Femminismo e decrescita: movimenti paralleli e/ o intersezioni ?
Il contributo del femminismo al pensiero della decrescita

Paola Melchiori

 

 


Una premessa
Un paper che ha lo scopo di animare un workshop ha delle caratteristiche particolari, si deve muovere infatti  necessariamente  tra proposizione di tesi e domande di ricerca.
Propongo quindi di  partire da una domanda un po’ assurda o provocatoria per l’identità  stessa di chi la propone.
Ha il femminismo “ancora” qualcosa da dire, oggi, nella congiuntura attuale, a un movimento come quello della decrescita? O le caratteristiche stesse di questo movimento “garantiscono” già un  “inglobamento in esso” dei contenuti fondamentali del femminismo? Questa domanda è generata dal fatto che non solo il femminismo ma anche una più edulcorata  “questione dei generi” è piuttosto  invisibile all’interno della letteratura principale della decrescita. Questo può significare, nella migliore delle ipotesi, che  i suoi contenuti sono stati in fondo già inglobati da questo movimento, sia  per motivi generazionali, sia  perché la diffusione delle idee segue percorsi temporali “strani”, rimane invisibile e poi precipita  con accelerazioni e decelerazioni che poco hanno a che vedere con linearità  ma piuttosto con “condensazioni”, dovute allo “spirito del tempo”.  Potrebbe darsi che il pensiero della decrescita,  cosi “abitato” da  giovani, uomini e donne,  abbia  già ripreso dentro di sé non solo  la parte propositiva di un mondo del Sud portatore di alternative dalle radici antiche ma anche  il meglio del ripensamento femminista sul patriarcato, sulla cultura occidentale e su quella sua fase di crescita esponenziale che è il capitalismo.
L' alternativa, purtroppo e' la memoria di quanto e' accaduto in tutti i movimenti di liberazione a partire dalla resistenza, dove la condizione femminile e' stata data per risolta dalle condizioni generali e sociali delle classi subalterne, come si diceva allora, dove la liberazione sarebbe comunque garantita e affrontata “dopo”, il giorno “dopo” e questo “dopo” ha significato piu' o meno “sempre” che le donne che magari durante le guerre avevano piu o meno gestito tutte le istituzioni e la societa' e anche combattuto, nei movimenti di liberazione nei paesi come il centro America o l 'Africa, sono state rimandate a casa, o hanno avuto un riconoscimento ridicolo nella o in una rappresentatività politica istituzionale che desse il minimo spazio a dei contenuti pensati, gestiti e formulati in una prospettiva teorica e politica autonoma
Per rispondere alla mia domanda:

  • Ricorderò alcune caratteristiche essenziali di quello che e' stato il movimento femminista transnazionale degli anni ‘70/’90, caratteristiche  che ritengo utili o affini  a movimenti come quello della decrescita;
  • Le inquadrerò  nello scenario attuale, che definisco neo patriarcale;
  • Cercherò di rileggere  alcune parole chiave della decrescita con lo sguardo del femminismo;
  • Proverò ad individuare alcuni punti di intersezione che ritengo  aperti,  su cui appunto  il femminismo mi pare abbia ancora qualcosa da dire a movimenti sociali come quello della decrescita.

