Nuove
cittadinanze
La
cittadinanza come pratica di democrazia
di Maria Grazia Campari
Mi sembra
che il tema delle nuove cittadinanze possa essere declinato solo attraverso
il concetto di diversità, concetto che suppone la relazione con
un termine che lo misura e lo definisce.
Il nostro compito mi sembra, allora, quello di offrire contributi di pensiero
e di immaginazione, che determinino connessioni e ibridazioni, capaci
di innovare una pratica politica di democrazia, ora largamente inadeguata
ai bisogni della contemporaneità.
Il diverso è normalmente colui che forma l'oggetto di una definizione
da parte del soggetto, è l'altro nel discorso, nella società,
nella politica.
Come abbiamo sperimentato, nella tradizione e nella cultura patriarcale,
il maschile assegna al femminile una posizione di alterità confinata
in zona periferica, toglie alle donne spazio politico.
E', quindi, per noi donne interessante indagare il tema delle nuove cittadinanze
per interrogarci anche su noi stesse che siamo l'altro della cittadinanza
Ci si potrebbe chiedere perché mai la cittadinanza sia oggi un
problema tanto importante. Una possibile risposta ( per me la più
calzante) è che negli Stati contemporanei i diritti umani appaiono
soppiantati da quelli di cittadinanza, esistenti in quanto attinenti ad
una qualche sovranità nazionale: i diritti, appaiono attribuiti
solo a chi è dotato di cittadinanza.
I migranti sono per l'ordinamento statale elementi che spezzano l'unità
del concetto uomo/cittadino, sono quindi elemento di crisi di questa identità
fondamentale e di tutte le sue necessitate conseguenze, prima fra tutte
quella di creare categorie di esclusi, individui che vengono negati.
L'esclusione si basa per lo più sulla differenza di cultura, considerata
in un'ottica fondamentalista che rende ogni cultura una sorta di monolite
intangibile e uniforme, un insieme compatto di valori e tradizioni definite,
spesso utilizzate per fissare un'identità unica, quindi escludente
tutte le altre. E' un'operazione che nega libertà di scelta, un'operazione
politica antidemocratica compiuta da elite che se ne servono per fondare
un proprio campo di dominio.
Quindi, l'identità fissata attraverso una definizione totalizzante
per gli inclusi e respingente per gli esclusi, è un atto di coercizione
politica, cui conviene sottrarsi per fluidificare i rapporti fra noi e
gli altri, per lasciare a tutti ampie possibilità di cambiamento.
Le nuove cittadinanze possono essere assunte come un concetto che offre
molteplici opportunità di confronto e di mediazione con l'altro,
quindi facilita la messa in opera di connessioni che servono a modificare
l'esistente anche per noi donne che, prevalentemente come spettatrici
più o meno simpatetiche, siamo comunque parte del quadro.
Il compito di sincere aspiranti alla democrazia partecipata, potrebbe
ben essere quello di mettere in comunicazione esperienze diversificate,
di valorizzare la circolarità dell'esperienza umana per fondare
una cittadinanza plurisoggettiva e cosmopolita, destinata ad escogitare
un apparato di regole universali che possano filtrare le differenze senza
opprimerle nell'unicità, favorendo il gioco e lo scambio per la
modificazione reciproca.
Forse è opportuno partire ancora una volta da sé, per indagare
la nostra situazione attuale che già abbiamo definita come l'altro
della cittadinanza.
Concettualmente, l'idea moderna di cittadinanza include tutti i membri
della collettività, senza distinzione di razza, sesso, religione,
condizioni sociali, scelte politiche, propensioni sessuali e quant'altro.
La collettività dei cittadini si regge con proprie leggi che formano
l'ordine giuridico condiviso, essa afferma l'eguale condivisione dell'attività
e dei poteri fra tutti i suoi componenti. Chi ne è escluso, pertanto,
non ha la possibilità di autorappresentarsi come cittadino. Non
è soggetto di cittadinanza poiché il godimento di eguali
diritti passivi (come quello di votare) sfiora il problema, eludendo l'essenziale,
che è costituito dalla partecipazione integrale attiva agli affari
pubblici, quelli che strutturano inevitabilmente la vita di ognuno.
Vi sono regole nella vita sociale che riguardano tutti, quindi fondamentale
garanzia di libertà è la partecipazione alla elaborazione
di quelle regole.
