"Ormoni sui muri"

di Agnese Seranis

 





Il 23 gennaio 2002 sul giornale "La Stampa" la rubrica Buongiorno di Massimo Gramellini si intitolava appunto "Ormoni sui muri". Il giornalista richiamava l'attenzione del lettore sull'uso del corpo femminile per acchiappare audience nei vari spettacoli televisivi o nella pubblicità, ma ciò che gli premeva, veramente, era sottolineare - per non usare un termine troppo forte come denunciare - il silenzio delle donne, il silenzio delle femministe, in particolare, se ancora ne esistevano. Già, il silenzio delle donne.


Le parole di Gramellini per me sono state come sale su una ferita. O, meglio, mi ha di nuovo messa di fronte a un interrogativo che non smette di martellarmi nella testa: come ci vengono restituite, oggi, la riflessione e la critica femminista alla società degli anni '70 ?

Sono turbata da molto tempo da ciò che vedo in TV o sui giornali. Siamo lontane anni luce da quando gruppi di donne a Torino, di notte, attaccavano striscioni con la scritta "Questa pubblicità offende le donne" su manifesti che dicevano qualcosa del tipo : Le moto e le donne sono uguali…
Il fatto è che, se chiudo gli occhi e mi rappresento virtualmente le donne d'oggi, mi appare un universo così variegato e così diverso da allora da farmi dubitare che si possa trovare un orizzonte comune rispetto a cui tutte ci si possa riconoscere.

La maggior parte delle donne, nei paesi occidentali, sono ormai scolarizzate, consapevoli dei loro diritti, delle loro capacità intellettuali, combattive come gli uomini nel mondo del lavoro; le donne, poi, sono lucidamente consce del potere del loro corpo e, allora, lo curono, lo esibiscono, se lo giocano per eventualmente raggiungere il successo sul piano del lavoro o sul piano personale. E' il mito del successo che le ha conquistate, come garante di una felicità che le nostre madri e nonne non hanno conosciuto. E mi vengono in mente le giornaliste, quelle famose, le inviate di guerra o quelle che irridono alle afgane "minchione" che si sono lasciate imporre il burqua; mi vengono in mente le donne soldato o le donne della politica importanti, quali Condoleeza Rice, divenuta responsabile della sicurezza nazionale della prima potenza mondiale: gli USA.
Se giro, di contro, appena la testa ecco venirmi incontro il fiume di donne emigranti.

Ci sono le tante prostitute che occupano gli angoli delle strade delle nostre città, bionde brune ma soprattutto giovani. E se molte sono lì perché violentate e sfruttate, molte scelgono di fare quel mestiere, come ci dice Carla Corso, presidente della associazione delle prostitute, che rivendica il diritto di vendere il proprio corpo, ma in sicurezza. E, a casa dei clienti delle prostitute, ci sono le mogli o compagne che forse sanno ma fingono di non sapere e tollerano.

Ci sono poi le donne emigranti che arrivano in Italia e hanno come obiettivo di sposarsi un maschio italiano, disposte a offrirgli ciò che le donne italiane emancipate gli negano: non sono tanto i piatti lavati o il governo della casa ma quella soggezione psicologica, quel riconoscimento acritico di superiorità che tanto riscalda il cuore degli uomini. E li fa funzionare sessualmente. Già. E sembra, poi, che, loro, le donne emigranti non abbiano problemi di fecondità, non devono ricorrere alla fecondazione assistita! Fanno figli facilmente e ristabiliscono, nel privato, quell'universo femminile che noi, le donne emancipate anche se non femministe, abbiamo contribuito a smantellare.

