A proposito del film

Quando la notte

Paola Melchiori

Non ho visto il film di Cristina Comencini ma i fischi a Venezia mi hanno impensierito per come me li hanno raccontati: insopportabilità di vedere da vicino sentimenti di tutti messi di fronte a tutti….
Comunque, quello che mi colpisce è la difficoltà a riconoscere semplicemente quello che è: quando la vicinanza si fa troppo stretta, si accompagnano la gioia di questa vicinanza e una certa angoscia di essa.

E’ cosi difficile guardare a quello che si cela dentro i rapporti più stretti e, in forma più estrema, data la disparità di potere, dentro la maternità ?
Nella società americana, dove mi trovo ora, si parla di abuso più che di violenza, che è piuttosto una sottospecie di quel capitolo estremamente più ampio che comprende tutte le forme di invasività psichica dell'altro, e forse in questa sua ipercomprensività, apre proprio alla complessità dei rapporti primari.
Ricordo troppo bene le mie esplosioni di madre, da me percepite comunque come violente, perché rompevano quel filo di comprensione, accettazione, me ne è rimasta una specie di angoscia colpevole non rispetto a un dovere materno ma di fronte al non sapermi trattenere di fronte all’ inermità, all’assenza di difesa di un bambino. Le ricordo bene, non mi stupisco di averle avute, me ne dispiace ancora oggi. Erano dovute a un senso di impotenza, di inadeguatezza, al senso di non farcela, e non tanto per la fatica. Era trovarsi di fronte a un bisogno troppo grande, al desiderio e impossibilità di rispondervi, al fatto che questo bisogno assoluto venisse da un essere cosi inerme da provocare una specie di disperazione di fronte a questa stessa totale assenza di difesa.

Ed accadeva quando il mio, di bisogno, in momenti di difficoltà, era, a specchio, altrettanto, troppo forte. Un bambino è anche ( sempre?) un’estensione di sè.

Per vederlo come altro, l’individuo che sarà, ci vuole un lavoro psichico.

Mi pare che in ogni maternità vi sia una parte speculare: nel desiderio di maternità c’è anche un desiderio di maternage per sé, il prendersi cura è reciproco, il bambino anche con la sua presenza, il suo esserci, si prende cura della madre.

E così, quando il suo comportamento diventa conflittuale con i propri bisogni, troppo distante da essi, quando anch’esso chiede, e magari non è chiaro cosa, si rompe questo incanto e l’ alterità fa capolino.

L’alterità incrina la fusione e pone le sue domande. Saperlo aiuta, magari non a trattenere il proprio “urlo,” ma a ripararlo. Il concetto di madre “sufficientemente buona” mi è sempre sembrato cosi consolante e pertinente, poiché accoglie entrambe le due parti, rispetta l’ambivalenza, le lascia uno spazio, la rende non distruttiva. Certo, la presenza contenitiva di un terzo aiuta, fa defluire altrove, contiene questo doppio bisogno. Mi pare però che il problema sia riconoscere per ognuno dentro di sé questa doppio desiderio di vicinanza e libertà, che nella maternità prende una forma quasi estrema, e il prezzo da pagare, in limitazioni, di ogni rapporto tanto più richiedente quanto più vicino e nutritivo.

Prima se ne parla, appena possono capire, coi figli, meglio è. Anche loro lo vivono, e con quello che vedono comunque alle varie tv, proibire proprio questa occasione di parlarne non è semplicemente ridicolo?

intervento al Blog 27esima ora

6-11-2011

 

home