Coreografie di corpi femminili nel giardino della memoria
Intervista di Gian Maria Annovi a Shirin Neshat

 


Shirin Neshat

 

A partire dalla sua prima mostra fotografica del 1995, che fece subito notizia per le immagini di donne coperte dal chador e armate di pistole e kalashnikov, il lavoro di Shirin Neshat si è sempre ispirato alla sua condizione di esule iraniana, attraverso installazioni video e fotografie che affrontano il tema della questione femminile e del rapporto tra i sessi nella società islamica. Nodi che ritornano anche nella sua opera più recente, un film, Women without men, cui l'artista sta apportando proprio in questi giorni, dopo quasi cinque anni di lavoro, le ultime modifiche. Tratto dall'omonimo romanzo (Donne senza uomini, Tranchida 2004) della scrittrice iraniana Shahrnush Parsipur, in esilio negli Stati Uniti dopo aver trascorso anni nelle carceri iraniane a causa del proprio lavoro, il film segue le vicende di cinque donne che formano una comunità all'interno di un giardino, fuori dal mondo maschile.

Incontriamo l'artista nel suo studio di New York, alle cui pareti sono appese alcune delle fotografie esposte in questi giorni alla Gladstone Gallery, immagini tratte appunto dal film e che riguardano le protagoniste di due episodi: Faezeh, una ragazza estremamente religiosa che vive l'esperienza dello stupro e Munis, una giovane attivista politica che si uccide dopo le proteste per il colpo di stato del 1953.

Nella sua prima serie fotografica - Women of Allah - e nelle successive installazioni video, non è presente una narrazione vera e propria. Per quale ragione nei lavori più recenti sembra invece che uno dei suoi obiettivi sia diventato quello di raccontare storie personali?
Nelle prime fotografie, dove indagavo il rapporto tra donne musulmane e potere militare, i personaggi avevano un valore puramente iconico. Il passaggio alla dimensione narrativa, che è già percepibile nei miei primi video, riguarda in effetti la natura stessa del mezzo, anche se in opere come Turbulent o Rapture, i personaggi erano quasi privi di identità, più vicini all'arte visiva che al cinema. La transizione verso una dimensione più compiutamente narrativa ha preso forma quando ho cominciato a concepire i personaggi come individui dotati di una loro identità. Se prima nel mio lavoro tutto si riduceva comunque a immagini isolate e monumentali, a un certo punto sono stata sedotta dall'idea di raccontare una storia che avesse il senso della progressione. La prima volta che ho veramente fatto uno studio sui personaggi è stato nel 2001, per un video intitolato Possessed, incentrato sulla figura di una donna che impazzisce. Anche allora, però, continuavo a oscillare tra la ricerca dell'individualità e lavori puramente coreografati, dove le masse umane, ad esempio, avevano un valore poetico, di flusso. Quando ho scoperto il romanzo di Parsipur, che si basa sulle vicende di cinque personaggi femminili, sono stata costretta a chiedermi come raccontare le loro storie, che sono anche molto visive, simboliche.

Women Without Men si basa su un lavoro di decostruzione dei personaggi cominciato nel 2004. Il pubblico lo ha già potuto seguire in video come Mahdokht e Zarin, ai quali si aggiungono ora Munis e Faezeh, in mostra in questi giorni a New York. Come si è articolato il lavoro fra video e film?
Da un lato, girando e montando Women without men, ho voluto mantenere una linearità progressiva di tipo cinematografico, ma dall'altro, mi è sembrato importante conservare un livello di astrazione e di enigma, come nel mio lavoro precedente. In questi ultimi cinque anni mi sono posta di continuo la domanda su quale sia il confine tra cinema e visual art e me la pongo ancora oggi durante il lavoro di postproduzione. Ma soprattutto mi chiedo come realizzare qualcosa che non comprometta il mio linguaggio di artista senza risultare incomprensibile e troppo concettuale per il pubblico cinematografico, che è completamente diverso dal mio pubblico abituale.

Nel romanzo di Parsipur, il colpo di stato del 1953, che con l'aiuto della Cia e dei servizi segreti britannici depose Mossadeq e ripristinò lo Shah, rappresenta solo una fra le cornici delle vicende narrate. Perché nella sua versione questo evento assume invece un ruolo centrale?
Adattando il romanzo mi sono presa molte libertà: per esempio, ho modificato alcuni tratti dei personaggi, quando mi sembravano troppo negativi e pessimistici, ma il cambiamento più importante riguarda proprio l'aspetto politico e storico. Parsipur parla del colpo di stato solo di passaggio, ma per me si tratta di un evento fondamentale. Innanzitutto perché nel mio lavoro ha sempre avuto una importanza determinante la coesistenza della dimensione politica e di quella poetica, ma più ancora perché il 1953 costituisce per me il momento più critico nel rapporto tra l'Iran, gli Stati Uniti e il resto del Medio Oriente. Il colpo di stato organizzato dalla Cia ha rimosso un primo ministro eletto democraticamente. Non a caso molti iraniani sono convinti che se quel golpe non avesse avuto luogo, non avremmo nemmeno avuto la rivoluzione islamica del 1979. Eppure è un avvenimento che gli americani e l'Occidente tendono a dimenticare. Così come dimenticano l'Iran prima della Rivoluzione, e quanto fosse sofisticata e democratica la nostra società. In fondo, penso che ci sia un'attivista dentro di me e credo che gli eventi del '53 siano davvero importanti per gettare luce sulla storia successiva dell'Iran.