Ci sono poi le donne emigranti che rivendicano il chador e tu le vedi in piazza - accadde a Torino mesi fa - e ti chiedi se sei con o contro di loro.
E lontano ci sono le altre, le donne nascoste dal burqua o quelle che rischiano la lapidazione o le donne terroriste o…

E poi ci siamo noi, le donne -femministe o ex femministe o che? - che leggono e scrivono su Il paese delle donne e vanno alle manifestazioni o agli incontri delle Case delle donne delle tante città italiane. E ci occupiamo delle donne afgane oppure delle donne palestinesi oppure delle donne dell'Ecuador o delle tibetane o…e tutto questo ci appaga perché, in questi contesti, è facile individuare l'oppresso e l'oppressore.
E noi, le femministe, siamo con loro, con gli oppressi. E fa bene al cuore fare del bene, lo conosco anch'io quel sentimento, al rientro a casa dalle mie lezioni d'italiano, gratuite, alle extracomunitarie. Il fatto è che questo fare ci permette di rimuovere qualcosa che non sappiamo affrontare: è la smagliatura dei rapporti tra noi donne dei paesi industrializzati in cui ciascuna va alla ricerca di soluzioni individuali ai propri problemi, o al raggiungimento dei propri desideri, dei propri obiettivi. Ognuna per sé. E, intanto, qualcuno erode le conquiste degli anni '70 o azzerra di fatto un cammino, riproponendoci corpi consenzienti, indistinguibili l'uno dall'altro, di cui l'occhio maschile valuta la consistenza dei glutei o la generosità del seno; corpi indossanti, come vestito, quel filo interdentale, di cui scrive Gramellini.

Se dicessi che tutti quei corpi, spogliati, esibiti volontariamente per il piacere degli occhi maschili mi offendono e mi danneggiano, perché tolgono credibilità alla mia esigenza che un uomo mi parli guardandomi negli occhi, sarei tacciata d'essere una bacchettona o una vetero femminista che odia gli uomini. Se dicessi che tutte quelle donne, arrivate, che profumano e si vestono come suggerisce Cosmopolitan, sono donne dimezzate sarai accusata di provare sentimenti d'invidia o peggio.

Così annaspo. Non posso vivere il mio essere donna e il mio essere stata ed essere femminista in una logica di noi e loro: noi che abbiamo capito tutto, noi avanguardie intellettuali che abbiamo aperto o che oggi indichiamo un percorso - quale? - aspettandoci che un giorno loro ci seguano e loro, le assimilate al mondo o ai desideri maschili. Non mi tranquillizza ritrovare un'eco ai miei pensieri nelle parole del Il paese delle donne o in un ambiente protetto: alla Casa delle donne della mia città.
Vorrei svegliarmi, un mattino, con un'idea che invogli tutte le donne - noi e loro - a guardarsi l'un l'altra, a riinterrogarsi sui propri percorsi e a progettare insieme un mondo che includa anche qualcosa che autenticamente ci corrisponda.

Nel libro-diario Taci, anzi parla, Carla Lonzi l'11 settembre 1974 scriveva "…io lavorerei molto serenamente in una aprtheid femminile - il che non significa escludere i maschi ma che siano loro una buona volta a presentarsi come postulanti di qualcosa che gli corrisponde e che magari non esiste nella loro cultura..." Sono passati quasi trent'anni da allora. Non mi risulta che alcun maschio abbia bussato come postulante alla nostra porta ma abbiamo manager-donna, soldato-donne, politici-donne, medici-donne… oltre alle solite mogli o tutte le altre donne che rallegrano il cuore degli uomini. E quando scrivo manager-donna, soldato-donna ecc. voglio sottolineare, usando il genere maschile degli appellativi, l'adesione a modi e regole dettate dal mondo maschile.

Le tante parole che abbiamo scritto sul tema della sessualità non hanno convinto l'uomo a fare a meno dei rapporti mercenari in cui si gioca un piacere consumato da uno, non condiviso in una relazione. E rispetto alla auspicata maternità responsabile, siamo spettatrici di eventi che da una parte mostrano donne nevroticamente disponibili a qualsiasi sperimentazione per avere un figlio e dall'altra una scienza che si prepara a fare a meno di noi.
E' inevitabile il processo di assimilazione del debole da parte del più forte? O, quanto tempo, ci vorrà prima che la società ci veda protagoniste a tutto tondo? Ma, forse, quando ciò accadrà, la nostra metamorfosi sarà completata e non ci saranno più conflitti tra i due sessi.


Torino 6/02/2002