure come un segno di debolezza precaria tout court. Maturati nell’esperienza di partecipazione politica a gruppi di discussione e riflessione con altre donne propongo qui pensieri, ancora provvisori, e molto parziali, che tendono a dar conto di esperienze. Esperienze come elaborazioni di fatti, di accadimenti; riflessioni che mettono in luce che i rapporti che le donne hanno con questi lavori non sono lineari, sono anzi attraversati da  incertezze diffuse sulla possibilità che le nuove forme di lavoro possano mutarsi in uno spazio di libertà “ trasformando la discontinuità in autonomia”. Da queste elaborazioni ancora in corso vorrei proporre qui alcuni punti, marginali forse rispetto alla centralità del tema proposto da Borderias, ma mi auguro non inutili.

Narrazione

Considero il tema della narrazione intorno al lavoro centrale nella comprensione del valore di originalità e di innovazione prodotto dalle riflessioni e dalle pratiche del movimento femminista di questi ultimi anni. Appare in varie occasioni pubbliche e in varie produzioni di testi come già nel ritrovarsi, nel raccontare trovino corso istanze conoscitive e desideri trasformativi.

Il narrare, inteso qui come racconto di qualcuna a qualcun’altra, presente vis a vis o ascoltatrice immaginata, costituisce nelle esperienze a cui faccio riferimento soprattutto una situazione che privilegia l’oralità, elemento forte e distintivo di una dimensione originaria, nel rapporto fisico che intercorre tra gli sguardi, tra le voci e i silenzi, la vicinanza e la distanza, la velocità o la lentezza, tra le storie,una dimensione in cui accade talvolta che il contenuto della storia sia il veicolo del raccontare, che la narratrice solleciti esperienza sociale e creativa. Sorge, si avvolge e si svolge, anche se talvolta sottile ed effimero come il filo della ragnatela, un sapere distante dal costrutto analitico, scientifico, oggettivante. Si può intravede quel “tessuto narrativo” a cui Francesca Rigotti fa riferimento quando scrive “ in realtà l’elaborazione di un testo è sempre stata pensata come lavoro di tessitura di segni…la proprietà di essere un intreccio (treccia, trama, tessuto) e di costituire perciò una tesatura, cioè un arrangiamento reciproco di elementi, una rete relazionale, una struttura.”[2]

Narrazione come intreccio tra registro comunicativo e ritmo del pensiero dunque, sottolinea ( è necessario?) che quella a cui mi riferisco si sviluppa all’interno di un’esperienza come “ l’esperienza del femminismo ( che) ha fatto sì, quindi, che le donne mettessero in atto un’interrogazione radicale della soggettività attraverso una pratica dell’autointerrogazione – consegnataci con il nome di “pratica di partire da sé”-[3] Fin dall’origine del movimento dunque il raccontare si è esteso nella quotidianità , nel ricorrere di un agire e nell’approfondirsi di un pensiero.

Dall’inizio del nuovo millennio- ironia della datazione- numerose occasioni di narrazione si sono avviate intorno al tema della relazione con il lavoro assumendo modi e strutture diverse.

Mi pare necessario sottolineare che vi è un elemento di particolare novità nella crescita di una miriade di narrazioni intorno ad un tema, quale quello del lavoro.

Novità sul piano temporale, ma soprattutto sul piano concettuale.

Nuovo nel tempo perché alla generazione fondatrice del movimento risultò poco frequentato? Perché si intreccia con l’apertura di domande pressanti intorno alla natura del passaggio epocale del cosiddetto postfordismo?[4] perché le sedi sindacali non sono ( ancora?) in grado di riunire i racconti dei/lle lavoratrici autonome? Perché?

Alcune donne rivisitano questa pratica, mentre altre più giovani vi approdano per la prima volta, ma accade su questo tema, ciò mi pare confermi la possibilità di metterlo in evidenza come dato imprevisto e innovativo, fatto che induce ad osservare a distanza più ravvicinata lo svolgersi di queste narrazioni.