L ‘identificazione dello strato patriarcale della cultura e della società
 Ultimo ad emergere, tra quei movimenti che hanno messo in questione tutto il progetto illuministico, il movimento internazionale delle donne è  stato storicamente  quello che, saldandosi agli sguardi provenienti dai margini dell’Occidente che hanno iniziato a sfidarne le cosiddette conquiste e  visioni del mondo, ha interrogato radicalmente le assunzioni che stanno alla base del  nostro mondo, delle sue pratiche intellettuali e istituzionali. Lo ha fatto con una  rottura che è stata insieme un approfondimento rispetto ai movimenti precedenti e una anticipazione di altri movimenti come quelli che vediamo  attualmente nel mondo studentesco e giovanile  internazionale. Si è trattato di  una proposta epistemologica e di contenuti.  Il lavoro di rilettura dei saperi maschili, la de-desensibilizzazione delle loro radici, la critica del loro falso universalismo ha fatto emergere brandelli di altri saperi, di altre logiche,  ha rimesso nel giusto ordine un certo rapporto tra la materialità e le ideologie, ha rimesso il mondo sulle sue gambe, completando il lavoro marxiano, siano queste gambe il “lavoro di produrre gli esseri umani”  o  quello di riprodurne le condizioni di sopravvivenza materiale e di qualità della vita: il lavoro  di garantire il cibo quotidiano attraverso un lavoro agricolo totalmente misconosciuto nei paesi del Sud del mondo, o  quello di vegliare e accudire  tutta quella parte nascosta della vita che ha a che fare con l’ intimità, l’energia emotiva che viene dalle relazioni ma anche  la sofferenza, la vecchiaia, la malattia, la morte.
Pur nella diversità dei contesti, la rivendicazione da parte delle donne del valore di un sapere che ha usato la esperienza dei soggetti, legittimandola come conoscenza rigorosa del mondo, ha prodotto molte conseguenze. Ha significato la scoperta dei saperi del corpo, la legittimazione di collegamenti differenti tra esperienze e pensieri, la decostruzione di paradigmi base di molte discipline, la messa in questione  delle compartimentazioni disciplinari, lo smascheramento di rappresentazioni del mondo totalmente false.  Questi elementi infatti, che  possono parere esclusivi di un approccio tipico delle donne occidentali, sono stati invece “l’anima epistemologica” di tutti i movimenti delle donne, nel Nord e nel Sud del mondo, siano  essi partiti da rivendicazioni economiche o sociali o da rivendicazioni più legate ad uno statuto simbolico. In uno strappo di separazione più o meno radicale e più o meno transitoria dal mondo maschile, necessaria per poter pensare senza condizionamenti, per ritrovare la propria voce, si è svolto un lavoro che ha reso visibile e ha dato parola a ciò che proviene da una esperienza diversa del mondo, l’esperienza delle donne, che per secoli è rimasta nascosta all’interno della cultura maschile. Tematizzando se stesse, le donne hanno fatto emergere il rimosso dalla realtà delle rappresentazioni maschili e nello stesso tempo la struttura materiale e simbolica del patriarcato, struttura totalmente trasversale a tempi e culture,  sottostante fasi delle forme di produzione e riproduzione storiche ben precedenti a quella capitalistica.  Si è così svelato un altro “strato” del “cattivo universalismo” della “tribù occidentale”.
 Il femminismo transnazionale
Quasi incredibilmente  i  contenuti, le  forme di conoscenza e di  organizzazione  di questa rivoluzione culturale ed epistemologica, hanno “viaggiato” nel mondo, pur nell’assenza di  qualunque struttura di potere organizzato, di militanza strutturata e nell’assenza quasi totale di risorse economiche. Si sono estesi per mimesi e contagio fin negli angoli più remoti del pianeta, dimostrando che qualcosa di fondamentale degli assetti dell’esperienza umana era venuto alla luce, capace di parlare pur nella diversità delle forme, a tutte le culture.
Tutto ciò si è reso evidente, internazionalmente, negli anni novanta, in occasione delle Conferenze  ONU sullo Sviluppo Umano. Grazie allo spazio, aperto certo involontariamente, all’incontro tra gruppi che mai avrebbero avuto le risorse per incontrarsi e neppure, allora, la possibilità anche solo di sapere della reciproca esistenza, le Conferenze  ONU sullo Sviluppo Umano degli anni ottanta-novanta hanno favorito la nascita di un movimento internazionale che sopravvive ancora oggi malgrado la sua invisibilità e la sua frammentazione. Le conferenze, ancor più i lavori paralleli nei Forum delle organizzazioni non governative, che per la prima volta hanno letteralmente invaso le conferenze, hanno rappresentato un terreno straordinario di confronto, di scambio