Cooperazione e ”reti” autonome:
noi femministe ripensiamole

di Paola Melchiori

 

Reti delle donne a Nord e a Sud e tra Nord e Sud del mondo e cooperazione internazionale: due aree di lavoro che si sono ispirate reciprocamente ma hanno spesso proceduto in parallelo e si sono incrociate insieme molto faticosamente.

Per parlarne non è possibile non tornare a quel periodo che accompagna la fine della decade delle Nazioni Unite dedicata alle donne e la preparazione delle Conferenze Onu sullo Sviluppo umano degli anni ’90, conclusosi con la Conferenza di Pechino.

Le conferenze sono stati i laboratori dove sono emerse varietà e forza dei diversi gruppi esistenti nel Nord ma soprattutto nel Sud del mondo. Hanno dato visibilità e estensione a relazioni e reti autonome, come quelle delle Donne in Nero, ad esempio, e ne hanno fatte nascere ad hoc altre: Dawn, (Development Alternative for a New Era), Awid (Association of Women in Development ), Wedo (Women Environment Development Organization), Wide (Women in Development Europe,) Whrr (Women’s Association for Reproductive Rights) per citare soltanto alcune tra le più importanti e tuttora attive, tutte nate tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, da attiviste, accademiche, professioniste che si sono unite attorno a un tema e a obbiettivi specifici delle Conferenze (rapporto tra sviluppo sociale ed economico, ambiente, diritti relativi alla salute riproduttiva eccetera), o regionalmente, o per area professionale o disciplinare, come le reti legate a vari settori del mondo accademico. Al loro interno si sono formate attraverso il lavoro di analisi, lobby e advocacy, migliaia di donne che a loro volta hanno creato altre reti.

Ne sono emerse analisi che hanno spostato la visione dello sviluppo, si sono creati rapporti e confronti duraturi tra donne del Nord e del Sud, si sono ridefiniti obbiettivi e priorità nei contenuti da affrontare a livello istituzionale, nazionale e di agenzie internazionali a partire da prospettive autonome, si sono messi in comunicazione i pensieri e le pratiche politiche di gruppi di donne che mai avrebbero potuto sostenere economicamente ed autonomamente un networking che è durato un intensissimo decennio.

E’ in questo contesto che hanno preso valore e visibilità politica le analisi che negli anni precedenti singole donne avevano iniziato sugli effetti perversi dei progetti di sviluppo riletti a partire dagli effetti sulla popolazione femminile.

Questi permettevano di svelare i disequilibri che spesso gli interventi di cooperazione creano nei rapporti sociali tra i sessi, nei tessuti sociali dei contesti locali, quegli effetti che solo occhi interni ai luoghi di una società e di una cultura riescono a vedere nel tempo.

Malgrado sostanzialmente soltanto la cooperazione dei paesi scandinavi e quella canadese abbiano raggiunto la sistematicità e la continuità non solo di progetti ma di veri e propri programmi, nelle varie versioni che si sono sviluppate nel tempo, con l’accento via via sulle donne, poi sugli equilibri di genere, poi sul “mainstreaming del genere”, in realtà sono state spesso la presenza e la circolazione di una generazione di femministe negli organismi di cooperazione, a vari livelli decisionali, sia nelle agenzie governative che in quelle non governative a garantire la circolazione di una prospettiva che “apriva gli occhi” ai contenuti proposti dalle donne, riusciva a finanziare alcuni progetti specifici che si muovevano verso un modello di partnership meno intriso di colonialismo culturale.

L’organizzazione stessa della cooperazione rendeva difficile che si incontrassero davvero i gruppi autonomi delle donne e delle femministe e gli interventi di cooperazione. E, anche quando ciò avveniva, la pesantezza della burocrazia, le infinite tipologie di condizioni per l’erogazione di fondi, i loro tempi e la non flessibilità nelle modalità di erogazione e trasferimento hanno sempre reso difficile mettere la cooperazione al servizio vuoi dei gruppi di base che facevano davvero un lavoro diverso, o della promozione di nuovi gruppi.

Queste, a mia conoscenza, salvo poche eccezioni, che in Italia riguardano il lavoro di singole persone o singoli interventi spesso nella cooperazione decentrata, rimangono questioni croniche mai risolte, sempre denunciate soprattutto dai gruppi più autonomi e radicali di donne, per definizione più esclusi dai finanziamenti.

