Partire dal corpo
lettura di Barbara Mapelli


Ho iniziato a leggere questo libro inseguendo un mio pensiero, nulla di originale né nuovo: un problema che ci siamo poste e posti in molte e molti, a cui sono state date risposte – anch’io me le sono date – risposte che però credo si debba continuare ad approfondire. L’uso dei corpi femminili – esposti si usa dire – nei media e nella pubblicità e la mimesi di questa esposizione che quotidianamente osserviamo tra le giovani, non solo giovani, donne. Non tutte fortunatamente.

A questo fenomeno fa riscontro, un riscontro apparentemente oppositivo, la nuova retorica sulla maternità, per cui si ripropone nel contemporaneo, con rinnovata insistenza la tradizionale dicotomia tra corpi femminili che generano e corpi ‘oggetto’ (Lea intr.).

Un nuovo e potente immaginario sociale che incensa le madri e, come scrive Raffella Radi in questo libro, una mistificazione della maternità che fa soffrire le donne e impedisce loro di appropriarsi in modo personale e creativo del proprio essere madre (p.295). E di contro un pensiero femminista che ha elaborato un grande lavoro teorico sul ‘simbolico materno’, in cui le donne non riescono a ritrovare la propria esperienza reale, carnale, quotidiana dell’essere madri. Un pensiero che lascia molte donne in solitudine. Come se al fondo della pratica politica fra donne ci sia un equivoco su questo tema della maternità, un’ambiguità, molte cose non dette (p. 294). Nel primo caso una retorica che elide la donna, dandole valore sociale soprattutto se madre e nel secondo una riflessività che non tiene conto delle singole donne, delle maternità vissute.

L’alternativa a questa sacralità del corpo materno è il corpo femminile commercializzato –  un pericolo che ora comincia ad insidiare anche i corpi maschili, esposti con i loro muscoli inutili o rappresentati in immagini patinate dei gesti teneri delle nuove paternità (e con meno muscoli, naturalmente).

Mentre leggo questo libro sono dunque alla ricerca di ulteriori elementi interpretativi che rendano più chiari i motivi che esasperano di nuovo questa dicotomia, per quanto riguarda le donne antica come il mondo, mentre novità di tutt’altro segno si presentano sulla scena delle vicende tra i sessi.

Lo sappiamo, questa presunta oppositività tra nuovo e antico che si ripropone nella contemporaneità,  appena la si scrosti delle prime apparenze, mostra immediatamente il profondo legame tra immagini di una nuova ricerca dell’essere nuove donne e nuovi uomini e i vincoli, ancora vitali, dettati dalle norme sessuali. In realtà la paura della prima alimenta la seconda e d’altronde i cambiamenti epocali che il femminismo della seconda metà del Novecento ha avviato sono ancora troppo recenti per erodere a fondo culture secolari che hanno regolato le relazioni tra i due sessi. Con alcune ambiguità, inoltre, come accennavo, e molti non detti all’interno della stessa pratica riflessiva delle donne.

Su questi temi ritengo necessario mantenere aperta l’attenzione e la riflessione per non attutirne od opacizzarne la complessità e il continuo divenire che ripropone sempre nuove domande.

I motivi del rinnovarsi di questa potente dicotomia sono un quesito centrale alle nostre vite e nei nostri pensieri che pone in evidenza, come altri temi non riescono a fare, gli intrecci che abbiamo affrontato e ancora dobbiamo affrontare, tra corpi e culture normative di genere, sguardi maschili e parole di donne, corpi e politica, scienza, nuove tecnologie, comunicazione. Con la necessità – ora – di intrecciare tutto ciò con il tema dei corpi maschili, che vivono anch’essi, già vi accennavo, condizioni espositive e normative, anche se meno clamorose di quelle femminili. E’ proprio nel mantenere vitali le separazioni e gli immaginari oppositivi – e questo vale per donne e uomini – che continua a rendere potenti le norme di genere.