Se ne ritrovano talvolta tracce pubblicate in testi di varia [5]tipologia, nel passaparola che promuove incontri, convegni, conferenze..

Vi sono stati gruppi di riflessione, si sono estese le occasioni pubbliche, conferenza e seminario, incrementati gli scambi tra oratrici e le altre nel pubblico; sono rimasti, forse addirittura dilatati , nella loro intermittente vitalità, gli incontri informali, i toni intimi e confidenziali dei dialoghi con le amiche.

Se non tutte sono accomunate dalla tenacia e da una dimensione riflessiva costante, sembrano invece accomunate da un’urgente necessità: conoscere ,e produrre questa conoscenza insieme con altre donne, quello che diventa il rapporto con il lavoro, anzi con queste forme di lavoro detto postfordista; forme e strutture che avanzano a ritmi accelerati, lungo linee disseminate.

Le narrazioni che si sono sviluppate in ambito femminista si situano in un ambito del tutto differente rispetto a quello caratterizzato dalla dissimetria tra i soggetti che contraddistingue la ricerca accademica .

L’abbandono di una prospettiva fortemente dissimetrica, di un registro relazionale tra soggetto ricercatore e oggetto della ricerca, quella stessa che porta all’uso di categorie interpretative di stampo oggettivante , orientato anche sul lavoro femminile, è stato scelto da Cristina Borderias e ribadito in numerose occasioni . Ha messo in risalto il valore nell’ascoltare le donne intervistate come narratrici e interpreti della propria storia invece che come fornitrici di dati da interpretare.[6]

Mutamento di prospettiva significativo questo attuato da Borderias, confido anche in grado di proiettare influenze su uno spazio più ampio, poiché a mio avviso contribuisce a consolidare mutamenti di gerarchia tra saperi “codificati in un corpus scientifico” dall’accademia e i saperi più direttamente connessi e intrecciati alle dimensioni esperienziali, che vanno crescendo negli interstizi della quotidianità.

Cercando di avvicinare maggiormente queste narrazioni, il concetto elaborato da Ginevra Bompiani di spazio narrante può aiutare a illuminare la scena “ tra la voce narrante e il desiderio di ascoltare si stabilisce una tensione, una distanza in cui germina la storia (…) questa tensione è la prima struttura spaziale- anche se si tratta di uno spazio puramente virtuale- dell’opera narrativa(…) Solo quando e finchè voce narrante e desiderio di ascoltare si trovano insieme le storie vengono narrate.”[7] 

L’originalità, irriducibile, delle narrazioni delle donne nel movimento si situa nell’aver costruito il luogo che era necessario perché il racconto avesse inizio. La costruzione di contesti intermedi tra le dimensioni informali e la strutturazione di vicende pubbliche , ha suscitato dei veri “spazi narranti”, in questi casi per narrare il proprio rapporto con il lavoro, quando un desiderio di ascoltare quel racconto ( la voce che narra la vicenda – diversa, anche se solo impercettibilmente, per ogni narrazione -) si esprime e attiva l’avvio della storia.

Poiché il desiderio di ascoltare , reciproco del raccontare, una storia che metta al centro la relazione con il lavoro, una storia che dica secondo quali modalità per ognuna si declina “sentirsi lavoratrici”è probabilmente il tratto più caratterizzante delle lavoratrici “post-fordiste”.[8]

Il desiderio di raccontare si esprime se un desiderio di ascoltare si attiva ed entra in dialogo con l’altra, instaura il gioco a cui Bompiani accenna. Ciò che colpisce non sono i continui rimandi tra i soggetti nello complessità del dialogo nello spazio narrante, quanto che la narrazione avvenga fuori dagli spazi lavorativi, o meglio che avvenga qui, un qui che è stato costruito perché la narrazione non può avvenire. Queste donne hanno costruito un “altrove” per poter esprimere un “altrimenti”.

