Perché come cittadine e femministe vogliamo
impegnarci
per un NO allo stravolgimento della Costituzione
di
Maria Luisa Boccia,
Cecilia D’Elia, Isabella Peretti, Tamar Pitch, Grazia Zuffa
Il patto
costituzionale su cui è fondata la nostra convivenza è gravemente
minacciato. Non vale dire che la riforma della seconda parte della
Costituzione, voluta dal centrodestra, non tocca i principi contenuti
nella prima parte. Al contrario. Sia sul piano simbolico che su quello
pratico, è stato stravolto, per di più a maggioranza, l’impianto
complessivo della Costituzione, modificando l’intero sistema dei poteri e
delle garanzie, e dunque mettendo seriamente in discussione la
realizzazione dei principi e dei fini che sono scritti nella prima parte,
e che è compito di tutto il sistema istituzionale attuare con coerenza.
Con il referendum
del 25 giugno abbiamo l’occasione, come cittadini e cittadine, di
esprimerci. Per noi questa occasione è un dovere e qui cercheremo di dire
perché, come cittadine e femministe, vogliamo impegnarci perché queste
modifiche siano respinte.
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La storia conta.
Il passato è parte di ciò che siamo, e se non ne teniamo conto,
provochiamo catastrofi. Innanzitutto favoriamo la distruzione del legame
sociale, costruito su quella storia. Del passato oggi si curano pochi/e,
tanto che chi vuole può farne scempio a piacere. Ma senza passato,
vivendo solo nella dimensione del presente, non c’è futuro, non c’è
mutamento consapevole.
Il patto
costituzionale nasce da una storia tragica, che, se si vuole progettare
un futuro, è assai importante non rimuovere né stravolgere. Le nuove
carte dei diritti, prima di tutto quella europea, ne riprendono i temi
essenziali, proprio per contrastare il ripresentarsi, in forme nuove,
dei suoi peggiori aspetti: dalla guerra al razzismo, dal rifiuto delle
differenze alle disuguaglianze e discriminazioni nei diritti civili e
sociali, dall’autoritarismo al populismo demagogico.
E’ nella Resistenza
antifascista e nella Costituzione che sono state poste le basi della
cittadinanza delle donne. Ed è un’eredità e un debito che riconosciamo
verso tutte le donne che ne furono protagoniste. Per noi cambiare, anche
radicalmente, rispetto a quella storia e a quelle conquiste di
cittadinanza, non vuol dire in alcun modo prescinderne o misconoscerne il
significato.
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La democrazia
ridotta a consenso, la politica intesa come rapporto diretto tra il
capo e il popolo: questo è il nocciolo forte delle modifiche alla
Costituzione, ed è la traduzione coerente della cultura e della pratica
del potere che sono il vero cemento del centro-destra. E’ una risposta
drastica alla crisi della rappresentanza, che tende a tramutare questa
crisi in morte definitiva; è una risposta di segno del tutto opposto
rispetto alla critica femminista, che ha messo al centro l’esigenza di
allargare le forme di partecipazione, privilegiando la politica radicata
nella società e nell’esperienza.
Con il potere del
premier di sciogliere il Parlamento, le Assemblee elettive sono del
tutto esautorate. Così il capo si presenta come l’unico rappresentante
del popolo, al di sopra delle leggi, incurante dei diritti delle
minoranze e dell’opposizione. E’ il trionfo della rappresentazione
identitaria e del decisionismo. Ne soffrirebbe non solo la politica
delle istituzioni, ma tutta la sfera pubblica, intesa come costruzione
ricca ed allargata di relazioni per la definizione e la gestione dei
beni comuni. Ne soffrirebbe quindi proprio la politica che più sta a
cuore al femminismo.
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La libertà ed i
diritti sono ridotti a preferenza di questa o quell’offerta, in un
contesto in cui i beni da scegliere sono definiti altrove, tutti
equiparati a merci, ed ogni scelta è misurata in termini di interesse,
comprese quelle della rappresentanza politica. La libertà femminile, lo
abbiamo detto molte volte, non è riducibile ai diritti e agli interessi
specifici delle donne. Non è neppure riducibile all’uguaglianza di
diritti ed opportunità tra donne e uomini.
Ma un conto è la
critica all’uguaglianza come omologazione, assimilazione, altro è
l’uguaglianza come giustizia sociale, come quell’insieme di misure volte
a far sì che ciascuna e ciascuno siano messi in grado di autoprogettarsi
e autodeterminarsi. A che cosa si riduce la libertà individuale senza
questa uguaglianza? Senza un ricco corredo di diritti sociali
effettivamente esigibili? Ma è proprio questa eguaglianza che la riforma
sacrifica, in coerenza del resto con l’ispirazione di fondo che la
muove.
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La cosiddetta
“devoluzione”, con l’istruzione, l’assistenza e la sanità delegate alle
Regioni, stravolge la distribuzione di competenze tra Stato nazionale,
Regioni ed enti locali, lacera la struttura unitaria della società e
dello Stato, mettendo in discussione le garanzie universali dei diritti,
creando insopportabili disuguaglianze nel territorio. Diversamente da
quanto si afferma, questa riforma non rafforza affatto il legame tra
istituzioni e società, proprio perché mina i rapporti orizzontali di
convivenza, mettendo in contrapposizione tra loro le diverse aree
territoriali del Paese.
Respingere con un NO
questa riforma non è un atto di conservazione, di accettazione inerte di
un testo, di nostalgia per il passato. E’ invece la premessa
indispensabile per rilanciare il confronto tra soggetti politici attivi
nella società, per rinnovare ed arricchire i contenuti del patto
costituzionale. Noi pensiamo che, a partire dalla politica delle donne, si
possa costruire un patto di convivenza tra donne e uomini, adeguato alle
sfide del futuro.
Non sentiamo affatto
il bisogno di riforme istituzionali, scritte in nome e in ragione della
governabilità, volte ad alterare l’equilibrio dei poteri, a mortificare la
democrazia rappresentativa, a ridurre la cittadinanza attiva, a negare la
giustizia sociale. Un patto rinnovato non è affatto in contrasto con la
Costituzione, può anzi innestarsi sui suoi principi e sulle sue
lungimiranti potenzialità.
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