In questo libro allora, che propone naturalmente anche altro, sono andata inseguendo questo filo di pensiero e vi ho trovato, in moltissimi contributi se non tutti, la possibilità di ampliarlo, di aggiungervi alcuni di quegli elementi interpretativi che andavo cercando. Ne parlo quindi un po’ disordinatamente così come si è  mossa la mia lettura, senza seguire l’ordine degli scritti.

Le riflessioni maschili, ad esempio, e faccio riferimento a quanto scrive Stefano Ciccone, la necessità di reinventare il corpo maschile, ovvero di pensare  se nel corpo maschile ci sia una risorsa di cura, una risorsa di relazione (…) una potenzialità di piacere più ampia rispetto a quello che mi è stato raccontato. Le domande che Stefano si pone: è possibile liberare dalla simbologia fallica l’uso e la percezione del nostro corpo?(…) la rappresentazione riduttiva della virilità, un modello (in cui) la prestazione diviene più importante del piacere? Un percorso che racconta la parzialità della nostra storia (…) la parzialità irriducibile delle nostre esperienze umane maschili e femminili (pp. 263,4,5).

Queste riflessioni mi ripropongono la necessità, anche drammatica, di continuare a interrogare il mio stesso sesso e la mia stessa storia, per chiedermi fino a che punto noi abbiamo pensato e stiamo tuttora pensando alle nostre complicità rispetto a questo spazio ridotto e assegnato dagli uomini alle donne. Esso appartiene a una storia che conosciamo bene e che abbiamo più volte analizzato, ma che nel contemporaneo ulteriormente si complica. Piccole donne che crescono nella cura esclusiva di donne, nell’assenza maschile, giovani, giovanissime donne che precocemente desiderano trasformarsi in oggetti. Non basta parlare di sguardo maschile, di potere degli uomini, ricordiamo come questo luogo, che riconosciamo come assegnato da altri – ed è il luogo della dicotomia di cui si parlava in precedenza – si apre per noi, ancora, come un rifugio, una fuga dalle responsabilità, dalle difficoltà di essere veramente ‘donne nuove’.

La dicotomia si presenta fin dall’inizio, donne che si prendono cura, un materno dilatato e apparentemente, proprio perché materno, onnipotente e corpi procaci e nudi ovunque, sotto gli occhi anche di chi è più piccolo e più piccola. Difficile distogliersi criticamente da immagini molto differenti, ma, se pure diversamente, ammalianti.

Una storia che si ripete, ci racconta Elda Guerra, la duplice trappola di una sorta di polarizzazione tra una rappresentazione del corpo come strumento e oggetto di seduzione da una parte, e la sua riduzione a corpo materno dall’altra (pp.27,8). Ma vi sono responsabilità anche nel Movimento delle donne, soprattutto nel passaggio degli anni Ottanta del Novecento, in cui si misura un allontanamento dal rapporto diretto con l’esperienza del corpo(che diviene soprattutto) oggetto di studio (…) in questo duplice slancio sospeso tra la potenza dell’ordine simbolico della madre e il fondamento fisiologico di una differenza, tutte le complicazioni dei corpi reali sembravano disperdersi (pp.32,3,6). Ha ragione Elda quando scrive che siamo ancora all’inizio di una ricerca, un campo di tensione in cui occorre continuare a restare, ponendosi sempre la domanda che pone Mirella Rossi dopo il suo intervento, qual’ è la libertà delle nuove generazioni? (p.47). E qual’ è la nostra libertà, aggiungo io? Preferisco allora, anziché parlare di libertà, pensare a un percorso di liberazione, come si diceva negli anni Settanta, un percorso che non possiamo certo permetterci di abbandonare.

