Norvegia e Svezia, un esempio di grande 
rappresentanza femminile nei paesi nordeuropei

di Paola Melchiori


Rachel Ruysch

In questi giorni in Norvegia è passata una legge che obbliga tutte le società ad avere almeno il 40% di donne nei Consigli d’Amministrazione, adeguando l’ultimo baluardo, il mondo aziendale, negli anni il più resistente, alle regole di uguaglianza. E’ passata non ad opera delle donne ma di un ministro pentecostalista. 

Nello stesso tempo in Svezia, dove le donne sono al 47% in Parlamento, esce, ad opera di alcune parlamentari femministe, un pamphlet dal titolo: “A cosa serve aver raggiunto una tale massa critica se nessuna delle nostre proposte diventa operativa?”. 

Proviamo a ragionare partendo da questi due fatti, usando l’esperienza scandinava, poco nota nel dettaglio. Ne parlo con Berit As, un’ex parlamentare norvegese, forse la più nota donna politica in Scandinavia assieme a Gro Bruntland. Dopo essere stata espulsa dal Labor Party perché contraria all’entrata nella Ue, nel 1973 è diventata la prima donna leader di partito in Norvegia, nel Democratic Party, poi Partito della Sinistra Socialista, ponendo come condizione per la sua leadership che il partito accettasse il 40% di donne in ogni sua commissione, (poi ridotte al 30%).

Così è iniziata la pratica delle quote in Norvegia. «L’eguaglianza ottenuta negli anni settanta è dovuta a un momento di forza collettiva e alla spinta di un movimento internazionale. Nessuna delle nostre “vittorie” - dice Berit - è avvenuta attraverso le regole normali del gioco politico. Abbiamo dovuto organizzarci in segreto e fuori da situazioni formali per avere l’intelligenza e la possibilità stessa di usare i meccanismi esistenti in altro modo. Abbiamo preso tre strade: l’uso delle leggi elettorali, le quote e l’organizzazione segreta... Abbiamo scoperto, grazie a un precedente creato dai giocatori di football, di poter usare a nostro favore alcune leggi elettorali sul piano locale. Così, nel 1971, il Consiglio nazionale delle donne ha riunito le donne di tutti i partiti e ha insegnato loro a usare le leggi elettorali in modo da poter diventare maggioranza nelle elezioni locali. “Abbiamo preso”, tra la sorpresa generale, le tre maggiori municipalità norvegesi, Oslo, Trondheim e Asker.

Nel 1973, come leader del mio piccolo partito, ho richiesto il 40% di donne in tutti i suoi comitati. Sull’onda di questo altri partiti, prima di tutto i liberali, hanno seguito e pian piano quasi tutti, tranne i conservatori. Nel 1976, quando abbiamo visto arrivare una contro-reazione alle nostre vittorie, abbiamo cambiato strategia, e formato un gruppo segreto di 400 donne. Ci siamo messe d’accordo, discutendo per mesi, su quali temi potessero essere comuni a tutte le donne, dalla destra del partito conservatore alla sinistra del comunista.

Ne abbiamo individuati tre: 1. Le quote, il 50% in tutti gli organi decisionali, (dal parlamento ai comitati ecclesiastici dove si eleggono i vescovi); 2. Il fatto che nessuna dovesse dipendere da nessun altro per la sopravvivenza economica; 3. Il diritto ad avere almeno 10 anni di educazione. Ci siamo messe d’accordo per portare avanti questi temi in ogni partito e ci siamo promesse di non parlare a nessuno delle nostre riunioni, di permettere la nostra esclusione dal partito ma non di tradire la lealtà al gruppo delle donne». E’ stato sulla base di questo lavoro complessivo che, nel 1981, quando poi è stata eletta Gro Bruntland, come candidati a primo ministro c’erano soltanto tre donne. 

Per As la forza principale sta nella trasversalità, nella capacità di anteporre «gli interessi delle donne alla fedeltà di partito». «E’ la cosa più difficile, ancor di più dopo “aver vinto”, ed è la prima cosa che gli uomini cercano di distruggere. Anteporre gli interessi delle donne richiede un’estrema autonomia intellettuale e un sostegno di gruppo che spesso funziona meglio se è esterno. Vuol dire pensare davvero che gli “interessi delle donne” non sono misure di protezione di un gruppo marginale. Vanno pensate come un punto di vista, una prospettiva complessiva». 

