Pakistan
Donne ostaggio della legge del clan.

Ha fatto scandalo lo stupro ordinato da un consiglio di villaggio. Ora comincia il processo

di Marina Forti

da il manifesto del 27 luglio 2002



Karachi, Donne protestano contro lo stupro

L'accordo era stato negoziato attraverso il panchayat, il consiglio degli anziani del villaggio, riferisce la stampa locale. Quattro uomini condannati a morte per omicidio hanno contrattato il perdono della famiglia delle vittime, e quindi la libertà, in cambio di una somma pari a 130mila dollari e della «cessione» di otto ragazze delle proprie famiglie che andranno in moglie a uomini del clan delle vittime.

E' successo a Abakhel, villaggio nel distretto di Mianwali, nel Punjab meridionale, Pakistan. Il negoziato, in sé, non ha sollevato particolare scalpore: tra le norme ispirate alla shari'a, la legge islamica, emanate in Pakistan nel 1979 dall'allora dittatore militare Zia ul Haq, vige quella secondo cui un omicida può andare libero se la famiglia della vittima accetta un compenso in denaro, «il prezzo del sangue». E però la legge della Qisas parla di denaro, non di ragazze regalate al clan opposto.

Così, quando la notizia è circolata la Corte Suprema pakistana ha chiesto alla polizia di indagare su quell'accordo, e di bloccarne l'esecuzione (è di ieri la notizia che i quattro ora stanno contrattando un nuovo accordo, questa volta solo in denaro). E' risultato tra l'altro che delle otto ragazze promesse come «risarcimento» tre hanno meno di 10 anni, la più piccola è una bambina di un anno e mezzo. Due figlie adolescenti di uno degli omicidi erano già state consegnate: una ragazza di 18 anni sposata a un uomo di 77, una quattordicenne a un 55enne. Questi però hanno acconsentito il giorno stesso a divorziare, convinti dagli anziani che si trattava di un compromesso «immorale» (alcuni giornali scrivono che è stato in realtà l'intervento della polizia a annullare il matrimonio).Il capo della Corte suprema, giudice Sheikh Riaz Ahmed, ha definito l'episodio «contrario alle leggi del paese e ... a quelle del mondo civile», riferisce il quotidiano in lingua inglese Dawn.

Donne in ostaggio

E' la seconda volta in meno di un mese che la Corte Suprema pakistana interviene sulla «giustizia» amministrata da un consiglio di villaggio - panchayat è un termine che nella vicina India indica un consiglio locale elettivo, l'elemento di base della democrazia decentrata, ma in Pakistan è più spesso sinonimo di jirga, o consiglio dei clan di quel villaggio, che secondo le consuetudini media le liti tra famiglie. Non è una coincidenza se in entrambi i casi in questione vittima di questa «giustizia tradizionale» sono delle donne. Il caso che ha suscitato più scandalo - e sollevato tante questioni sui consigli di villaggio - è quello di una donna fatta violentare su ordine del panchayat per «risarcire» una presunta colpa commessa da suo fratello minore. Quel episodio, alla fine di giugno, era stato riportato con orrore dalla stampa pakistana, e poi da quella internazionale, e ha suscitato in Pakistan le proteste di organizzazioni di donne e per i diritti umani.

Una storia terribile, anche questa ambientata in un villaggio del Punjab meridionale, in cui lo stupro collettivo di una donna di 28 anni è solo l'epilogo di una serie di violenze. In breve, un giorno tre uomini del clan Mastoi sequestrano Abdul Shakur, ragazzino di 11 o 12 anni appartenente al clan Gujar. Lo portano nei campi e lo sodomizzano (fatto che sarà poi confermato da esame medico). Per assicurarsi che non riveli i fatti lo chiudono in casa di uno di loro, Abdul Khaliq. La famiglia cerca il ragazzo sequestrato - tutti avevano visto chi lo aveva portato via - e la polizia lo trova: diranno però che il giovane era stato sorpreso in una stanza solo con Salma Naseen, la sorella ventenne del padrone di casa. I Mastoi lo accusano dunque di aver avuto una relazione illecita con la ragazza. Più tardi l'inchiesta ordinata dal governo dirà che il povero Abdul Shakur era «troppo giovane per poter avere una relazione carnale con il sesso opposto», ma quello che conta è che gli uomini del clan Mastoi, dominante nel villaggio di Meerwala vicino alla cittadina di Muzaffargah, volevano ristabilire il proprio «onore» e dare una lezione ai Gujar, considerati casta inferiore. In teoria non esistono caste in Pakistan - il concetto di casta è legato alla gerarchia sociale hindu, e qui siamo in una società musulmana: ma le tradizioni profonde sono più forti (del resto nessun interprete del Corano aveva mai ordinato uno stupro collettivo come punizione di un presunto crimine).