Lo spazio narrante parla di un desiderio di relazione diverso, altro, da quella che è possibile praticare nei luoghi, fisici o immateriali, dove si realizza la produzione. Parla dell’assumere una sorta di distanza, un angolo che sia di osservazione, di riflessione appunto . Che possa interrogare i nodi delle propria relazione con il lavoro, con se stessa e con le altre.

Nel narrare appare possibile veder ciò che non risulta visibile nell’azione. Cavarero evidenzia” la differenza fondamentale tra azione e narrazione: il potere rivelativi dell’azione si brucia nell’attimo dell’accadimento, la storia conserva invece nel tempo l’identità”[9] . Se nella disamina di Cavarero il narratore non partecipa direttamente al contesto delle azioni di cui in seguito racconta la storia, nelle narrazioni a cui faccio riferimento può essere che invece vi sia coincidenza tra chi narra e colei che fu prima protagonista dell’azione. Il mutare di prospettiva, quasi una sorta di rovesciamento di intenti mantiene , a mio parere, la possibilità di quel carattere di svelamento e comprensione dei significati della storia, che, suggerisce ancora Cavarero, è proprio di chi narra.

Perché dunque le narrazioni sono pressanti e urgenti, perché avvengono all’esterno dei luoghi lavorativi? Alle pressioni esercitate dall’avvertire una sensazione di urgenza si intreccia quella dell’emergere di una passione conoscitiva, del porre a questi “nuovi lavori” una domanda sul senso.

Mi riferisco ancora alla ricerca di Borderias quando sottolinea l’importanza – la significatività- ai fini del suo percorso dell’uso del concetto di ambivalenza.”..categoria che ha dimostrato il proprio valore euristico…per dar conto del rapporto che le donne hanno con la doppia presenza e i modi in cui elaborano la propria identità…nell’accesso a lavori fortemente mascolinizzati tale categoria mi permise di descrivere e analizzare i conflitti molto reali e quotidiani vissuti .”[10]

Credo che la motivazione a insistere nella dimensione narrante, soggettiva e collettiva nell’indagine intorno alla relazione con il lavorare stia effettivamente nel riconoscere tutto il valore “euristico” del concetto di ambivalenza , come cifra distintiva di questa relazione.

Un’ambivalenza a cui dare corso nelle conversazioni e spazio nei dibattiti, poiché è stata omessa dalla gratificazione e da aspetti trionfanti. Invece parte integrante di un incerto quadro di esperienze.

Un’ambivalenza che si è avvertita nelle vite concrete , nel riconoscere la presenza accanto a lati gratificanti e creativi di ombre, intessute di insicurezze ed ansie.

Segnalata da sensazioni e comportamenti.

 

Divaricazione tra contenuto e condizioni

 

Succede che qualcuna “ami appassionatamente” il contenuto del proprio lavoro e al contempo affermi che le condizioni in cui lo realizza sono “ veramente orribili”. Una dicotomia che appare e riappare in racconti provenienti da vari contesti. Un investimento elevato nei confronti dei contenuti professionali[11], come proiezione di sé nell’attesa di ricevere una gratificazione di risultati, che , nei casi a cui mi riferisco, impatta uno scontro quasi costante con le condizioni in cui il lavoro si realizza.

Mi preme sottolineare l’apertura di questa divaricazione, che potrei definire “ non assistita”. Nei racconti emergono esiti imprevisti e spesso indesiderati sulla soggettività delle donne, emerge anche come nell’intreccio delle narrazioni sia possibile finalmente esplicitare l’avvertirli, e nel contempo si possa condividere il bisogno di monitorare questa opposizione, di attribuirvi un significato.

Il contenuto appare sufficientemente noto, esplicitato, appartiene al lato visibile, viene nominato, riconosciuto, apprezzato sempre più in era di postfordismo. Rappresenta il lato qualificante, può diventare appagante, connota un “divenire femminile “del lavoro che necessita in misura sempre maggiore di competenze, qualità, specificità tradizionalmente connesse alla sfera femminile dell’esistenza .