Partecipare alla creazione e alla gestione delle regole che presiedono
al vivere associato, produrre autonomia, sottrarsi all'eteronomia della
regola prodotta dall'altro sulla sua misua, considerata come unica, consente
di riconoscere in queste regole (almeno parzialmente) una propria riflessione,
quindi di darvi un'adesione almeno parziale
Un sistema politico democratico dovrà curare che le persone non
partecipino solo come votanti, ma come agenti delle proprie esperienze,
ragioni e desideri, come responsabili di decisioni collettive condivise.
La democratizzazione delle istituzioni richiede procedure di allargamento
delle sedi di discussione e dei livelli decisionali circa i mezzi e i
fini che la società si propone, suppone la riorganizzazione delle
regole che attengono al processo decisionale.
Abbiamo spesso riflettuto sulla grande distanza che separa la maggior
parte delle donne dai luoghi del potere politico/economico e dalle istituzioni
definite rappresentative.
Abbiamo individuato nella situazione un deficit di democrazia e anche
un pericolo grave e ricorrente di erosione di uno stato minimo di cittadinanza
intesa, appunto come possibilità di partecipazione a pieno titolo
ai processi decisionali che riguardano i soggetti della polis
La situazione attuale manifesta assetti assai lontani da quelli ritenuti
desiderabili.
Nelle società contemporanee constatiamo l'esistenza di una piramide
gerarchica patriarcale/mercantile che produce disparità nel diritto
di cittadinanza e alimenta situazioni di monopolio maschile del discorso,
dell'economia, della politica. Tutto il contrario di una (auspicabile)
politica relazionale che, valorizzando le soggettività, contrasti,
in forma collettiva, le tensioni del mercato all'oggettivizzazione degli
esseri umani, che si compie anche, se non principalmente, attraverso l'oggettivizzazione
dell'altro.
Consideriamo la questione nell'ottica del mondo occidentale cui apparteniamo.
Occorre partire quantomeno dal 1995 e dai punti fermi acquisiti nella
Conferenza ONU di Pechino.
Da allora, i governanti di molti Paesi hanno ripetutamente affermato di
considerare fondamentale (non fosse altro, come atto di giustizia) la
presenza delle donne nei luoghi sociali e nelle istituzioni della politica
rappresentativa.
Sono seguiti, per citarne solo alcuni, gli impegni dell'Unione Europea
del 1995, la Carta di Roma del 1996, le raccomandazioni del Consiglio
dell'Unione, varie proposte di Preambolo alla Carta dei diritti fondamentali
varata a Nizza nel 2000, tutti evocanti la paritaria partecipazione di
donne e uomini alle istituzioni e agli organismi rappresentativi nazionali
ed europei.
Di fatto, un nulla di fatto. Propositi non mantenuti e silenziosamente
ristrutturati in un vetusto ed inefficace orizzonte di quote, mentre si
trattava, all'evidenza, di tentare la rimozione di un interdetto penalizzante
per la stessa democrazia rappresentativa.
Agli inizi del nuovo millennio, si è ancora costretti a registrare
l'esclusione delle donne dalla scena politica istituzionale e dall'esercizio
effettivo della cittadinanza (intesa, come detto, quale partecipazione
alla creazione delle regole che governano il vivere associato).
A questo disconoscimento danno apporto significativo sia la Carta di Nizza,
sia il recente Trattato Costituzionale Europeo.
La Carta, recepita nel Trattato, manifesta sia nel Preambolo sia nel Capo
sulla cittadinanza, la totale mancanza di una ridefinizione della cittadinanza
europea come cittadinanza plurisoggettiva. Le donne, la metà del
genere umano, risultano collocate in un elenco di svantaggiati da tutelare
rispetto alle discriminazioni, previsione insensata e ampiamente inefficace
anche rispetto ai suoi limitati obiettivi.
Il Trattato Costituzionale mostra, a sua volta, clamorose lacune sia sull'aspetto
della cittadinanza, sia su quello, inscindibilmente connesso, della eguaglianza
democratica.
Il tema della cittadinanza viene preso in esame in vari punti dell'articolato
legislativo (che consta di ben quattro parti e di alcune centinaia di
articoli): dall'art. 8 P I, dagli artt. 44-46 P I, dagli artt. 39 e 40
P II.
Nella loro apparente complessità, si può dire che le disposizioni
si limitino a registrare l'esistente: ha la cittadinanza chi già
la possiede in uno Stato membro, solo a costoro sono riservati i diritti
civili e politici, con negazione di diritti ai migranti.
Su questo aspetto, vi erano state proposte d'integrazione dell'articolato
costituzionale con le seguenti previsioni:
"Ogni persona residente da almeno cinque anni nel territorio dell'Unione
ne acquista la cittadinanza, conseguendo diritto di voto ed eleggibilità:
"Ogni persona residente nel territorio dell'Unione ha diritto di
cercare lavoro, di lavorare, di prestare servizio e di stabilirsi in qualunque
Stato membro alle stesse condizioni dei cittadini di quello Stato.