Un percorso – e ne scrive Lea Melandri – che allora ha significato, e ancora è necessario che significhi, portare la parola vicino a tutto ciò che la parola pubblica, la ragione storica, non erano riuscite per secoli a fare proprio (p.53). E afferma, alla fine di questo scritto, ci sono istanze radicali poste dal femminismo degli inizi che restano imprescindibili – una conquista che non si limita a un determinato periodo storico – e che possono perciò essere continuamente riattualizzate (p.63). E’ una risposta  che pone un problema anziché pretendere di risolverlo e non potrebbe essere diversamente, ma propone anche un percorso alla domanda di prima, qual’ è la libertà delle nuove generazioni? E la nostra.

Ma ci sono anche altri modi di rendere il corpo oggetto,il corpo del feto ad esempio scrive Maddalena Gasparini, e il rapporto con le nuove tecnologie riproduttive. Non si può solo demonizzarle o al contrario esaltarle, non si possono cancellare, perché ci sono e appartengono ormai alla nostra vita e alle nostre scelte, occorre piuttosto comprendere che ad esse non ti puoi sottrarre, che la razionalità non è sufficiente a criticarle o a vederne i limiti e i rischi; devi ripensarci mettendoti in gioco anche emozionalmente (p.89). E occorre anche, aggiungo io, cercare di elaborare un pensiero morale su tutto ciò, ma non un pensiero astratto, bensì che ci appartenga personalmente e guidi le nostre scelte, un pensiero che può formarsi solo – e qui riprendo Maddalena – se composto sulla base delle nostre emozioni, passioni, desideri, sulle narrazioni di tante esperienze con cui arricchire la propria. Ma lei ci avverte anche di un pericolo, che è all’interno della retorica sulla maternità, che le nuove tecnologie contribuiscono forse a rinnovare, il sogno di una relazione perfetta con il figlio (…)garante di un amore senza fine, di un amore dove non si dà quella reciprocità, ancora così difficile da costruire nella relazione di coppia, ma dove il bisogno e la dipendenza – almeno per anni – di un figlio si traducono in un amore assoluto (pp.95,97). Amore assoluto, madri perfette. E schiacciate da questi modelli onnipotenti, da questi miti inarrivabili alcune donne decidono di uccidere i propri figli. qual’ è la libertà delle nuove generazioni?

Elena Del Grosso riprende il discorso delle biotecnologie del corpo e, al termine del suo scritto, vi sono di nuovo riflessioni che si intrecciano col tema che mi ha guidato nella lettura del testo. Il divenire soggetto morale rispetto al proprio corpo significa porsi alla pari con esperti ed esperte, scienziati e scienziate, ma anche, aggiungo io, ‘tecnici’ della comunicazione e della visibilità che espone, plasma i corpi delle donne secondo modelli normativi: occorre che le donne si facciano soggetti morali attivi e autorevoli, in grado di negoziare le proprie conoscenze, i propri saperi e lo stare ‘nel proprio corpo’, in un confronto alla pari con il sapere degli/delle esperti/e, riattivando mecanismi partecipativi virtuosi e democratici (p.110).

Ma è proprio sul diritto di disporre del proprio corpo – scrive Maria Luisa Boccia – che si gioca la cittadinanza incompleta delle donne, la nostra autonomia, negata, del tutto o in parte, a causa della capacità procreativa propria del corpo femminile. E aggiunge, custode dei corpi – soggetto principale, se non esclusivo della cura – la donna non è soggetto del proprio corpo (…) il corpo femminile è sempre pubblico. Pensate alla sessualità ‘normale’, maschile ovviamente. Quella della coppia, funzionale alla discendnza maschile, e quella fuori della famiglia, della prostituzione e non solo, funzionale al consumo e alla mercificazione dei corpi (pp.182,3). Qui la dicotomia tra corpi che generano e corpi commercializzati trova un punto di connessione, che in qualche modo la spiega come disponibilità ai differenti desideri maschili, fare famiglia, agire sessualità fuori dalla famiglia, con la necessità di un angelo, molto efficiente, in casa e una mimesi di libertà (maschile) fuori. E le nostre complicità in tutto ciò, tra madri perfette e corpi perfetti, immarcescibili, sempre giovani e fortemente normati (anche in centimetri). D’altronde anche la maternità è spettacolarizzata, in molti modi, e lo stesso corpo incinto esibito, con abiti stretti e forme di nudità che mettono allo scoperto le pance gonfie della gravidanza. Salvo poi dover a tutti i costi e in breve tempo divenire di nuovo magre, ma sempre con grandi seni, perché questi appaiono i segni più visibili sia dei corpi che generano, sia di quelli che (devono) sedurre.