e crescita, hanno esplorato gli spazi di ricerca possibile, hanno esteso la  consapevolezza della necessità di una interrogazione più radicale della griglia concettuale del corpus dei saperi occidentali, soprattutto quella dei diritti umani universali. La capacità di dialogo e scambio tra donne diversissime, il coraggio di partire da sé e dalla propria esperienza “contro” ogni paradigma accademico o scientifico o politico, hanno reso possibile non solo il passaggio da una cultura subalterna di resistenza a una cultura autonoma,  la riscoperta  di saperi perduti, ma anche nuove pratiche sociali e politiche e nuove posizioni teoriche: dalla rilettura del valore del lavoro domestico e di cura anche nei contesti produttivi delle economie del Sud del mondo, alla revisione del paradigma dello sviluppo e della crescita illimitata, alla identificazione di quella “economia del dono” dentro cui nuota l’economia di mercato, alle pratiche di democrazia diretta, e tra culture diversissime tra loro. Traversando  infinite differenze culturali, le donne si sono interrogate sulle logiche di sviluppo e  dell’economia, sulla distruttività di una civiltà che tratta il pianeta come un bene illimitato, e ciò ben prima che la crisi di oggi lo mettesse  in evidenza. E’ cosi che un movimento nato nelle cucine è diventato  transnazionale in meno di dieci anni, arrivando  nei posti più incredibilmente  lontani tra loro in tutti i sensi e in tutti gli aspetti. E’ così che ha creato uno sguardo  insieme estremamente locale ma anche “globale”, che ha permesso di dare senso e forza  alle più locali e isolate delle situazioni e delle storie personali. Le metodologie del “partire da sé”, le  contaminazioni tra campi tenuti separati, tra polarità opposte, in primis  tra pubblico  e  privato, hanno permesso di tirare i fili   nascosti tra fenomeni apparentemente lontanissimi,  come tra il militarismo e la violenza privata,  il traffico di donne e i bilanci statali.  Tematizzare il nascosto, il privato coperto dalla popolazione e dai ruoli femminili, ha significato far emergere, nel sociale, il livello del funzionamento patriarcale. Dove gli altri vedevano esclusione, razzismo, capitalismo,  noi ne “illuminavamo” lo strato patriarcale . Molte  delle teorie, oggi quasi correnti,  come quelle legate alla riscoperta delle economie di sussistenza, molto devono ai movimenti delle donne; per non parlare delle pratiche democratiche dei Forum sociali che hanno pescato a piene mani nelle pratiche di democrazia “circolare” delle donne.
Il lavoro delle donne
Le prime analisi sul ruolo delle donne nell'economia, uno dei temi qui più pertinenti,  nascono da quest’incontro tra donne del Nord e del Sud, che ha trasformato delle analisi che sarebbero rimaste rinchiuse nelle accademie in strumenti di lotta culturale e politica. Lo studio comparato del ruolo produttivo delle donne nelle economie delle società  del Nord e del Sud del mondo  ha reso confrontabili a livello internazionale le prestazioni richieste alle donne nel Nord e nel Sud. Mentre in Europa si sviluppava l’analisi del doppio lavoro, la scoperta del lavoro domestico e di riproduzione sociale come un elemento centrale e cancellato da contabilizzare all'interno del PIL, quest’operazione di visibilizzazione del lavoro delle donne ha fatto vedere la sua cancellazione anche quando esso è direttamente produttivo, come lo è nelle economie più legate ad una fase pre-moderna e nelle economie considerate di sussistenza. Questa cancellazione è dovuta puramente alla collocazione sessuale delle donne. Oggi, questo lavoro nascosto e cancellato, sia di riproduzione che di produzione invisibile, che ha iniziato ad essere considerato, e che non esisteva“concettualmente” nella scienza economica, risulta addirittura eccedere quello considerato tradizionalmente produttivo.
Sviluppo: la fine di un’illusione
Un primo risultato immediato e importante è stata la rilettura dei risultati e dei funzionamenti dei progetti di “sviluppo” al Sud del mondo. Si é visto che tutti i progetti, anche quelli che non si rivolgevano alle donne, presupponevano il lavoro delle donne come precondizione, senza vederlo, e che molti progetti, su questa base,  si traducevano in un peggioramento invece che in un miglioramento delle loro condizioni, poiché alteravano inconsapevolmente gli equilibri sociali e della divisione sessuale del lavoro nei villaggi, con effetti disastrosi. Si e' vista la dinamica del dualismo sessuale all’ opera.  