"Qualsiasi persona residente nell'Unione gode nel territorio di un
Paese terzo nel quale lo Stato membro di sua residenza non sia rappresentato,
della tutela delle Autorità diplomatiche e consolari di qualsiasi
Stato membro dell'Unione alle stesse condizioni dei cittadini di detto
Stato"
Entrato in vigore il Trattato Costituzionale, alcune associazioni, anche
su impulso del Forum per la Democrazia Costituzionale Europea, stanno
tentando di ovviare alla più macroscopica "lacuna" attraverso
una petizione al Parlamento Europeo (ex art. 236 P III) volta, appunto,
ad ottenere quantomeno la previsione di una cittadinanza di residenza.
Anche sulla connessa questione dell'eguaglianza di statuto fra donne e
uomini il Trattato Costituzionale non supera, neppure a livello simbolico
di enunciato programmatico, le previsioni di legislazioni precedenti,
imperniate sulla misura unica del soggetto maschile, fulcro dell'ordinamento
giuridico.
Di una previsione simbolicamente forte si sentiva particolarmente l'esigenza
nel nostro Paese che, pur dotato (per ora) di una Costituzione per molti
aspetti progressiva, vede tuttavia nell'art. 29 del testo, un'aporia rispetto
agli enunciati di eguaglianza e pari dignità sociale/politica dei
cittadini singoli o associati in forme da loro liberamente prescelte (artt.
2 e 3 Cost). L'art. 29 definisce,infatti, la famiglia quale pilastro del
vivere associato (è una smentita all'art. 2) e determina che l'eguaglianza
morale e giuridica fra i soggetti che la compongono ceda in favore dell'unità
dell'istituto famigliare (è in contrasto con l'art. 3)
Il valore dell'eguaglianza affermata nel patto costituente italiano appare
tutta pensata sul metro maschile: ne è sintomo significativo il
fatto che essa per le donne non è incondizionata, poiché
cede a fronte del bene dell'istituzione famigliare.
Tuttavia, i diritti fondamentali non possono essere condizionati, o sono
incondizionati oppure non sono.
Appare allora che neppure nella Costituzione italiana e neppure a livello
di enunciazione programmatica, sia data l'eguaglianza fra i soggetti dei
due sessi, ciò che pone in sofferenza, anzi, nega la democrazia
rappresentativa plurima. Dalla dignità costituzionale attribuita
ad un'istituzione monocratica esplicitamente esclusa dalla dichiarazione
di eguaglianza, consegue una ricaduta sui diritti di cittadinanza, di
governo della cosa pubblica, che sono fra donne e uomini asimmetrici e,
per le donne, quindi nella polis, evidentemente incompiuti.
Si era proposto in sede di consultazione alla Convenzione Europea che
il principio di eguaglianza democratica trovasse spazio nella Costituzione
attraverso il seguente enunciato:
"L'Unione riconosce il diritto fondamentale all'uguaglianza di
statuto della donna e dell'uomo in tutte le sfere della vita politica
e sociale.
"Le Autorità pubbliche dell'Unione hanno l'obbligo di adottare
misure speciali miranti ad accelerare la partecipazione paritaria delle
donne e degli uomini alle istituzioni e agli organismi politici.
"Tutti i cittadini dell'Unione partecipano paritariamente alla vita
politica"
Concetti non nuovi, che avevano fatto parte del dibattito parlamentare
europeo nella legislatura precedente all'approvazione della Carta e della
Costituzione, proposti, come si accennava, in forma di emendamenti da
associazioni europee di donne, fra le quali l'associazione di giuriste
EWLA, anche sulla scorta della Dichiarazione di Atene (marzo 2003) della
rete di Commissioni Parlamentari per l'eguaglianza di opportunità
fra donne e uomini nell'Unione Europea.
Concetti tutti egualmente disattesi.
Non sarebbe male, secondo me, iniziare a proporsi una riflessione e un
dibattito collettivo che metta a tema di un'eventuale prossima petizione
anche un articolo sull'eguaglianza di statuto e sulle misure di garanzia
a presidio dell'effettività.
La previsione più avanzata contenuta nel Trattato Costituzionale
è, allo stato, quella dell'art. 21 P II sul divieto di discriminazione,
la cui scarsa efficacia non è, purtroppo, evocabile in dubbio.