Il secondo lato, le condizioni, invece è rimasto in ombra, incerto, sfuggente, insoddisfacente. Appartengono a questo lato un tempo per lavorare che sia riconoscibile come tale, un tempo di lavoro che sia pagato, un pagamento che sia quantificabile, percepibile, misurabile, un luogo per lavorare, delle condizioni di continuità e durata. Condizioni che oggi sono complessivamente mutate e ancora difficilmente descrivibili per tutte coloro che lavorano secondo accordi e contratti individuali. Alcune anzi quasi distolgono lo sguardo da questi aspetti, li percepiscono ancora troppo legati ad un sistema di regolazione del lavoro dipendente, a tempo pieno e indeterminato, ricordarli potrebbe alludere ad una nostalgia, ad un ipotetico “ritorno al passato” che effettivamente non provano e non vogliono; altre invece mettono in piedi un continuo sforzo di tutelare elementi non riconosciuti contrattualmente, mancanze che spesso derivano dal fatto che vengono scaricati pesi e responsabilità sulle spalle degli individui da parte di organizzazioni imprenditoriali che non li sostengono più. Sforzi che diventano fonte di fatica, di stress, di insicurezza , di timore di rischio per il futuro.

Due lati che ad alcune appaiono non solo polarizzati, ma divaricati, in contraddizione.

Accade che si produca una sorta di perdita , che il contenuto del proprio lavoro, così fortemente investito, si assotigli, si sgretoli, gli aggiornamenti rimandati, che alla creatività venga messa la sordina. Accade che il lato gratificante venga messo in ombra, in secondo piano. Diventa una parte accessoria dell’insieme. Può succedere che si provi una sensazione di svilimento. Il prezzo della divaricazione risulta troppo alto.

Ma gli esiti sono vari e discordi. Per alcune privilegiare il monitoraggio delle condizioni diventa prioritario.. poiché si sovrappone e coincide con la quota relazionale del lavoro, assume il volto più coinvolgente di un’apertura di relazioni e di opportunità professionali che dia corso al protagonismo, alla possibilità di realizzare propri saperi e competenze fino a poco tempo addietro marginali nel mercato del lavoro.

Capita che la facilità, la propensione a privilegiare il piano relazionale si ritorca contro l’intento: nel gioco di oscillazione tra le polarità contenuto-condizioni, l’opzione per le seconde porti allo smarrimento del rapporto con il primo. Perdita in qualche modo intrinsecamente in agguato quando il contenuto-prodotto realizzato da una singola professionista è di per sé a rischio, perché immateriale, intangibile, simbolico…perché spesso interseca la tendenza del lavoro a divenire individualizzato porta a mettere in atto abilità di cura, di manutenzione maturate nella sfera riproduttiva. E qualche volta il rapporto con il produrre, l’agire sul piano dei contenuti “paga pegno”, scivola via. Si torna ad intessere storie, “lasciandosi incautamente strappare la metafora del textum(…)”[12]

Infatti parte della realizzazione del lavoro avviene nella relazione con altri, soprattutto quando ha luogo in quella grande fluida area dei servizi, e dunque si svolge su una scena molto visibile, spesso appositamente allestita. Organizzata, prevista. E’ il front office, spazio relazionale dove avviene la produzione di servizi: contestuale alla presenza, attiva e partecipante del cliente-commitente-consumatore.[13]Presupposto della buona performance di questo è un accurato lavoro preparatorio.

La cosidetta preparazione rappresenta una quota in aumento, che si verifica in quello che è il back stage. Parte invisibile , tempo e luoghi dietro le quinte, sottratti - da chi?- all’insieme, occupano sempre più spazio, si allargano negli interstizi, ponendo spesso ognuna in competizione con se stessa, nelle molteplici possibilità di gioco e di acrobazia professionale. Nel back stage si giocano infatti anche ruoli accessori, si esercitano skills marginali, o meno qualificanti ai fini del prodotto finale, ma utili nella piccola economia individualizzata. Poste di fronte a continue microdecisioni . A quale parte di un sé lavorativo dar corso? La risposta non è necessariamente favorevole. Più facilmente l’ansia è in aumento. Non necessariamente la proiezione dell’identità professionale su aspetti marginali e secondari restituisce un’immagine gratificante e rassicurante.