Molte volte i fallimenti dei progetti non si capivano perché non si andava a vedere mai quali erano gli equilibri sociali legati alla divisione sessuale del lavoro. Ad esempio  se i progetti erano faticosi e basta, implicavano cioè lavoro gratuito, le donne, in definitiva, erano sovraccaricate di ulteriore lavoro dai progetti; se il progetto  invece implicava l’introduzione di una remunerazione di un certo lavoro, si maschilizzavano: quel poco denaro che il progetto produceva, faceva sì o che certi lavori, fatti in precedenza dalle donne, fossero scippati dagli uomini  oppure, se si trattava di lavori nuovi, semplicemente erano dati agli uomini. Quindi, quando si è cominciato a guardare le parole: “ sviluppo, ” “progetti di "sviluppo, anche nelle cose più “innocenti”, come dotare un villaggio di un ospedale o di un pozzo di acqua potabile, si  è cominciato a vedere un paesaggio sommerso che tiene insieme il tessuto sociale della vita dei villaggi, basato sulla divisione sessuale del lavoro e sull’assunzione che il lavoro produttivo e di cura delle donne sia dono naturale.  Questa focalizzazione dello sguardo cambia totalmente la visuale. Si cominciano a vedere delle cose che prima non si percepivano. Si inizia a vedere  quale “utile” ottundimento dello sguardo sia  la implicazione di  naturalità di ruoli sociali dovuti alla sessuazione del mondo simbolico e del sociale.
La conclusione è riassunta da Vandana Shiva: “Se il decennio si fondava sulla condizione che dall'espansione del processo di sviluppo sarebbe derivato un miglioramento della condizione delle donne, alla fine del decennio si è visto che il problema stava proprio nello sviluppo”.
Tutto questo lavoro ha prodotto un cambiamento radicale dell’approccio iniziale delle donne alle questioni dello sviluppo. Se agli inizi  degli anni 70 si chiedeva inclusione  nelle politiche di sviluppo,  si è poi visto che l'inclusione c'era già nelle politiche di sviluppo, che le donne sono il presupposto occulto su cui “gli aiuti” già contavano. La richiesta delle donne d’inclusione nei “benefici” dello sviluppo si è trasformata dunque in una critica globale della concezione stessa dello sviluppo . Iniziato da volontà di  inclusione e eguaglianza, il femminismo si è trovato a disfare i concetti base del mondo occidentale.
Backlash
Non c'e stato molto tempo per gli approfondimenti. Infatti questo processo di liberazione, appena iniziato, si è scontrato quasi subito con un momento storico che ha ristretto i margini di manovra e ha fatto anche virare in parte le scoperte delle donne contro di loro.
Questo inizio di libertà femminile, di decolonizzazione materiale e simbolica, è coinciso infatti con le misure economiche, attuate prima al Sud del mondo, degli aggiustamenti strutturali, che hanno reso più necessaria ancora la flessibilità femminile, poi con la crescita dei fondamentalismi religiosi, che hanno cercato di “rimettere le donne al loro posto”.  Cosi  ben presto il movimento si è trovato di fronte da un lato al muro dei fondamentalismi, dall ‘altro  al saccheggio dei propri contenuti, al loro uso “ a rovescio” da parte delle istituzioni neo liberali, che hanno usato la scoperta dell’ importanza del lavoro femminile, sia quello produttivo che quello nascosto nel sociale, non per riconoscerlo ma per sfruttarlo al meglio e cioè per risparmiare ulteriormente negli investimenti sociali. (Scriveva un rapporto della Banca Mondiale: “Se educhi un ragazzo avrai un bravo studente, se educhi una ragazza avrai  tutta una famiglia istruita; se curi un ragazzo avrai un ragazzo sano, se curi una ragazza, avrai tutta la famiglia o il villaggio  curati.”   Quindi, concludeva il rapporto,  educare le ragazze è vantaggioso, perché fa risparmiare gli investimenti nei programmi di salute pubblica)
L’ emersione dei  fondamentalismi religiosi, che hanno fatto della guerra alla libertà e all’autodeterminazione femminile uno dei loro cavalli di battaglia, ha reso più evidente la posta in gioco. Non si  trattava soltanto di regressione ma della rivelazione di alcuni dei fondamenti dei sistemi sociali, resi visibili dalla  reazione violenta all’emergere dei comportamenti legittimati dai movimenti delle donne, e questo sia  sul piano delle vite personali che delle posizioni pubbliche.  Le reazioni a quelle che all’inizio erano solo domande di inclusione e che sono pian piano diventate messe in questione radicali di una forma della civilizzazione, hanno rivelato  quanto questo ordine delle cose non voglia essere messo in questione.  