Shirin Neshat



Può parlarci meglio della valenza politica del suo lavoro?
Come ho detto, l'aspetto politico è sempre presente nelle mie opere, ma in maniera simbolica. In Women Without Men una delle protagoniste è un'attivista, ed è seguendo le sue interazioni con gli altri personaggi che ho introdotto questa dimensione, anche se in quel modo astratto che mi appartiene. Non mi interessa il risvolto documentaristico, tanto che anche le scene di protesta per le stradesono estremamente stilizzate e coreografate.

In che modo ha collaborato con la scrittrice in questi anni, durante la realizzazione dei video preparatori e poi del film nel suo complesso?
È stato il mio amico Hamid Dabashi, docente alla Columbia (e autore di numerosi saggi come Authority in Islam o Theology of Discontent, che analizzano l'Iran e l'Islam in una prospettiva postcoloniale, ndr) a farmi avere una copia di Donne senza uomini. Ho trovato il libro così interessante che ho immediatamente cercato di mettermi in contatto con la sua autrice. Quando sono andata a trovarla, in California, dove vive da tempo, mi sono trovata di fronte a un essere umano meraviglioso, che ha sofferto moltissimo e che ha vissuto il carcere, la malattia mentale e la povertà. Ho sempre avuto interesse per le scrittrici iraniane, ma nei confronti di Shahmush Parsipur ho sviluppato una specie di ossessione. Sin dall'inizio, però, ho preteso che non prendesse parte alla scrittura della sceneggiatura, anche se i suoi consigli sono stati importantissimi per capire i personaggi. Volevo essere sicura di vederli nella stessa maniera in cui lei li aveva creati, e di cogliere i simboli e le metafore del suo romanzo. Alla fine, ha anche partecipato alle riprese in Marocco e ha addirittura interpretato la parte della tenutaria del bordello nell'episodio di Zarin, una giovane prostituta. Quando ha visto il primo montaggio del film, ci è voluto un po' di tempo prima che capisse chi sono e come lavoro, ma alla fine ne è stata entusiasta e forse anche lei ne ha beneficiato, perché video e film hanno risvegliato un nuovo interesse intorno alla sua figura.

I personaggi sono donne che si sentono estraniate dal mondo e creano una propria comunità utopica in un giardino, un luogo particolarmente simbolico che ci dice come questa comunità sia interna alla cultura iraniana. Lei vive invece da molti anni negli Stati Uniti, lontana dalle sue radici. Come vive questa sua condizione di outsider?
Penso che per molti artisti - e sicuramente nel mio caso - il lavoro sia un riflesso della propria vita, delle proprie ansie e dei propri desideri. Il mio interesse per la narrazione e gli argomenti che tratto riguardano in fondo me stessa. Anche la mia ossessione per Parsipur deriva dal fatto che mi identifico con lei, in quanto donna, artista, outsider. Non va poi dimenticato che al tema dell'esilio, ho dedicato diversi lavori, sottolineando la necessità di cercare un luogo dove ci si senta al sicuro. Sotto questo aspetto, anche la ricerca del giardino, così come emerge dalla mia trasposizione, può essere letta come la trasposizione della mia ricerca esistenziale ed artistica, anche se in effetti Parsipur pensava al giardino dell'Eden come a un luogo fuori dal tempo, da cui non erano esenti anche le affascinanti implicazioni religiose di matrice occidentale.

In un recente incontro alla Columbia University, il presidente Ahmadinejad ha affermato che in Iran le donne sono più rispettate degli uomini. Le opere di Parsipur, però, apertamente femministe, sono bandite e vengono diffuse illegalmente. Lei come crede verrebbe accolto il suo lavoro in Iran, se fosse possibile presentarlo pubblicamente?
Senza dubbio la mia opera verrebbe percepita come molto polemica. Da un lato è molto viva la curiosità tra i giovani e gli artisti, ma al tempo stesso incontrerei resistenza perché sono un'iraniana che vive all'estero e che si occupa dell'Iran. Non voglio entrare nel merito delle affermazioni di Ahmadinejad, anche perché è certo che questo regime non è stato particolarmente sincero in merito alla questione dei diritti umani, ma dubito si possa davvero affermare che le donne iraniane siano più rispettate degli uomini.
È vero però che le donne in Iran lottano, ma contrariamente a quanto pensano gli occidentali, non sono perdenti, bensì una parte fortissima della comunità, anche quella artistica e culturale. Forse, uno dei motivi per cui i miei lavori vengono criticati all'interno del paese è che molti pensano che io non sappia nulla dei problemi dell'Iran perché vivo all'estero. In realtà, la mia ossessione per l'Iran nasce proprio dal fatto che non posso tornarci. Forse non sarei diventata un'artista se non fossi stata costretta a lasciare il mio paese.

In un certo senso, si potrebbe dire che questa dimensione mentale e ossessiva dell'Iran rappresenta è il «giardino» in cui lei si rifugia?
Il lavoro degli artisti consiste nel creare il proprio giardino tramite l'immaginazione, un giardino che non è in nessun posto, un'utopia come quella delle donne nel romanzo di Parsipur. Creare un mondo proprio dove non si è costretti a seguire regole. Quando si è soli ci si crea la propria cultura, un proprio mondo di regole, ma estremamente aperte.

 

da il manifesto del 23 febbraio 2008

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