Oltre
i confini della vita
Quando le tecnologie entrano nella nascita e nella morte
di
Lea Melandri
Non è
certamente un caso che le tecnologie applicate alla vita si siano andate
orientando sempre più verso quei due estremi che sono la nascita
e la morte, e abbiano finito per dilatarne a tal punto i confini da far
balenare l'idea dell'immortalità, o comunque di un controllo finora
impensabile sul destino del vivente. Seguendo le orme del dio creatore
che non ha mai smesso di accompagnarlo nel suo cammino storico, l'uomo
tenta oggi la sfida ultima: padroneggiare il principio e la fine, strappare
alla natura e al corpo femminile che ne è stato depositario, il
centro imprendibile, segreto, che è all'origine della vita, ma
anche dei suoi limiti.
Quel libro che si è aperto sotto gli occhi di audaci navigatori
della scienza con la fecondazione in vitro e con la mappatura del menoma,
sembra contenere le "istruzioni" necessarie, non solo per "costruire
l'uomo", ma anche per seguirlo lungo il corso della sua esistenza
e prolungarne indefinitamente il termine. Ad aprire strade promettenti
verso l'ignoto è la manipolazione dei geni: "selezionandoli
prima della fecondazione, correggendo la loro azione nel corso della vita,
oppure forzandoli a produrre nuovi tessuti e organi" (E.Boncinelli,
G. Sciarretta, Verso l'immortalità?, Cortina editore 2005). Le
tecniche di animazione praticate su corpi in stato vegetativo permanente,
o in caso di coma irreversibile, sarebbero perciò soltanto l'ultimo
della lunga serie di controlli, cure, prevenzioni, che comincia con la
materia prima del processo riproduttivo.
Una vita sotto tutela, come una macchina perfettibile, esposta agli sguardi
vigili di quanti sono chiamati a decidere per essa -parenti, medici, magistrati,
politici-, non poteva non dare adito a interrogativi preoccupati sul senso
nuovo, imprevisto, che viene a prendere l' "umano" dietro la
spinta di mutazioni così radicali. Se l'uomo diventa "antiquato",
ha scritto Gunter Anders, estromesso dalla storia e sostituito dal suo
prodotto più potente, la tecnica, quali totalitarismi e servitù
ci aspettano nel futuro? Il progetto ambizioso di "crearsi da sé",
intervenendo sulle leggi naturali dell'evoluzione, è quanto meno
sospetto quando a volerlo è lo stesso che ha costruito armi in
grado di distruggere l'intera specie. Il sogno di rigenerazione, così
come l'ossessiva difesa della vita, della salute, dell'eterna giovinezza,
diventano loro malgrado i testimoni più insospettabili dei pericoli
che oggi minacciano la sopravvivenza: il deterioramento del clima e dell'ambiente,
la guerra, le malattie, lo squilibrio tra i ricchi e i poveri del mondo,
il moltiplicarsi delle cause di morte, la resa a un modello di sviluppo
ormai incontrollabile.
Per aver voluto arrogarsi le prerogative che sono state storicamente delle
religioni, le tecnoscienze si trovano oggi costrette ad aprire i loro
laboratori allo sguardo di un pubblico di profani, a muoversi tra attese,
promesse e rassicurazioni, a entrare nei terreni dell'etica e della filosofia,
ma soprattutto a confrontarsi con l'esperienza che ogni individuo fa del
suo essere inscindibilmente corpo e pensiero. Nel momento in cui l'organismo
umano diventa "luogo pubblico", oggetto di infinite scomposizioni
e aggiustamenti, si accentua a dismisura anche il divario tra la narrazione
che possono fare i saperi più diversi e quanto resta di indicibile,
coperto da pudore e vergogna, nel racconto del singolo.