Le donne  devono rimanere al loro posto. L’uscita delle donne per iniziativa autonoma e  per  ragioni proprie dal posto che è loro assegnato è percepita come  intollerabile sottrazione: psicologicamente ed economicamente. Un  bisogno enorme  c’è oggi della disponibilità femminile,  di quel lavoro di riproduzione sociale dove la sopravvivenza economica si confonde con quella emotiva. La libertà femminile elimina l’ultima risorsa nei meccanismi classici di ammortizzazione economica, sociale  ed emotiva. Ridisegna i poteri in modo intollerabile, e spesso  anche per gli uomini che si dicono  progressisti. Elimina la  funzione delle donne come parafulmini, assorbitici degli choc economici, emotivi, di ogni ordine. Vi sono infiniti esempi di ciò, totalmente transculturali. Un cordone  ombelicale riunisce il centro  della modernità alla preistoria,  e il riemergere violento di questa preistoria sepolta sotto le fondazioni della civiltà stupisce gli stessi soggetti che questo sommovimento hanno creato. Non eravamo preparate sino in fondo, anche per stupore e incredulità, alla sua faccia violenta, alla sua virulenta misoginia.
E’ in questo contesto che va riletta l’emersione  dei livelli di violenza contro le donne che traversano con cifre paurose i paesi emancipati del Nord Europa  fino all’ultimo “barrio” latinoamericano. E che non possono solo essere imputati all’emersione di qualcosa che prima c’era ma non si vedeva. Qualcosa è cambiato per sempre infatti sulla scena e questo  ha radicalizzato i termini del conflitto prima oscurato  dal  silenzio di una parte. Questo “silenzio” è finito. Ha iniziato a parlare in modo da non poter più essere categorizzato con altri nomi,  né reso invisibile. E tutti, tutti,   abbiamo  sottovalutato il livello di violenza che questo può scatenare negli  equilibri personali, intellettuali  e  sociali. 
Neo patriarcato
Oggi ci si deve confrontare  con uno scenario ancora più complesso, e profondamente, non solo per effetto di quanto sopra descritto ma  perché il quadro è reso più confuso dalla combinazione degli effetti  prodotti da questo movimento e contemporaneamente dalle reazioni ad esso che producono, a loro volta, nuovi aggiustamenti.
Malgrado questa situazione di restrizione di margini infatti  la coscienza delle donne è  indubitabilmente  avanzata comunque.  Qualcosa non torna indietro, al punto che  ci troviamo di fronte a una serie di paradossi che creano una  incredibile varietà di  contraddizioni. Il più importante, per il futuro e per ciò di cui qui parliamo è il fatto che ci troviamo e troveremo sempre più di fronte a settori retrivi  ma lungimiranti che, non potendo reprimere del tutto la libertà  femminile hanno optato per l’ uso  della “carta femminile” proprio per tenerla sotto controllo.  Nello stesso senso va il tentativo di  mettere  il femminismo nello scaffale  delle cose superate e fuori moda:  l’ uguaglianza c’è già.   Quindi: una destra fondamentalista e militarista fa suo un modello “para femminista”, riveduto e corretto. Una destra neo liberale liquida il femminismo mentre usa e abusa a piene mani della risorsa femminile, aumenta la povertà  delle donne con le politiche di “risanamento di bilanci” che hanno toccato anche il Nord del mondo.
 In questa ristrutturazione di campi, pubblico e privato, forse  la più importante delle dicotomie del dualismo sessuale, si ridispongono altrimenti. Siamo di fronte  oggi alla femminilizzazione dello spazio pubblico. E’ degli anni ottanta un rapporto della Banca Mondiale sul valore aggiunto della presenza femminile nei governi in quanto a lotta alla corruzione. E’ di ora, al di là della sua effettiva pratica, perfino  in Italia, l’entusiasmo per il valore aggiunto delle qualità femminili nelle gestioni delle aziende.
E qui si situa l’intersezione attuale con il pensiero della decrescita: in quella  femminilizzazione dello spazio pubblico che sembra infine accogliere i valori femminili come positivi e rinnovanti la società, come essenziali al buon funzionamento delle istituzioni, dei governi, delle aziende, dei movimenti sociali. Si situa nelle capacità e nelle forme di gestione alternative di questi spazi.
Mi pare evidente che il  movimento  della decrescita è intriso della valorizzazione delle caratteristiche  femminili. Tutte le sue parole chiave chiamano ad una società, ad un immaginario  opposto a quello della crescita, le cui caratteristiche rimandano tutte ai valori di  una società maschile, guerriera ed iperproduttiva.  Inoltre il movimento della decrescita è popolato da donne che praticano, penso con gioia, molte delle pratiche di democrazia diretta, di inversione delle priorità nel vivere, di economia delle relazioni.  Alcune delle caratteristiche del femminile storico trovano finalmente spazio e valorizzazione. Non mi pare ci siano rivendicazioni né conflitti particolari  né richiesta di tematizzazione di “patriarcati interni” come era sia nei forum sociali sia nei movimenti politici classici.