Una volta elette, infatti, la presenza di donne cozza non solo contro ricatti personali sulla carriera ma contro raffinati meccanismi d’esclusione e misoginia poco combattibili perché sottili, flessibili, difficili da nominare. Berit ha raccolto in un libricino, già tradotto in moltissime lingue, quelle che ha chiamato le “Master Suppression Techniques”, le tecniche di invisibilizzazione, ridicolizzazione, esclusione, cui sono quotidianamente sottoposte le donne nello spazio della politica. Dall’improvvisa apertura della lettura dei giornali quando iniziano a parlare, alle crisi di sbadigli, alle pause caffè quando si parla di temi che riguardano le donne, alla posizione all’ordine del giorno delle loro proposte, alle misteriose sparizioni “tecniche” di temi dagli ordini del giorno, all’esclusione da informazioni chiave. Glielo ordinano dal Kenia alla Lituania. 

L’esperienza svedese, considerata oggi la più avanzata, conferma tutto ciò. Anche in Svezia è stato un “movimento”, in realtà di pochissime persone, ad ottenere un certo numero di donne nelle liste elettorali per il Parlamento, con metodi non proprio ortodossi. Prima delle elezioni si è organizzato una specie di spionaggio trasversale tra donne di diversi partiti, minacciando di rendere pubbliche informazioni interne a ogni singolo partito, e di formare un partito di donne se non si fosse raggiunta una certa rappresentanza nelle liste elettorali. Così si sono ottenute, per la prima volta, un certo numero di donne nelle liste elettorali. 

Tuttavia è di questi giorni, di nuovo, l’idea della formazione di un partito femminista. Formazione per la verificata impotenza, potremmo dire. Gudrun Schyman, leader del partito della sinistra socialista, si è dimessa dal suo partito esplicitamente per questa ragione, dichiarando che è impossibile, malgrado la massa critica di donne, portare avanti le loro proposte. Quando ha annunciato le dimissioni promettendo di rimanere nel Parlamento come indipendente solo per promuovere le questioni riguardanti le donne ha ricevuto 1000 lettere di supporto in un giorno.

Adesso che così tante donne, e cosi competenti, sono al potere, si realizza quanto il patriarcato abbia dato forma a tutte le istituzioni e come non ci siano proprio “i meccanismi” adatti a rendere visibili le loro proposte e soluzioni. «I temi che portiamo avanti - dice Berit, che interviene regolarmente al Parlamento svedese - ancor più le soluzioni proposte, traversano e implicano vari settori, sono incollocabili nella logica in cui le istituzioni sono organizzate, così passano da una commissione all’altra finché spariscono». 

Conclude Berit: «Le quote sono essenzialmente un meccanismo di difesa, utile per non essere ricacciate sotto un certo tetto numerico. Credevamo che una massa critica avrebbe di per se reso visibile un altro modo di fare politica e un altro set di valori. Oggi le quote spesso servono ai partiti a “pescare” le donne obbedienti o funzionali, soprattutto le giovani, che sono usate per eliminare politiche competenti e piene di esperienza, sulla base di pretese di democrazia e ricambio generazionale. Come scienziata sociale sapevo che un sistema, minacciato, accetta dei cambiamenti inevitabili ma, appena può, colpisce di rimando. E’ quello che ci è successo. 

Nei luoghi di lavoro gli avanzamenti sono stati molto minori che in politica, cosa che ci fa già capire dove sono i luoghi inespugnabili del potere. E la violenza familiare testimonia della necessità di un lavoro più profondo e raffinato sugli atteggiamenti profondi nelle relazioni tra i sessi. In politica non abbiamo bisogno di più donne ma di più femministe, o di donne con molto coraggio, di soggettività non omologate, capaci di gesti che rompono le regole del gioco e soprattutto le fedeltà di partito. E’ essenziale per le donne ritrovare luoghi di pensiero autonomi. E’ necessario per sopravvivere socialmente e storicamente». 

Come rileva anche la scienziata politica Drude Dalheroup, danese ora in Svezia, studiosa dell’uso delle quote in 180 paesi, bisogna passare dalla massa critica, centrata sul numero, all’ “atto critico”: un gesto, anche solitario ma capace di rompere un tabù, una regola data per ovvia. Come dire: vale di più una donna che fa un’azione clamorosa che tante donne facilmente invisibili e accodate ai loro partiti nei Parlamenti.
 

questo articolo è apparso su Liberazione del 26  novembre 2005