Se il corpo è sempre in qualche modo "straniero" all'Io
che lo abita ora da padrone ora da ospite in un rapporto ambiguo di amore
e inimicizia, l'invasione di agenti esterni non può che proiettarlo
su un orizzonte di prodotti artificiali, che si possono controllare ma
non certo sentire come parte integrante del proprio essere. L' "intruso",
che sia un organo trapiantato, o la convivenza forzata con tubi, sonde,
suture, non può che produrre un "disordine nell'intimità",
e trasformare l'immagine della persona, dove tutto si tiene "naturalmente"
insieme, in un "montaggio di funzioni".
"Io sono aperto e chiuso. C'è in me un'apertura attraversa
la quale passa un flusso incessante di estraneità: i farmaci, i
ripetuti controlli
Dall'avventura si esce sperduti. Non ci si riconosce
più. Riferirmi a me stesso è diventato un problema, lo si
fa mediante il dolore e la paura
l'impressione generale di non poter
più essere dissociato da una rete di misure, di indagini, di connessioni
cliniche, istituzionali, simboliche, che non si possono ignorare. L'intruso
mi estrude, mi esporta, mi espropria. Io sono la malattia e la medicina,
io sono la cellula cancerosa e l'organo trapiantato, io sono i pezzi di
filo di ferro che tengono insieme il mio sterno
divento come un aneroide
della fantascienza o piuttosto come un morto vivente" (Jean-Luc Nancy,
L'intruso, Cronopio 2000 )
L' "inizio di mutazione", che Jean-Luc Nancy descrive con dolorosa
lucidità a partire dall'esperienza che gli ha permesso di prolungare
la vita, ma a rischio di sentirla irreversibilmente consegnata alle mani
di altri, è quanto mai sorprendente e contraddittorio. Il "tecnico"
terribile e inquietante che snatura e rifà la natura, che è
capace dell'origine e della fine, è lo stesso che si fa materia
biologica di sperimentazioni dall'esito imprevedibile, che dispone delle
macchine per protrarre la sopravvivenza oltre la vita psichica e conoscitiva,
ma che non può impedire di divenirne il servitore e, nel caso di
agonie prolungate, una semplice appendice. Le metamorfosi a cui una civiltà
sempre più incerta del suo destino si sta abituando, se promettono
un superamento di antiche dicotomie -natura/cultura, corpo/mente, ecc.-,
lasciano perplessi sulla confusione che si sta profilando, caduto ogni
confine, tra salute e malattia, vita e morte, difesa immunitaria e distruzione.
Biologia e storia, vita naturale e individualizzazione, si sono sempre
fronteggiate come se appartenessero a ordini di valore differenti, disposte
secondo una gerarchia capovolta rispetto alla priorità temporale,
e su cui si sono innestati esercizio di potere, sfruttamento e violenza.
Il corpo è l'elemento che l'uomo ha in comune con gli altri esseri
viventi, ma da cui non ha mai cessato di prendere distanza per salvaguardare
la sua diversità, fatta di linguaggio, pensiero, capacità
creative. Ma è anche la radice che imparenta i due sessi al di
là delle loro differenze biologiche, per quella fase sia pure breve
di indistinzione che attraversano la madre e il figlio. Forse è
per questo che, facendosi protagonista unico della storia, l'uomo ha continuato
fino alle soglie della modernità a considerare la donna una "vita
inferiore" e, al medesimo tempo, il misterioso "vortice creativo"
depositario di una scintilla divina, promessa e minaccia per la sua continuità.
La nascita e la morte, sia che le si veda come limiti di ogni singola
esistenza, o come le due dimore, utero e tomba, di un ideale ricongiungimento,
riportano in ogni caso al destino che accomuna la natura e la donna, al
dominio che su di esse hanno imposto le istituzioni della vita pubblica,
i dogmi e i rituali della religione, le costellazioni di immagini e simboli
di cui sono impregnati i linguaggi più diversi della civiltà.
La "questione della vita", che si accampa oggi al centro della
politica, non le è mai stata estranea, inclusa/esclusa, come ha
scritto Giorgio Agamben, per il rapporto che ha avuto fin dall'origine
con la città dell'uomo, il suo potere, le sue leggi.
