Piera Ventre Alisei

di Nicoletta Buonapace



Alisei è un libro di racconti pubblicato da una piccola coraggiosa casa editrice, Erasmo Edizioni, di un’esordiente, Piera Ventre. Frutto di un lungo esercizio alla scrittura, in cui voci di donne e bambine costruiscono storie evocative e di grande ricchezza immaginativa, è mosso da una coscienza femminile lucida, a tratti spietata, espressa da una lingua e uno stile senza sbavature, essenziali; un libro segnato da un immaginario poliedrico, che spazia dalla quotidianità e dal realismo di certi paesaggi e atmosfere tipiche degli Stati del Sud degli Usa alla dimensione fantastica, noire, cupa, di gesti e parole sospese in luoghi immaginari.

Il libro si divide in tre sezioni a marcare queste diverse dimensioni: Alisei, Scarti, Visioni.
Alisei sono i venti atlantici, che spirano su personaggi che abitano la provincia americana che abbiamo conosciuto in certa letteratura e cinematografia. C’è una suggestione culturale che ricorda il minimalismo o i quadri di Hopper, immersi nel silenzio di parole non dette, di solitudini affaticate dal non senso della ripetizione di gesti sempre uguali, dettati dalla necessità di partecipare alla recita sociale del sopravvivere. In queste storie c’è una ricerca spasmodica del significato, del senso, di cui le protagoniste avvertono il doloroso venir meno, in una sorta di stupore per l’improvviso sgretolarsi d’ogni certezza fino a  “un’arroganza del vuoto”, un’assenza che diviene “ingombro”.
E’ una lingua infatti che non dà luogo all’incontro, quella che intercorre tra uomini e donne, tra adulti e bambini, tra madri e figlie, in questi racconti. Donne e bambine rivelano uno sguardo consapevole e dolente nel raccontare un incontro sempre mancato.
Piera Ventre racconta  una coscienza femminile attenta, che ascolta l’emergere di una stupita estraneità al mondo e d’un tratto lo giudica, capace di vedere  in un sistema apparentemente ordinato e accogliente - come la famiglia, la coppia, la convivenza sociale - le crepe e le ombre che vi si nascondono.
Le sue protagoniste vivono la lacerazione tra una vita di finzione e un confuso desiderio d’autenticità, il disagio di non potere essere all’altezza delle aspettative altrui, l’impossibilità improvvisa di sostenere un ruolo, un’apparenza, un auto-inganno inconsapevolmente coltivato e che d’un tratto la coscienza non può reggere.

Anche in Scarti sono improvvise consapevolezze, a lungo sepolte nella coscienza, a determinare gesti estremi che sconvolgono un’armonia apparente, in un movimento che ricorda il porsi a lato, deragliando dai binari del buon senso e della normalità, anche a costo della caduta e della perdita.
L’amore sognato non tollera il suo limite e si trasforma in un assoluto inquietante: “All’inizio avevo paura di quella sensazione che sentivo continuamente addosso. Era come se camminassi su un terreno crepato, intravedendo sotto ai passi un abisso nero nero.” L’abisso che si aprirà quando la protagonista uccide l’amante, ma non così diverso da quello che, per viltà, passività, stanchezza, sua madre nasconde nell’intimità del sentire.
Altrove una donna non perdona al proprio amante una parola scritta male e per questo lo lascia, quell'errore diviene segno di un’imprecisione esistenziale, l’irrompere della mancanza di grazia nella realtà, l’imperdonabile delusione del difetto; gli occhi, resi ciechi dalla fame d’amore, si aprono sull’irrimediabile sbaglio, simbolo di disarmonia, della mancanza di perfezione che il sogno d’amore promette ma, fatalmente, non può dare.
Quell’unica parola le aveva dato il senso di un’imperfezione dolorosa, di un’imprecisione irrimediabile. Il suo amore affamato si era sgretolato per una sola lettera di troppo, un aggettivo sbagliato, una disarmonia inaccettabile, priva di qualsiasi grazia:”
L’illusoria felicità del romanzo rosa, la soffocante domanda d’amore al fondo d’ogni innamoramento, certa femminile propensione alla dipendenza, vengono scandagliate, analizzate, inesorabilmente messe in luce da uno sguardo senza veli, per illuminare, in uno sforzo di verità spesso aspra e tagliente, la crudeltà, la violenza, la negazione di sé, che da quello stesso sogno si generano.
Quello di Piera Ventre è uno sguardo disincantato, eppure caratterizzato da una profonda tenerezza, là dove indaga la complessità del rapporto tra una badante rumena e una donna anziana, la nostalgia e il sottile senso di colpa dell’una e la dipendenza dell’altra, la materialità e la fatica della cura, la verità del disgusto e della compassione per un corpo bisognoso e il legame che tuttavia può venire a instaurarsi da una comune esperienza di maternità.

Visioni, ultima sezione del libro, echeggia certa letteratura ortesiana, per il tratto fantastico del narrare. Anche qui voci femminili continuano a risuonare, in un’atmosfera tra il sogno e la veglia, in storie per certi versi perturbanti..
La voce della Melusina” è la tirannica voce interna che molte donne conoscono, ambigua, giudicante, inquietante, quella del rimprovero che produce il sentimento d’inadeguatezza, il fantasma di un femminile che spadroneggia in un mondo interno senza riferimenti e da cui è difficile difendersi: “Prigioniera di geografie imprecise, dalle coordinate sballate, e dal ticchettio di orologi che vanno un po’ indietro o troppo avanti. Mai nessuna certezza a procurarle rassicurazione. Questa sua mancanza le viene rammentata dalla voce della melusina, l’altra sé, con un canto di sirena che esce fuori talvolta dallo stomaco, talvolta dai reni, e intona sempre lo stesso ritornello: Sei sbagliataaa… Sei sbagliataaa…”
Esistono possibili altre geografie del femminile, ma  non danno certezze: “le sembrava di dover chiedere continuamente assoluzione, o quantomeno conferme”. Alla fine solo un faticoso percorso di ascolto di sé può confortare, pur senza risolverle, le ferite di un’infanzia dominata da un femminile costruito sullo sguardo altrui.
Una visione drammatica muove “Cantus angelicus” dove un abbandono apre “stanze nuove”, generando nella protagonista un misterioso canto nuovo, ma è un canto che porta disordine nel mondo e per questo viene soffocato nel sangue, dove si trasforma in un urlo simbolico di “tutte le mancanze, e i tradimenti e gli abbandoni, i pianti degli agnelli sacrificali, di tutte le creature senza colpa ”.
Un sentimento tragico è nel finale che chiama alla riflessione: “L’urlo della terra non si era placato. Era l’umanità, invece, che si era arresa, trasformando il mondo in un pianeta di sordi.”
  

Piera Ventre, Alisei
Erasmo Edizioni
2011, pag. 217, € 15.

 

5-05-2011

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