Paura - sicurezza
Il perché di un lavoro collettivo
di
Paola Redaelli, Mariagrazia Campari, Paola Melchiori,
Maria Nadotti, Anita Sonego, Lea Melandri



 


  Ogni volta che, negli ultimi dieci o dodici anni, molto prima dall’attentato alle torri gemelle di New York, in occasione dello scatenarsi di guerre e dell’organizzazione di cosiddette missioni di pace cui avrebbero dovuto partecipare soldati italiani, ci siamo ritrovate nel tentativo di formulare una presa di posizione collettiva in quanto donne, spontaneamente ci siamo messe a parlare delle nostre paure. Anzi, spesso solo delle nostre paure abbiamo parlato: paure che si dilatavano a dismisura e si dimostravano spesso radicate nel profondo di noi stesse, molto prima che l’evento le facesse emergere, agisse da catalizzatore. Anzi spesso era talmente difficile connettere in modo razionale la singola guerra o il singolo evento con le nostre paure che non riuscivamo o riuscivamo solo con grande fatica ad accordarci su una risposta comune.

  Che cosa volevamo, noi? Noi volevamo la pace anche se non tutte fra noi si dichiaravano pacifiste. Noi avvertivamo, nella demonizzazione dell’altro che precede e accompagna ogni guerra, la riproposizione di una schematica divisione tra buoni e cattivi, una dicotomia che rivelava il ritorno a un modo di pensare per opposizioni che si presentava come minaccioso per noi in quanto donne. Ma non solo, noi avvertivamo nella inevitabile virilizzazione propria di ogni guerra, sia pure combattuta anche da donne, la chiusura di uno spazio per l’individuo in quanto tale, per il singolo con la sua storia, le sue caratteristiche e le sue scelte e l’imposizione di un modello unico di pensiero, di desideri e di comportamento.
Molto più in là di così non siamo mai andate.


Nel frattempo, in questi anni, sono successe molte altre cose. Ci è risultato evidente, grazie anche alla nascita di movimenti come quello no-global, che non solo di guerre terribili e ingiuste si trattava, ma di un’accelerata trasformazione del mondo in cui ci trovavamo a vivere: un processo di mondializzazione dell’economia e di accrescimento del potere nelle mani dei gruppi ridotti che la governano, che pretendono di affrontare ogni problema umano nella logica della realizzazione del profitto e che in nome di questa logica scatenano conflitti, si appropriano di e gestiscono in base ai loro interessi persino risorse come la terra e l’acqua. Invece di elencare i numerosi eventi oggettivi che rendono effettivamente diverso e temibile il nostro mondo rispetto a quello di solo dieci anni fa, proveremo ad elencare alcune delle paure più diffuse che parlando tra noi sono emerse:


   - La paura delle conseguenze di uno sviluppo tecnologico accelerato che interessa direttamente il corpo umano e il corpo delle donne in particolare, non solo mettendo radicalmente in discussione i tradizionali binomi maschile-femminile, uomo-donna, non solo tendendo ad abolire il loro aspetto contrappositivo-complementare, in entrambi i casi in favore del primo termine e del suo potere, ma anche sottraendo alle donne la tradizionale ancora di salvataggio della diversità biologica, del potere della procreazione e in sostanza della relazione madre-figlio/a. Tutto ciò in un contesto in cui il diritto delle donne al controllo del proprio corpo viene da ogni parte messo in discussione in favore di quelli di entità ritenute superiori: la coppia (eterosessuale, naturalmente), il nascituro, o addirittura il bene demografico del paese.
 

- La paura della malattia e della vecchiaia. Di chi ci sta vicino e nostra. La privatizzazione di ogni cosa, anche di quanto, almeno in paesi come il nostro, si era abituati a considerare pubblico, cui in teoria tutti avevano diritto e che perciò doveva essere gestito dallo Stato, come la scuola, la salute, un tetto sotto cui vivere, una pensione, espone le più anziane tra noi a una profonda incertezza, spinge le più giovani alla ricerca di sicurezze antiche (il matrimonio, la un tempo criticata famiglia), oppure a rassegnarsi alle logiche spietate della competizione e del mercato perché il possesso del denaro pare l’unico strumento capace di difendere dalle sofferenze di malattia e vecchiaia. Tra l’altro, se l’idea di una gestione sociale e pubblica della malattia, e dei problemi connessi al naturale processo di invecchiamento, lasciava perlomeno spazio a una discussione, se non a un ribaltamento, del ruolo centrale delle donne nell’attività di cura, la privatizzazione dei servizi e la “familiarizzazione” delle responsabilità rafforza inesorabilmente l’antica funzione femminile.
 