Intersezioni possibili

Ed è qui che vedo delle intersezioni possibili , criticamente e positivamente.
 
Nel mondo ideale evocato dall” economia della felicità”, da questa utopia alternativa, almeno sul piano dell ‘immaginario, inquieta un po’ l’assenza di uno sguardo storico-sospettoso sul passato che non tenga insieme il ricordo di come le  migliori utopie possano trasformarsi nei peggiori incubi.
E non solo perche’ banalmente la storia insegna alcune  utopie trasformarsi in incubi e probabilmente tanto più quanto più nate come “promessa del bene” o affidanti l’ avvento del bene ad una specie di “alternativa assoluta al male”, ma perché, meno generalmente,  il pensiero delle donne ha esteso lo sguardo a elementi sommersi, invisibili della società, rubricati nel privato, nascosti dentro le case e le famiglie, elementi  che hanno dovuto cambiare o dovrebbero cambiare  non solo paradigmi del diritto, dell ‘economia, della ricerca scientifica e disciplinare in vari ambiti   ma anche definizioni di eventi storici.  Solo per dare un esempio particolarmente forte:  la definizione di “guerra”. Devo questa rimessa in discussione ad alcune donne bosniache che descrivevano il loro cambiamento di percezione di pace e guerra dopo la fine della guerra nella ex Jugoslavia. Le donne che, durante la guerra, avevano occupato posizioni chiave nella società e mandato avanti istituzioni a tutti i livelli, mentre gli uomini combattevano, sono state rimandate tutte a casa, dove si sono trovate a dover sopportare le frustrazioni della transizione, i traumi della guerra civile precedente, la riproduzione del vivere di uomini traumatizzati, possessivi, fuori controllo : ”un’altra guerra, ha detto una di loro. Allora dove è la pace oggi per noi, dove la guerra? “

Mi pare che anche alcune delle parole chiave della decrescita non possano esimersi dal testare il loro valore e la loro estensione o la loro non neutralità con questo metodo.

E’ con questo metodo in testa che voglio prendere alcune delle parole chiave della  decrescita il cui denominatore comune è quello di immaginare il vivere, l’organizzazione sociale secondo priorità invertite rispetto all’ economicismo di una società basata sulla crescita.

Tra le parole chiave della decrescita sono cruciali :

  • la comunita'
  • i beni comuni
  • la  necessità di decolonizzazione dell’ immaginario
  • il lavoro non produttivo, di cura etc. versus l’ossessione produttiva
  • le relazioni umane versus  il lavoro, etc.

Mi inquieta la  nominazione di questi spazi  di buon vivere, armonizzati e unitari, dove non poteri e non conflitti sono troppo considerati come  garantiti  dai paradigmi, ancora  neutri, della decrescita.   

Come si fa a parlare di beni comuni senza citare esplicitamente quel bene comune che è il complesso delle cure riproduttive a tutti i livelli che si svolgono tra esseri umani?

Come si fa a non chiedere quale è davvero la posizione delle donne come singole individue nelle società comunitarie o anche matriarcali cui oggi spesso si fa riferimento?

Nel femminismo italiano si sta discutendo oggi su una distinzione tra “cura” e “lavoro” di cura. Non è qui possibile approfondirla. Ma  come si fa a dimenticare che la cura significa anche la cura di sofferenze che sembrano non finire mai, stanchezze infinite, esaurimenti delle energie vitali, e che su questi aspetti del vivere  si sono costruiti diritti e doveri, privilegi e poteri, conflitti e violenze.  Non si può non parlare o non riattraversare anche le parti oscure di questi aspetti relazionali degli umani.