A queste difficoltà si possono aggiungere, per la qualità degli interventi, due questioni fondamentali, parimenti critiche, che percorrono implicitamente l’impianto stesso degli interventi di cooperazione: da un lato quella della gestione mai esplicita delle disuguaglianze nei saperi e poteri legati ai ruoli giocati da esperti, cooperanti e personale locale nei progetti, alla relativa gestione del denaro nelle relazioni tra donne. Dall’altro la difficoltà di vedere come anche l’intervento più tecnico nasconda una certa visione dello sviluppo piena di conseguenze sia nella gestione che negli effetti dei progetti.

Tutti questi elementi che sono ciò che i movimenti hanno richiesto o semplicemente esplicitato dentro o durante gli interventi di cooperazione, quando li incrociavano direttamente o indirettamente, non sono mutati molto.

Sostanzialmente con molta difficoltà e fatica le reti più politiche, critiche e “pensanti” del Sud hanno incrociato e usufruito della cooperazione e spesso ne hanno dovuto fare a meno per non dover perdere troppo tempo o dover adattare troppo i progetti e le attività alle “linee guida” delle varie agenzie.

Nel frattempo tuttavia la fine delle Conferenze ha significato per le reti di donne anche la fine dell’uso dello spazio e delle risorse delle Nazioni Unite: si è così aperta per loro un tempo e una prova di autonomia, organizzativa, finanziaria, nella identificazione delle priorità e delle modalità di lavoro.

L’estendersi e l’intensificarsi delle politiche neoliberali praticamente senza ostacoli, la crescita dei fondamentalismi, l’invasione di campo e la formazione delle Ong fondamentaliste trasformano le conferenze di valutazione quinquennali e decennali in eventi formali, vuoti e tristissimi a cui le reti di donne partecipano sostanzialmente per non permettere troppi passi indietro nelle conquiste minime.

Mentre le Nazioni Unite si muovono verso gli Obbiettivi del Millennio, intrisi anch’essi di prospettive neoliberali, assistiamo a un insieme di fenomeni anche internamente contradditori. Le associazioni di donne, formali e informali, si estendono a livello di base, tuttavia la necessità di sopravvivere e accedere ai fondi comporta una “ongizzazione” dei movimenti, una frammentazione, una attenuazione di una prospettiva politica globale, una perdita di autonomia che si riflette nel lavoro internazionale.

Mentre è sempre più chiara la necessità di una prospettiva globale capace di legare insieme l’analisi del patriarcato con i mutamenti geopolitici ed economici, le reti si devono specializzare. Alcune hanno dovuto specializzarsi nel seguire le politiche delle grandi agenzie, nelle reti professionali come in quelle accademiche vi è tensione tra il desiderio di tenere una prospettiva complessiva che contenga e dia senso alle prospettive disciplinari.

Si è consumata la grande delusione del Social Forum: il luogo dove si pensava sarebbe stato possibile elaborare una prospettiva comune con il genere maschile che comprendesse anche le “questioni di genere” non concepite come effetti su un popolo di vittime ma come soggetti autonomi di analisi dello stato delle cose a partire dalla loro collocazione e punto di vista si è rivelato tra i più inospitali, per usare un eufemismo.

E’ chiaro che c’è bisogno di uno spazio dove poter valutare i cambiamenti avvenuti, vedere cosa è stato ottenuto e cosa nei differenti contesti, quali strategie abbiano ottenuto qualcosa, e perché, uno spazio dove poter ricreare lo scambio tra prospettive diverse sotto un esplicito punto di vista femminista dove agende e priorità siano stabilite in rapporto a questo sguardo e non dalle agende delle agenzie internazionali o dai quadri disciplinari, dove ci sia uno spazio per rendere articolabili e visibili anche a se stesse quel cambio di paradigmi che comunque tra difficoltà , conflitti, differenze, è iniziato e proceduto in pratiche sempre più invisibili le une alle altre, sui conflitti, sulla sopravvivenza economica e lo sviluppo, sull’uso dei beni comuni.

La cooperazione, oggi, per non essere solo risposta alle emergenze, dovrebbe e forse potrebbe anch’essa pensarsi come uno spazio dove rispondere a queste domande e a queste necessità.

 

Questo articolo è apparso su Liberazione dell' 8 dicembre 2006