- La paura insieme di non avere e di avere un lavoro. Non ci riferiamo tanto al fatto indubitabile della crescente disoccupazione e precarizzazione del lavoro, portato non solo della crisi ma della configurazione del sistema economico anche nelle sue fasi di sviluppo, alle quali le donne sono più che mai esposte. Ci riferiamo qui, per quelle che di noi non sono più giovani, alla paura di essere costrette (cosa che un tempo non succedeva) a rinunciare, per la necessità di guadagnarsi il pane quotidiano, all’esercizio di saperi acquisiti, conoscenze accumulate che rendevano il lavoro non solo una dura fatica ma anche un luogo di realizzazione di interessi, progetti e desideri individuali, di cui ci si è rese consapevoli e di cui ci si è impadronite con grande fatica e lavoro su di sé. Ci riferiamo però anche, per quelle che tra noi sono più giovani ma non solo, all’ambivalenza che il problema lavoro induce appena si prendono un po’ le distanze, per effetto di razionale decisione o perché essa risulta intollerabile, dalla logica ferrea di scegliere, appena dimesse le fasce, che cosa si dovrà fare da grandi (e come guadagnare il più possibile). Ci si affaccia a un mondo in cui tutto in teoria viene presentato come possibile, e in cui nella pratica invece vengono offerte solo mezze soluzioni o soluzioni disastrose per chi deve effettivamente basarsi solo sulle proprie forze volendo però tener conto delle proprie aspirazioni o dei propri desideri. L’idea che “volere o volare bisogna lavorare”, un tempo trasmessa alle figlie da madri casalinghe e padri apprensivi sul loro destino, non trova riscontro in una realtà in cui il posto fisso è una chimera e d’altro canto è lontanissima dal modo di vedere di molte ragazze che oggi pensano al lavoro. E per molte, giovani o vecchie, comunque, dietro l’angolo, c’è sempre la nostalgia o la realtà della vecchia famiglia, ora non più autoritaria, su cui forse si può contare, restando per sempre figlie…
 

- La paura di uscire o di stare da sole la sera. Quella che un tempo per le più vecchie di noi era solo una vaga apprensione, un senso di insicurezza quando calavano le tenebre sulla città che di giorno era amica e piena di punti di riferimento (era proprio così?!), o addirittura il suo contrario, un senso di onnipotenza con cui sfidavamo situazioni effettivamente rischiose, ora è diventata una paura vera e propria di un mondo che di notte si presenta nella fantasia in tutta la nudità della violenza, dell’atomizzazione, dell’individualismo disperato con cui lo sperimentiamo durante il giorno, nei rapporti esasperati e ormai privi fosse solo di una parvenza di solidarietà sui luoghi di lavoro, negli sguardi torvi che ci si lancia sull’autobus stracolmo e puzzolente la mattina presto, nell’apparente rassegnazione con cui i poverissimi chiedono ad ogni angolo le elemosina, nei gruppi di lavoratori maschi extracomunitari con le mani distrutte dal cemento o dalla candeggina che parlano nei giardinetti sotto casa una lingua ignota. La paura di essere rapinate, stuprate o addirittura ammazzate.
 

- La paura della catastrofe ecologica, del mutamento climatico, dell’inquinamento dell’aria, dell’acqua, della terra, del cibo, delle radiazioni, delle scorie tossiche, delle onde magnetiche. La paura che la natura in particolare, da luogo accogliente dove ristorarci dalle fatiche delle città in cui viviamo, si trasformi in matrigna feroce. Forse la natura per molti popoli non è mai stata una madre accogliente, forse neppure per i genitori contadini di alcune di noi. Eppure…
 

- E infine anche la paura di dover perdere quei tanti o pochi privilegi che fino a non poco tempo fa ci rendevano più gradevole la vita. Ci eravamo abituate a un livello di consumi che ora la maggior parte di noi non si può più permettere: il cinema, il teatro, i concerti, le cene fuori, i libri, la macchina. Consumi che erano anche i simboli della vita magari solitaria, magari faticosa, ma nella quale sentivamo di esserci conquistate non solo l’autonomia, ma anche i piaceri dell’autonomia.

 

C’è poi un altro genere di paure, recentissime, o perlomeno alle quali abbiamo dato un nome solo recentemente, riassumibili nella paura generata dalle misure di sicurezza che nel nostro paese, come in tutti gli altri paesi dell’Occidente, vengono prese per rassicurare i cittadini che si presumono impauriti da ciò che avviene fuori dalle nostre civili frontiere (chi non ricorda l’accoglienza entusiasta che è stata data anche all’idea della guerra umanitaria nella ex Jugoslavia?), dal “terrorismo internazionale”, dall’integralismo (“islamico”). La paura di un processo che in realtà già si era manifestato agli inizi degli anno novanta con il varo in tutti i paesi europei delle misure di polizia tese a limitare l’afflusso di stranieri nel vecchio continente, a difesa della nostra cultura, civiltà “democratica”, sistema di vita contrapposti a quelli di cui erano portatori coloro che si presentavano ai nostri confini. Questo processo ha intensificato la sua brutalità negli ultimi anni provocando fuori dalle nostre frontiere veri e propri disastri umani, ecologici, culturali, politici che incrementano in misura esponenziale le reazioni belliciste di chi lo subisce. Ma non solo: quella che molti definiscono la “sindrome securitaria” dell’Occidente è giunta ormai a mettere in discussione gli stessi principi su cui si basava il nostro mondo (obliterazione dei diritti già considerati fondamentali e non negoziabili che invece incominciano ad essere pensati come precari, violazioni della privacy, obliterazione del diritto internazionale, instaurazione di forme predemocratiche e privatizzate di diritto). Dunque, e a ragione, paura delle conseguenze ultime dell’approccio che come “occidentali” abbiamo sempre avuto nei confronti dell’altro (che ben rifletteva peraltro l’integralismo maschile che da sempre caratterizza la nostra cultura, contro la quale da decenni ci battiamo).