Mi domando  se, per non solo ripensare ma rendere anche operativi tutti questi spostamenti dal lato della polarità anti-homo economicus,  non siano necessari  riattraversamenti e ripensamenti più complessi. Come si decostruisce non un singolo elemento della polarità ma la polarità stessa che oppone e mette a complemento le caratteristiche umane secondo strutture sessuate? Invertire o inglobare la polarità a rovescio non basta. Decolonizzare l ‘immaginario non è cosa semplice. E l’immaginario di chi ha un potere comunque da perdere è infinitamente astuto, come lo sono i desideri di sopravvivenza, le razionalizzazioni che lo alimentano. Poiché ogni singolo sessuato è in qualche modo, nel suo equilibrio,  ancora fondato sulla dicotomia ancora presente nelle identità sessuali. In questo sistema di dominio cosi  naturalizzato, anche  chi si sente vittima ha sviluppato tecniche di inganno, controrisposte, una cultura subalterna non cosi’ impotente, che per “tirare avanti” senza perdere il rispetto di sé, ha elaborato contropoteri e onnipotenze immaginarie.  Le polarità opposte e complementari che stanno alla base delle identità e delle polarizzazioni simboliche e materiali nel sociale, quando vengono decostruite, sovvertono equilibri di sopravivenza personali, economici e sociali. Il problema del patriarcato e' che esso agisce, come scrive Bourdieu, a livello delle strutture inconsce sia per chi esercita che per chi ne patisce il dominio:  “Je pense que la domination masculine est une forme très particulière de domination,    qui doit sa force au fait qu’elle est invisible et qu’elle passe inaperçue, même, et peut-être surtout, à ceux qui la subissent,( ...) quelque chose qui est profondément inconscient, pourrait-on dire, dans la mesure où il est incorporé. Je veux parler du rapport de domination qui existe entre les sexes, et qui est incorporé à la fois chez les hommes et chez les femmes, sous forme de manières de se tenir, de manières de s’asseoir, de manières de parler, et plus généralement de structures de perception, d’appréciation qui organisent tout ce que nous voyons. Lorsqu’on veut faire comprendre un petit peu ce que c’est que la philosophie de Kant, les catégories de l’entendement, les formes de la sensibilité, notions qui sont apparemment très compliquées, on a coutume de recourir à la métaphore des lunettes et on dit : « Ces structures sont comme des lunettes à travers lesquelles nous percevons le monde, ou plus exactement nous construisons le monde perçu. » Et je pense que nous avons dans le cerveau des structures de ce type”, scrive Bourdieu.

Quindi nelle relazioni, “buone vite”, etc. come si fa a non tematizzare anche ad esempio le transizioni, o la questione  di quell’assetto delle pulsioni desideri etc . che è la famiglia, nido d’amore e luogo di violenza estrema. In questo contesto mi sembra  estremamente importante il lavoro di quegli uomini  che si occupano della  decostruzione della mascolinità. Purtroppo già essa è parzialmente decostruita  e di questa decostruzione non guidata  stiamo vedendo alcuni dei risultati più violenti, e proprio nella misura in cui è cosi difficile  tematizzare esplicitamente e simbolizzare  le perdite di potere che vi sono implicate.

In questo senso e in questa prospettiva non riesco a trattenermi dal citare senza poter entrare nel merito, uno dei temi su cui anche nel femminismo si è cosi faticato a confrontarsi.
La metafora del materno, associata alla natura  è un ‘altra delle parole chiave della decrescita.
Nella decostruzione di femminilità e mascolinità questo sarà un nodo cruciale, come lo è per  l‘immaginario della decrescita. Qui voglio solo segnalarne l ‘importanza, la pregnanza, la difficoltà. Il materno è,  insieme alla sessualità, il solo “luogo”  immaginario di contro potere femminile. Tutto da discutere. Anche questa metafora e il suo uso in associazione con la natura necessita di uno sguardo complesso.  Forse oggi che la maternità è una libera scelta almeno per molte o lo può sempre più divenire, oggi che i doni possono essere “liberi doni” e non “doni forzati” dalla propria biologia, possiamo immaginare una relazione con la biologia e anche con la natura più libera da proiezioni antropomorfiche.