I Mastoi ricorrono dunque al panchayat. I vecchi del villaggio non si preoccupano di indagare i fatti: accettano la denuncia del clan più forte e discutono come si debba lavare la colpa. Respingono l'ipotesi di un matrimonio «riparatore» tra Naseen e il giovanissimo Abdul Shakur. Infine, decretano che la «colpa» sarà invece lavata facendo violentare la sorella di lui, Mukhtaran Mai, da quattro uomini del clan Mastoi. E così avverrà. Invano lei, Bibi (nomignolo affettuoso che suona circa come «sorella maggiore»), la maestra del villaggio, li ha scongiurati di non farlo, «in nome dell'islam»...

La catena di mostruosità avvenuta in quel villaggio del Punjab è venuta fuori poco a poco. Lo stupro collettivo è avvenuto il 22 giugno; qualche giorno dopo ai giornali è giunta notizia di un caso di violenza sessuale. Ma solo quando l'imam del villaggio ha deciso di rompere il silenzio, e in un sermone ha condannato lo stupro «contrario all'islam», i giornalisti locali si sono messi al lavoro e i contorni della storia sono emersi. L'indignazione è stata unanime: uno stupro sanzionato da un consiglio di anziani era davvero cosa inaudita anche per chi si appella alla tradizione. Infine, a metà luglio, il governo ha fatto arrestare 18 persone, tra cui gli stupratori e il capo del panchayat di quel villaggio. Proprio ieri i quattro sono comparsi, incatenati, per la prima udienza del processo davanti a un tribunale speciale antiterrorismo nel capoluogo distrettuale, Dera Ghazi Khan. L'accusa ha chiesto la condanna a morte. Ma la tragedia di Mukhtaran Bibi solleva un velo su tutto ciò che ha permesso una violenza così inaudita: in primo luogo su quanto disprezzati siano i diritti delle donne, fragile il loro status, e quanto labile siano i concetti di legge e giustizia in una società ancora largamente feudale.

Il «delitto d'onore»

La Commissione per i diritti umani in Pakistan (Hrcp), organismo indipendente protagonista di molte battaglie democratiche, ha pubblicato lunedì scorso un'indagine in cui afferma che stupri e «delitti d'onore» sono in aumento in molte zone del Pakistan, in particolare le campagne del Punjab meridionale e del Sindh - ma anche in ambienti urbani. L'indagine parla di 150 casi di violenza sessuale in Punjab meridionale nei primi sei mesi di quest'anno: i violentatori sono in genere uomini di casta alta, e le vittime donne di casta più bassa. Nella stessa zona, l'indagine conta una quarantina di delitti «d'onore» - commessi da mariti, padri, fratelli o altri parenti contro donne accusate di aver provocato disonore alla famiglia: secondo la Commissione per i diritti umani, circa metà degli 82 omicidi di donne avvenuti nei distretti del Punjab meridionale sono «d'onore».

La Commissione accusa: in questi casi, e in episodi di violenza sessuale, la polizia è molto restìa a indagare e la giustizia assai blanda verso i responsabili. Tutto questo non è una novità per gli avvocati e le attiviste della Commissione per i diritti umani, o delle organizzazioni di donne - la sorpresa amara è che il numero di queste violenze non diminuisca, al contrario. Accusano: i consigli di villaggio non hanno legittimità, le loro «sentenze» sono basate su tradizioni feudali e tribali e non sulla legge, ma spesso invocano l'islam come fonte di legittimità. Così le autorità esitano ad andare contro i panchayat per paura di offendere i «sentimenti religiosi» della popolazione, e tollerano l'arbitrio.

Certo, ora qualche capo di polizia locale è stato sospeso. La ministra pakistana «per lo sviluppo delle donne», Attiya Inuatullah, tuona che «come in guerra, lo stupro è stato usato come arma di suprema umiliazione». I colpevoli subiranno con ogni probabilità una condanna esemplare. Il presidente della repubblica ha fatto consegnare a Mukhtaran Bibi un risarcimento di 8.300 dollari, e ha promesso che nel villaggio arriveranno strade asfaltate e corrente elettrica, e un presidio di polizia sarà messo accanto alla scuola - che prenderà nome da Mukhtaran Bibi e dove lei continuerà insegnare. Nella speranza che altre ragazze non siano usate come merce di scambio a regolare i conti tra clan.