 

Dunque le nostre paure sono molte, le paure ci attanagliano.

Ma non basta. Un tempo molte nostre paure erano qualcosa di privato, con cui ci eravamo più o meno abituate a fare i conti da sole. Ora la parola paura, ripetuta sino alla nausea sui giornali, veicolata dalle immagini, dai resoconti e dai dibattiti televisivi, costituisce come uno specchio ingranditore che quotidianamente ci viene messo davanti al naso e deforma le nostre personali paure. È diventato difficile discernere le nostre personali paure da questo stato di paura collettiva di cui altri si incaricano di fornirci una descrizione e di indicarci sia la cause che l’origine, provvedendo anche ai modi per combatterla, riassumibili in un’altra quasi magica parola: sicurezza.
 

Il binomio PAURA-SICUREZZA si è così gradualmente imposto nel nostro universo linguistico, occultando da un lato le nostre individuali paure, dall’altro quelle che eravamo abituate a ritenere le nostre individuali sicurezze. Risvegliando in ciascuna di noi il desiderio di affidarci a qualcun altro per metterle a tacere, predisponendoci ad appartenenze e all’assunzione di identità che sino a poco tempo fa, e a ragione, consideravamo le vere nemiche di un nostro possibile percorso di autonomia, di una nostra possibile libertà.
 

Si tratta a ben vedere di una strana coppia. Diversamente dalle coppie oppositive, che già abbiamo analizzato e decostruito (natura-cultura, uomo-donna, forza-debolezza, emotivo-razionale, ecc.), in questa entrambi i termini sono connotati in un unico senso, inequivocabilmente maschile, e il secondo termine, la sicurezza, è presentato come la naturale risoluzione del primo, la paura. Non il complemento, ma quasi la panacea, il medicamento. Entrambi i termini, poi, hanno perso completamente il loro aspetto di sentimento soggettivo, particolare, legato a precise situazioni e contingenze vissute da specifici individui sessuati, ma vogliono esprimere uno stato, lo spirito dell’epoca, una condizione dell’esistenza, che si presenta come uniforme e talmente generalizzata, almeno nel mondo occidentale, da diventare anche agli occhi più avveduti, oggettiva.
 

Dunque il ritornello ossessivo del potere è diventato: Hai paura? Noi ti offriamo, se sei disposta a rinunciare a “qualcosa”, la sicurezza. Nessuno ti chiede più quali siano le tue paure personali né è interessato a conoscerle, nessuno ti chiede più quale significato mai tu attribuisca alla parola sicurezza, né in che cosa per te praticamente consista, né quale prezzo tu sia disposta a pagare per averla. Per LA PAURA è disponibile un universale rimedio: LA SICUREZZA. A poco a poco noi stesse fatichiamo a riconoscere, o addirittura ad avere, i nostri sentimenti di paura, a distinguere tra: 1. quelli che hanno una radice oggettiva; 2. quelli che si radicano nelle nostre storie personali in modo talmente profondo che neppure una vita intera dall’analista potrebbe sradicarli; 3. quelli scatenati, direi anzi prodotti, dalla riproposizione del binomio PAURA-SICUREZZA; 4. quelli per i quali non c’è rimedio.

 

Da queste considerazioni è nata l’idea di un lavoro collettivo che si prefigga innanzitutto l’obiettivo di dipanare i quattro fili di questo groviglio (attrezzandosi, prima di iniziarlo, con qualche strumento fornito dall’arte/scienza poco frequentata di imparare a convivere con la paura), in secondo luogo di discutere di alcune delle situazioni attuali che oggettivamente fanno paura, in terzo luogo di analizzare il discorso massmediologico dominante e i modi con cui induce paura e richiesta di sicurezza. Per concludere, infine, vorremmo poi mettere a tema la ricerca o l’elaborazione di strategie personali e collettive, non necessariamente grandiose, per non morire, appunto, di paura.

 

 

 

Il programma di massima è il seguente:

 

1.      Discussione collettiva di questo documento allo scopo di individuare le principali tracce e i punti di vista da utilizzare come filtro per il lavoro successivo (20 gennaio 2004)

2.      La guerra come sistema di relazione con l'altro all’interno del nostro paese e in Europa (febbraio)

3.      Il progetto di distruzione dello stato sociale in Italia e in tutta Europa, e la sua ripercussione in particolare sulla vita delle donne (marzo)

4.      Salute e vecchiaia (marzo)

5.      Limitazione delle libertà individuali e crescente controllo repressivo dello Stato (aprile)

6.      Il potere del sistema della comunicazione nella creazione, nell'ampliamento e nella manipolazione delle nostre paure (maggio)

 

 

Ciascuna riunione verrà introdotta da una o due relazioni, ancora da concordare.

 

Milano, 16 dicembre 2003