Ma il desiderio maschile, la pretesa autonomia degli uomini – in realtà l’assoluta dipendenza dalle donne – si sentono nel contemporaneo posti a critica, in pericolo. Pare allora riacutizzarsi il conflitto tra i sessi. Storia antica con colori e complessità del presente, una riattualizzzione sia della paura che gli uomini hano sempre avuto delle donne, sia della violazione del ‘diritto’ ad averle a propria disposizione. Quando ciò non avviene o perlomeno non nelle forme del desiderio maschile, gli uomini divengono violenti e uccidono. La violenza entra prepotentemente nei rapporti d’amore, scrive Lea Melandri, pare esserne il tessuto e una componente inscindibile. Ma questo non viene detto, non abbastanza. Cosa sia la cultura, la tradizione dell’amore, differente tra donne e uomini, appartiene ancora largamente al silenzio, a una reticenza che rende certi percorsi ancora poco praticati e la fatica, dunque, di rispondere al mio dilemma iniziale e agli altri dilemmi che porta con sé.

Ma violenza è anche – e ce ne parla Elena Del Grosso – l’alleanza che scienza e cultura sociale hanno stipulato per riconoscere come esistente in natura solo il dimorfismo sessuale. Il mondo  abitato solo da donne e uomini, non vi sono altre possibilità e i corpi che non corripondono all’uno o l’altro sesso  spesso devono essere modificati, per dar loro identità sessuale! Questo preteso dimorfismo, che diviene norma, anche contro le evidenze dell’esperienza, non solo dimostra quello che le femministe epistemologhe della scienza hanno sempre dichiarato, la non innocenza, la non obiettività della scienza, ma conferma, dà forza a tutte le dicotomie che popolano le nostre culture, le diversità stereotipate e catalogate, e di contro le diversità impronunciabili solo perché apertura verso una molteplicità che fa paura, perché mette in discussione l’ordine del mondo, che ha finora strutturato e dato leggi non solo alle relazioni tra i sessi, ma alla crescita, apparentemente libera, di identità sessuate.

Trovo infine, nel bellissimo contributo di Serena Simoni, sull’arte e i corpi nell’Otto Novecento, quelle due virtù che mi sembra siano indispensabili per il continuo e necessario riavvio della nostra ricerca: la capacità di assumere un registro ironico e la competenza a sopportare e sviluppare l’ambivalenza. Questa seconda virtù mi appare presente in tutti gli scritti del testo, certamente più della prima, eppure l’una aiuta l’altra, si rende necessaria all’altra. Dobbiamo sopportare l’ambivalenza, non cercare di scioglierla anzitempo, col rischio di negare la complessità, i colori plurali e spesso sfumati di un momento storico molto delicato e fragile, perché rischieremmo di perdere qualcosa, di perdere di vista, convinte di alcune tappe raggiunte (e ci è già successo) un percorso che non si può fermare,. Che può ancora usare la parola liberazione, questa volta in alleanza con alcuni uomini. E’ una prospettiva faticosa, di attenzione continua, di elementi da continuamente comporre e ricomporre e la virtù dell’ironia ci serve per alleggerirne il peso. E’ inoltre una virtù che proprio le generazioni più giovani ci stanno insegnando.

Questo libro è un mosaico sapiente di questi elementi, saperi tra loro diversi, da seguire e non cessare di comporre, di comunicare come forma di conoscenza critica, cui educare ed educarsi, ben sapendo che si tratta di visioni parziali, interrogazioni aperte, approdi temporanei,(Silenzi, p.15).   

 

10-05-2012

 

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