Sull’aborto ascoltiamo cosa hanno da dirci le donne immigrate

di Letizia Parolari


Ore 9 della mattina in uno dei tanti ambulatori ospedalieri italiani dove si effettuano le prenotazioni per gli interventi di interruzione della gravidanza. L’ostetrica si affaccia alla porta: un gruppetto di donne di tutte le età, ma soprattutto una babele di lingue la stringe d’assedio e dietro a quei visi e a quei fogli che le donne stringono tra le mani ci sono storie che le parole quasi mai riescono ad esprimere.

La relazione annuale del ministro della Salute sull’applicazione della legge 194/78 è un documento che conferma un dato ormai chiaro: "…l’aumento nel tempo delle Ivg effettuate da donne straniere maschera la continua riduzione del fenomeno tra le donne italiane. Infatti, considerando solamente le Ivg effettuate da cittadine italiane si osserva una diminuzione da 124mila 446 nel 1998 a 97mila 755 nel 2003…; il numero di Ivg effettuate da donne straniere corrisponde al 25.9% del dato nazionale e, soprattutto in alcune regioni, può far risultare un maggior ricorso all’Ivg dovuto alla più alta presenza di immigrate in tali territori. Ad esempio in Piemonte, Lombardia, Bolzano, Friuli Venezia Giulia, Veneto, Liguria, Emilia Romagna, Toscana, Umbria, Marche e Lazio la percentuale di Ivg riguardanti donne con cittadinanza straniera supera il 25%, sfiorando o superando in molti casi il 30%".


Proprio in questi giorni l’Istituto Superiore di Sanità ha presentato uno studio multicentrico sull’Ivg delle donne straniere che si è svolto in alcune realtà del nostro Paese e che approfondisce anche gli aspetti qualitativi del fenomeno permettendo a quelle parole e a quelle storie di farsi ascoltare.
Ascolto, comprensione ed un’assistenza più efficace da alcuni anni possono essere messi in atto anche molte operatrici del settore - ginecologhe, ostetriche, infermiere e psicologhe - grazie alle mediatrici linguistico culturali che lavorano nelle strutture pubbliche, e del privato sociale a cui si rivolgono le donne e le famiglie immigrate e dove questa figura è stata inserita con progetti ad hoc.


Ruth avvocata di Santo Domingo sposata ad un italiano, Joceline maestra elementare nelle Filippine, Zenaib studentessa marocchina di letteratura sono state le prime donne che ho conosciuto nel 1996 come “tutor” in un corso di formazione per mediatrici culturale nel settore materno infantile e molte altre in seguito a Milano e in giro per l’Italia. Grazie a loro ho imparato a conoscere da vicino la vita, i pensieri, i desideri e le difficoltà delle donne che vengono in Italia da molti Paesi e con progetti ognuna diverso.


Alcune hanno continuato in questa strada, altre nel tempo l’ha abbandonata perché fare la mediatrice linguistico-culturale è un lavoro bello e gratificante, ma difficile, scarsamente remunerato e legato a progetti che vengono finanziati con molta difficoltà. Non tutte le Regioni hanno riconosciuto il mediatore culturale come profilo professionale e questo spinge queste donne, con rincrescimento, ad interrompere questa attività perché non dà garanzie economiche a confronto con altri lavori, seppur di meno valore, tradizionalmente assegnati alle donne immigrate.


Il primo ed importante percorso di mediazione culturale è stato quello che abbiamo fatto lavorando insieme noi, operatrici dei servizi, donne italiane che affrontiamo con uno sguardo occidentale ed eurocentrico i problemi della maternità, del rapporto uomo-donna e dell’identità femminile, insieme a loro, le mediatrici, che sono lì per aiutarci ad interagire con le persone immigrate rendendo più accessibili i servizi, ma a loro volta sono portatrici di uno sguardo diverso, di una femminilità che ha seguito strade diverse dalle nostre.


Ci siamo conosciute e ri-conosciute come donne, abbiamo discusso, abbiamo avuto la possibilità di confrontare i nostri modelli di riferimento partendo da punti di vista a volte molto lontani e apparentemente inconciliabili. Poi il processo di mediazione si è esteso alle altre donne con le quali siamo riuscite ad avere un contatto più diretto e intimo, a stabilire una relazione e che, grazie alle mediatrici, hanno potuto uscire dall’anonimato, dalla categoria “immigrata”, “ cinese”, “ albanese”, “ o “terrorista” come mi ha detto ieri una donna egiziana che porta il velo integrale.


Per noi, donne italiane, ha voluto dire sforzarci di riconoscere nelle donne migranti una soggettività femminile altra, a volte portatrice di bisogni e con caratteristiche che pensiamo non ci appartengano più, a volte invece ricca di risorse e di visioni che sarebbe utile integrare nella nostra quotidianità. Oggi, di fronte ai dati sull’abortività volontaria delle donne immigrate e ripensando al referendum sulla legge 40 della riproduzione assistita, dobbiamo ancor di più cercare una strada da percorrere insieme, ascoltarci le une con le altre, ma anche prendere la parola come donne e farci ascoltare dal mondo maschile.


Come ha scritto Mercedes Frias dell’associazione interculturale toscana Punto di partenza: "L’assenza di riconoscimento dei diritti delle donne immigrate può dunque essere un riflesso della vulnerabilità degli spazi recuperati dalle donne italiane, attraverso lunghe battaglie per i diritti nelle diverse sfere della vita sociale, economica, individuale e culturale. Conquiste sostanziali a volte rimaste sulla carta, non trasformate in un agire coerente, ma comunque espressione del riconoscimento della soggettività femminile".

 questo articolo è apparso su Liberazione del 18 dicembre 2005