Interrogativi e intrecci che non appaiono sulla scena solo da oggi secondo Rosanna Trifiletti che si domanda se non via sia una “… maggiore adattabilità delle donne ai lavori atipici. Sia che si tratti di una loro più radicata abitudine a gestire intrecci in tempi complessi e contemporaneamente appuntamenti rigidi nel tempo, sia che si ipotizzi una loro maggiore capacità di porsi rapidamente in sintonia con gli altri ( clienti, membri della squadra, persone della rete, destinatari di un servizio…) “ e ancora sottolinea come “ forse anche una maggiore possibilità di negoziazione personalistica, non priva di utilità strumentali”[14]

Un’analoga divaricazione, per certi versi connessa, è quella tra identità e reddito.  La promessa e il desiderio portato in un ingresso consapevole nel “mondo del lavoro” è stato l’integrazione tra reddito e la realizzazione di sé, l’espressione delle competenze e delle capacità. Una promessa che l’emancipazionismo aveva suggerito, magari collocandola verso “l’orizzonte dell’avvenire”, che ha accompagnato il diventare adulta di una generazione, forse più d’una.

La divaricazione tra questi elementi avrebbe potuto assumere il significato di una perdita, di un desiderio come di una scommessa.

L’accelerazione dei cambiamenti postfordisti è anche questo. Il significato si rovescia e da perdita vira in semplice elemento della realtà. A questo rovesciamento  accenna Manuela Cartosio nel far riferimento allo “ spirito garibaldino con cui le giovanissime del giro dei centri sociali hanno tirato una riga netta tra i lavori che fanno per piacere e quelli che fanno solo per soldi. Lavori marchetta deve restare un lavoro spersonalizzato, deve servire a darti denaro, non identità. Se faccio la cameriera non sono io, in gioco non c’è la mia identità, purchè non sia nella grandi chain, che pretendono di imporre un’identità”[15].
 

Il lavoro di cura delle organizzazioni

 

Borderias pone delle domande intorno al lavoro ci cura centrandolo sulla cura delle persone. Propongo di spostare lo sguardo e  di mettere in primo piano le imprese; vedremo allora apparire un lavoro di cura tutto particolare: la cura delle organizzazioni.

Nelle situazioni che subiscono le turbolenze e le incertezze dei mutamenti viene chiesto alle imprese di sperimentare nuove forme di ricomposizione del dialogo tra identità dei singoli e prestazioni lavorative, tra progetti professionali e percorsi di sviluppo organizzativo.

Le imprese postfordiste hanno necessità di “cure”, infatti sono contesti tendenti alla frammentazione, lanciati verso delocalizzazioni, polverizzazioni su territori fisici e mentali sempre più estesi, cosa accade al loro sistema di valori, ad un sistema di regolazione a cui far sentire vincolati i collaboratori, ad un insieme di saperi e di pratiche condivise da mettere in atto e da sviluppare? A queste imprese servono cure che siano fatte di ricerca di consenso più che di esercizio del comando, sono infatti contesti organizzativi che tendono a privilegiare la cooperazione più che il controllo.

Negli uffici di direzione del personale, alle funzioni selezione- formazione- gestione stages sono sempre più numerose le donne, anche in ruoli dirigenziali.

Accade ciò che Antonella Picchio segnala come problematico: le capacità relazionali femminili vengono recuperate in una dimensione commerciale, piuttosto che essere forza di sgretolamento di tale dimensione. Altre potrebbero invece obiettare che l’eccedenza continua della soggettività sfugge a questi intenti, in quanto eccede, oltrepassa i limiti imprenditoriali.