Raggiunta finalmente quella cittadinanza che le è stata così
a lungo negata, la vita biologica sembra potersi mostrare ben al di là
di quello che le leggi e il diritto naturale le hanno riconosciuto. Per
tutti i segni che vi hanno impresso le vicende umane, sembra che sia essa
oggi paradossalmente a fornire quel supplemento di storia che manca ai
manuali e alle narrazioni conosciute. Per quanto astruso sia il linguaggio
della tecnica, non è difficile dare volti e nomi ai conflitti che
hanno a che fare con l'origine della vita, con la sua evoluzione, la sua
difesa e il suo termine naturale.
La contesa per il potere generativo ha visto i padri inscrivere la discendenza
sotto il proprio nome, e oggi le potenti tecnologie del loro "progresso"
tentare l'impresa più ardita: la procreazione in un utero artificiale.
Ma, a guardare bene, essa non parla solo delle paure dell'uomo di fronte
a una potenza femminile dispensatrice di vita e di morte, ma anche della
resistenza profonda, in aggirabile, a riconoscere che le storie singole
hanno un principio e una fine. Il termine ultimo, per quanto si possa
prolungare, è già inscritto nel nascere, la morte fa parte
della vita, anche se tutti gli sforzi dell'umanità sono volti ad
espellerla, a tacitarla nella sua fatalità di legge naturale, salvo
poi riprodurla senza sosta, ora con mezzi sofisticati ora con brutalità
ferina. Impadronirsi dell'alfabeto dei "geni" e sperare di avere
così in mano la chiave di lettura per tutti i comportamenti e le
mutazioni desiderabili dell'umano, è il grido trionfante con cui
viene annunciata ogni nuova scoperta scientifica, ma è anche il
pensiero onnipotente di biologi, genetisti, medici, decisi a tentare le
strade dell'immortalità.
A far da controcanto alle sirene del grande mutamento, restano poche voci,
scritture defilate dal coro che oggi plaude ogni promessa di vita eterna,
che venga dai laici o dalle chiese. A "pensare e scrivere la morte"
è stata storicamente la parola dei poeti, capaci di testimoniare
il "nulla" su cui si affaccia l'esistenza, senza restarne muti
o abbagliati. Ma ci provano anche tutte quelle scritture che non hanno
paura di mettersi a nudo, sfiorando i confini di passioni "impresentabili",
sopportando silenzi e frammentazioni.
"La via della scrittura si pone di fronte al dolore, alla souffrance,
al nulla, e procede. Tenta questo spazio, ne percorre i limiti, ceca il
punto di soglia da cui possa captare un'immagine o un suono e portarlo
in sé come una conquista preziosa, come la testimonianza del superstite
appunto, che da questo viaggio ritorna, riferisce, per poi riprendere
il viaggio, senza curarsi se il sapere che ne trae, come ha scritto Baudelaire
è amaro." (Franco Rella, Dall'esilio, Feltrinelli 2004).
Navigazioni decisamente diverse, quella dello scienziato e quella del
poeta filosofo, accomunate solo dalla volontà di sottrarre alla
morte il suo mistero, il suo urto, la sua intollerabilità. Ma il
racconto che tenta di restituire l'esperienza di un individuo nella sua
interezza -corpo pensante e senziente-, rischia di passare del tutto inascoltato
dietro il frastuono di voci consolatorie che vengono dai fronti opposti,
ma ugualmente autorevoli, dello sviluppo tecnologico e del risveglio religioso.
L' "avvenire di un'illusione", che Freud scrisse pensando a
una Provvidenza divina modellata su un infantile bisogno paterno, si potrebbe
ormai estendere al dio tutto terreno, e decisamente meno attraente, che
una società senza padri ha creduto di poter identificare con le
sue potenti creature meccaniche.
Pubblicato su D di Repubblica
11-Ottobre- 05
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