A questo punto mi domando di nuovo cosa significa davvero “l’invisibilità” anche solo delle tematiche di genere di cui parlavo all ‘inizio nell’immaginario attuale della decrescita.  Come è possibile descrivere sia  la società della crescita che quella possibile della decrescita  senza mai nominare il patriarcato, sia come colonizzazione dell’ immaginario che come forza agente in cui tutti viviamo, che tutti agiamo o subiamo, uomini e donne.

Mi domando anche se  in questa nuova fase neopatriarcale dove i ruoli sono più confusi, in questo  universo più femminile,  la cancellazione della materialità del lavoro delle donne  non avvenga oggi non per uso e sottomissione ma piuttosto per osmosi, non vedendo il conflitto, attraverso la  costruzione di una figura androgina dove il dualismo che invisibilizzava il contributo femminile dentro il maschile diviene  gemellarità.  Come si sistemano  le disparità di poteri, le gerarchie,   le materialità dei lavori ingrati ?

Mi domando perché in questo convegno è stato cosi difficile dare pari rappresentatività a questo mondo di donne che lo popolano, lo  amano, ci lavorano dentro, nella sua varietà. Perché questo tema sia affidato alla fine alla fortunata testardaggine di “uno” dei promotori.
 
Insomma “la “ decrescita  può essere astratta dalla materialità e dalla identità sessuate dei soggetti che la agiscono o la sognano e desiderano?
 
Forse,  al di là della rivendicazione di  presenze e rappresentatività, di riconoscimenti di invenzioni,   l’ intersezione più utile è  proprio la capacità di mantenere “estrema  vigilanza” oggi sulle modalità concrete di ’ avvento dei nuovi paradigmi, e sul come avviene la trasformazione di questa economia sessuale della crescita in quella della decrescita, sia nell ‘immaginario, che nelle teorie, che nelle forme di partecipazione al suo interno, in termini di modalità, contenuti, proposte, formazione di un immaginario anche linguistico e terminologico, che non può ri-neutralizzarsi, se pure con buone intenzioni.
Vigilanza sui poteri,  sulle  decolonizzazioni apparenti e reali, sulle ripetizioni  che non si vedono a occhio nudo, su come si ridisegnano i poteri, quelli evidenti e quelli più occulti.
Alla fine del suo testo sul “dominio maschile”  Bourdieu  si domanda come sia possibile che questo dominio inscritto tanto nelle istituzioni sociali quanto nell’oscurità dei corpi, che vede l’autonomia delle strutture sessuali  dalle strutture economiche, dei modi di produzione da quelli di riproduzione, che traversa secoli e società lontanissime,  si sia eternizzato e naturalizzato così tenacemente, al punto che  spesso i cambiamenti che sembrano evidenti celano invece  sue invisibili forme di permanenza. 

Il femminismo forse può assicurare questa sorveglianza,  che è sicuramente anche nelle intenzioni della decrescita.

Se facciamo questo lavoro forse alcune questioni muteranno di senso e o di estensione , ci obbligheranno a discutere e confliggere , ci faranno uscire da armonie ritrovate troppo velocemente.

Cinthia Enloe, una femminista americana che ha studiato insieme i campi più lontani  tra loro come il militarismo e gli assetti sessuali  consiglia di andare sempre a vedere dove sono e cosa fanno e che spazi occupano le donne prima e dopo le rivoluzioni, i grandi cambiamenti, le grandi svolte, i successi.  Da queste collocazioni, secondo lei,  si capisce cosa è cambiato davvero.

Decolonizzare l ‘immaginario è una autocoscienza per tutti mai finita, una interrogazione impietosa e anche sospettosa dei propri sogni, utopie, desideri. 

Bibliografia

Bourdieu, P. (1999). La domination masculine. Paris: Seuil.

Pierre Bourdieu, « À propos de La Domination masculine », revue Agone, 28 | 2003, [En ligne], mis en ligne le 16 avril 2005. URL : http://revueagone.revues.org/397. Consulté le 24 août 2012. DOI : 10.4000/revueagone.397
Enloe, C.(2004). The Curious Feminist.. Ca.: University of California Press.
Genovese, A. (1997). La tribu' occidentale. Milano: Adelphi.
Shiva,V. (1990). Terra madre. Sopravvivere allo Sviluppo. ISED

 

 

 

 

 

 

 

2-10-2012