Un’attività di cura davvero particolare: prendersi cura delle relazioni tra i singoli lavoratori e tra loro e l’impresa, quale che sia il contratto, anzi i contratti; cura delle famiglie professionali interne-esterne e dei loro diversi stili comunicazionali, nel rapporto con la mission dell’impresa, i suoi valori ( il profitto?). Si opera sul piano sfuggente e inclinato della ricerca di consenso, dell’appianamento dei contrasti, dell’ accostamento  e integrazione di funzioni esternalizzate, nell’esigenza di rendere visibili ( e dunque misurabili) compiti e obbiettivi difficilmente rappresentabili, perché fluidi, impliciti...immateriali.

Attivare funzioni di cura per riprendere un dialogo tra soggettività individuali e contesto organizzativo che risulta talvolta interrotto, frammentato, oppure sovrainvestito fino a invischiare le persone in relazioni difficilmente gestibili e scarsamente produttive.

Viene chiesto di orientare in modo produttivo ( per chi?) le relazioni , di smussare angoli, di ricomporre frammenti. Soprattutto nelle varie declinazioni dei compiti delle direzioni del personale appare descritto da un lessico tale : ricomporre, rimettere insieme, ricucire…ancora funzioni domestiche?

Attitudini tradizionalmente “femminili” esercitate in un ambito per certi versi nuovo, anche se non nuovissimo, all’interno del quale inoltrarsi.

Nel momento in cui le imprese assumono connotati che sembrano fatti su misura per valorizzare le caratteristiche che le donne portano sul lavoro, cioè un elevato investimento nelle qualità relazionali, sembra essere in agguato la tendenza al sovrainvestimento affettivo: il lavoro diventa oggetto di una passione che rischia di fagocitare le donne e i soggetti che la esprimono. Tale tendenza riguarda in particolare l’attuale scenario organizzativo in quanto sono in forte crescita i settori ove il lavoro si fonda su comunicazione e relazione, in altre parole su attività di tipo linguistico, nelle quali viene privilegiata, non più solo l’innovazione tecnologica, ma soprattutto la compenetrazione tra sfera affettiva e lavorativa.

Si ipotizza che nel passaggio tra diversi modelli di organizzazione del lavoro, nelle incertezze e nelle accelerazioni che ne derivano, si presentino una pluralità di disagi connessi a fattori più ”oggettivi” (ad es. le condizioni mutate del contesto esterno) e altri fattori invece più “soggettivi”: mutamento di modelli di identità, di competenze da costruire (per esempio rispetto all’assunzione di ruoli di autorità), di cooperazione, di modelli di carriera…

Nelle situazioni lavorative la richiesta che viene fatta alle persone è di un investimento a tutto tondo di competenze e disponibilità ad aderire a nuovi assetti produttivi, strategici, comportamentali, mentre le organizzazioni tendono ad assumere contorni sempre più sfumati e a costruire con gli individui legami sempre più laschi in termini di supporto alla costruzione dell’identità professionale; all’individuo viene richiesto, più o meno esplicitamente, di riassumere in sé competenze tecniche, competenze di tipo gestionale, di tipo relazionale e di progettazione di sé.

Le interazioni tra vita professionale e vita personale assumono una visibilità nuova e cruciale. Un tema per tutti appare centrale: la capacità di stare nelle situazioni di transizione, che se appaiono sempre ricorrenti, ripropongono ambiti di esperienza tipicamente femminili. Da sempre le donne, infatti, si sono trovate a sviluppare delle strategie, delle abilità per gestire le intermittenze tra vita personale e vita lavorativa, tra produzione e riproduzione: ma oggi tali strategie non sempre risultano efficaci e soddisfacenti per tenere insieme le esigenze personali con quelle organizzative.

Le richieste delle organizzazioni sono state  di investire a 360° le loro competenze nella novità della situazione.