La cittadinanza plurisoggettiva di residenza (cosmopolita o nuova, per
noi europei) è solo una questione di giustizia? Non sarebbe poco,
ma non solo di questo si tratta.
Lo spazio geografico-politico in cui viviamo, appare ai consapevoli occhi
di molti come una fortezza chiusa in se stessa, autocentrata, indisponibile
al rapporto paritario con l'altro che condivide il territorio e vi intreccia
una vita di relazioni.
Questo atteggiamento pone l'altro continuamente sulla frontiera, su un
crinale interno/esterno ove è inferiorizzato (nei diritti), sottoposto
a controlli di sicurezza secondo canoni di una legalità, che è,
a sua volta, una barriera mobile, manovrata da colui che ha titolo per
dettare la legge a tutti gli altri.
Ciò che evoca la figura di Antigone, figura non a caso femminile,
che si fa portatrice non solo di un pensiero per cui rivendica diritto
di cittadinanza nella polis, ma che si propone anche di costruire l'ordine
nuovo delle regole che si strutturano sulla concezione relazionale dello
scambio politico fra esseri umani riconosciuti di pari valore.
In luogo dell'incomunicabilità autistica, questa concezione propone
l'ascolto, il conflitto, la mediazione fra valori differenziati.
Trasferita nell'Europa contemporanea, l'ipotesi potrebbe essere pensata
come cittadinanza plurisoggettiva cosmopolita, non incapsulata in una
nazione, in una comunità, in un gruppo, in un soggetto, ma libera
da processi di inclusione/esclusione, articolata orizzontalmente su tutto
lo spazio territoriale.
Infatti, non si può parlare di diritti universali, di democrazia
partecipata, di cittadinanza, se l'universalismo si incentra sull'uno
ed esclude l'altro.
Questo universalismo escludente crea strutture piramidali e periferie
di umanità che sono la negazione dei diritti condivisi, enuncia
(quando li enuncia) valori che sono destinati, al più, a rimanere
registrati sulla carta.
In molte donne si fa strada, non da oggi, la convinzione che ai margini
delle istituzioni sia possibile creare nuovi spazi che le vecchie regole
non avevano potuto prevedere. Che un nuovo ordine possa essere creato
consumando e riarticolando il vecchio.Non si tratta di negare in radice
l'ordine vigente nella polis, ma di comprendere quale sia l'origine e
quale la natura di un tale ordine.
Questo è un problema rilevante e molto attuale, perché non
è dubbio che, come osserva H. Arendt, lo spazio in cui l'ordinamento
giuridico ha valore è quello che determina il mondo in cui ci si
può muovere in libertà, vincolati da legami che contemporaneamente
associano e separano.
L'ordine condiviso, per essere tale, non può prescindere dall'apporto
dell'esperienza dei migranti.
Molti di costoro, in Europa, hanno sentito sopra di sé l'oppressione
dell'imperialismo culturale e sono riusciti a politicizzare la cultura,
attaccando gli stereotipi della tradizione propria e altrui; hanno rifiutato
la omologazione ai valori dominanti facendosi guidare da esperienze di
vita differenziate. Hanno contribuito a smascherare quel tipo di oppressione
che consiste nel vedere come deviante l'altro da sé.
Anche i movimenti politici dei migranti possono contribuire a modificare
istituzioni e pratiche prima accettate acriticamente, provocare un dibattito
su come riorganizzarle; possono concorrere alla costruzione di una democrazia
plurale che si avvantaggia di percorsi, pensieri, relazioni che trovano
radici e possibilità di crescita diversificate.
Su una linea di frattura dell'esistente si collocano anche il pensiero
e la pratica politica di donne consapevoli di essere, oggi, l'altro della
cittadinanza, quindi agente primario di modificazione dell'ordine che
le confina nel privato, al servizio della famiglia, imponendo un pervasivo
controllo sociale sul loro corpo/mente, negando loro agibilità
nello spazio pubblico.
L'ordine attuale, che divide il mondo in privilegiati ed esclusi, va scompigliato
in un creativo, salutare disordine. Deve essere sostituito da una connessione
fra diversi che si riconoscono e rispettano nelle diversità accettate
Per gli spiriti critici, in particolare per le donne, è tempo di
affermare la necessità di dismettere l'adesione subalterna all'ordine
dato, che provoca, fra l'altro, catastrofi gravissime alla comune umanità.
E' tempo di portare alla luce soggetti politici complessi, capaci di creare
e mettere all'opera le differenze, attraverso metodi che favoriscano l'azione
di uno sguardo molteplice sull'esistente, per uno sviluppo aperto e autocritico
della società in cui viviamo
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