Queste voci raccontano di come si siano trovate di fronte a richieste di riassumere personalmente l’esercizio di competenze tecnico-professionali, ma soprattutto di tipo gestionale. Di assumere i contorni dell’organizzazione, di presentificarla, di renderla visibile e corporea. Contemporaneamente esposte sul piano operativo e su quello gestionale dell’operare altrui. Alcuni di questi racconti parlano di coinvolgimento, di desiderio di misurarsi, di addentrarsi in un territorio poco conosciuto, che si può immaginare sfuggente, o forse anche estraneo, ideologicamente impegnativo. Un territorio mentale e relazionale che risulta difficile da controllare e da confinare, che tuttavia offre talvolta quasi una sorta di ebbrezza nel costruire spazi relazionali adattabili e non mortificanti. Qualcuna racconta di come abbia cercato e deciso di assumere ruoli ed esercitare competenze nel costruire, per esempio sistemi di regolazione più espliciti e trasparenti, per sé e per le altre, utilizzando ruoli di autorità costruttiva.

Favorire che l’esperienza di vita lavorativa in queste imprese potesse costituire una sorta di passaggio, di transizione tra un mercato dai tratti totalmente “informali” - quali ad esempio quello del lavoro di cura nelle abitazioni, nelle notti di pulizie di uffici…- ad un mercato dalle condizioni più strutturate, declinabili in contratti, regolamenti, anche questo può rappresentare una sfida. Sapendo infatti che condizioni più regolari dichiarano l’appartenenza ad un mercato “formale”, e dunque consentono  a ciascuna di essere maggiormente protagoniste di un’apertura verso transizioni, di progettare cambiamenti, professionali e di vita.

 Il desiderio di costruire organizzazioni lavorative risulta una possibilità in controtendenza,forse quasi diseconomica, disfunzionale…”le organizzazioni svaporano non si costruiscono”…ma è possibile guardare mercati di nicchia che si espandono, oppure che si spostano. Alcune lo raccolgono come il valore di una sfida, sapendo che si rischia di situarsi fuori misura. Ma sembra che sia coinvolgente poter giocare una sfida quando lo scenario generale dipinto ha i colori del “declino” .

Chi prova a raccontare cerca di descrivere immagini di un desiderio di costruire contesti organizzativi che siano distinti e distanti dai miti e dai riti delle famiglie, dai carismi di storie eccezionali. Non sono racconti di fondazione, di iniziatrici  di imprese quelli che vengono narrati, niente di così personalizzato, invece vengono dipinti i tratti più dimessi della manutenzione, di costruzioni che tengano in piedi alcune possibilità di convivenza.

Non tutte e non sempre, si giocano sul terreno delle cura organizzativa. Emergono segnali  e linee di fuga , quasi la percezioe di scoprirsi giocate in una posizione che ripropone tutte le ambivalenze del “materno”. Alcune delle voci raccolte nel Quaderno di via Dogana dichiarano  di “sfuggire ad un adattamento  (imitativo di atteggiamenti maschili) collocandosi in una posizione periferica negli ospedali, nelle imprese, nelle università(…)” di scegliere di non mobilitarsi per raggiungere traguardi apicali nella gerarchia, di non voler sottomettersi a modi considerati degradanti. “ allora ad altri l’onore e l’onere, meglio la marginalità che mi consente di stare dove il mio desiderio mi porta”[16]. Desiderio di non stare nel centro dell’impresa, ma forse addirittura di allontanarsi dalla centralità del lavoro, come ricorda Marazzi  a proposito selle testimonianze americane “ il problema fastidioso per il business è trattenere i talenti femminili”, quando comincia ad essere visibile quantitativamente il numero delle donne , soprattutto a livelli elevati, che interrompono la loro attività professionale, abbandonano carriere e fonti di reddito per potersi riappropriare di spazi per sè[17].

Certo  questo attivo sottrarsi sembra essere disponibile solo per chi ha fonti di reddito indipendenti da quelle  che provengono dalla retribuzione lavorativa, ma segnali in questo senso cominciano a prodursi anche in Italia.

Nella difficoltà , (o nel disinteresse?) di costruire strategie trasformative più collettive, alcune le attuano singolarmente, condividendole nei gruppi di discussione.

Si parla di strategie di ghosting, di un sottrarsi alla dedizione di tempo e affettiva alle ragioni lavorative. “per qualche ora al giorno sparisco, il mio cellulare non riceve più, non voglio essere rintracciata”. Ci si sottrae, ci si nasconde, si svanisce, provvisoriamente. Assomiglia a ciò che alcuni psicoanalisti inglesi studiosi di fenomeni organizzativi hanno chiamato[18] la “sincerità calcolata”.

Strategie di sopravvivenza, che agiscono senza nominare il conflitto, spinte da una sorta di irriducibile contrasto con le condizioni del lavoro. Attingono forse ad un armamentario arcaico, ma vitale, che rimanda alla “capricciosità femminile”.

Si potrebbe suggerire la “sincerità calcolata” come l’agire di un’obiezione, anche in relazione alle difficoltà di accettare di agire i conflitti secondo modelli tradizionalmente virili , rappresentazioni di incontro/scontro in cui due soggetti si fronteggiano, una linea netta di demarcazione, le misurazioni di rapporti di forza.

Alcune raccontano di come l’uscita dallo “scontro conflittuale” sia appunto laterale: di come sia possibile attingere ad identità di riserva, di come si possa giocare su altri piani.

E se il lavoro perdesse centralità?

 


Note

[1] Cigarini;l. Comunicazione al seminario

[2] Rigotti, F. Il filo del pensiero, Il Mulino, Bologna 2002

[3] Vettor.T. il lavoro del senso, in Democrazia e diritto” n.7e 8/2000

[4] su questo tema faccio riferimento a Accornero, Bologna, Fumagalli,Gorz; Revelli

, Vantaggiato.segnalo il saggio di Alesandra Allegrini Donne, lavoro e tecnologie IC. In Ricerche del progetto Portico Bologna 2004

Nel corso degli ultimi due anni in Italia si sono tenuti numerosi incontri, conferenze, convegni, presentazioni di libri, gruppi di studio etc, impossibile dar conto di ognuno, vedi ad es. dalle tessere alla figura del mosaico, atti del convegno Roma 19-20 giugno 2004

[6] Jourdan;C. strategie della libertà in Via Dogana, n.54, 2001 cit da Vettor

[7] Bompiani;G. Lo spazio narrante, La tartaruga, Milano 1978 pag 7

[8] Si potrebbe volgere lo sguardo nella direzione mentalmente opposta: verso le lavoratrici pre-industriali e trovare un tratto comune: l’istanza di riconoscimento , dall’esterno( l’altro?) e da sé come soggetto nel lavoro.

[9] Cavarero;A. Tu che mi guardi, tu che mi racconti, Feltrinelli, Milano, 1997 pag 39

[10] Borderias;C. Strategie della libertà, manifestolibri, Roma 2000.

[11] Investimenti in termini di preparazione, di studio, di affinamento di metodologie professionali , di sviluppo di abilità tecniche, di aggiornamento e formazione, di costruzione di saperi e di reti…

[12] Cavarero; A. cit

[13] Su questi temi si è sviluppato anche in Italia un filone di ricerca di cui cito Cesare K aneklin e Franca Manoukian, a livello europeo invece Richard Norman.

[14] Trifiletti, R. Dare un genere all’uomo flessibile, in differenze e disugualianze a cura di F.Bimbi, il mulino, Bologna 2003

[15] Cartosio;M.  25 febbraio 2003 articolo non pubblicato.

[16] Quaderno di via Dogana, Parole che donne usano nel mondo del lavoro oggi, 2005, Milano

[17] Marazzi;C. articolo su Il manifesto 5-04-2005

[18] Intervista a Eric Miller, a cura di L. Brunner, in Spunti n 4, 2001

 

Relazione presentata al MACBA - museo di arte contemporanea, di Barcellona, il 29 aprile 2005
Una giornata di seminario sul tema
La fabbrica e la società
Tema su cui il museo ragionerà per i prossimi mesi
Altri relatori:
Lia Cigarini
Cristian Marazzi
Sergio Bologna
Yann Moulier Boutang
Cristina Borderias
Teresa Thorn
Carla Casalini

13 gennaio 2006