Pazze
di maternità
di Lea Melandri

Elisabetta
Sirani
Rilette
oggi, sotto l'effetto della recente sequenza di infanticidi, le parole
con cui Jules Michelet, nel 1859, descriveva il destino femminile, prendono
un significato sinistramente capovolto: "Deve amare e partorire,
è questo il suo sacro dovere. Fin dalla culla la donna è
madre, pazza di maternità".
Nell'idealizzazione di un uomo-figlio, certo di essere il destinatario
naturale della felicità, niente lascia intendere che l' "eccesso
di passione" di cui si è creduta depositaria la donna avrebbe
potuto compartire odio anziché amore, follia al posto di salute.
Eppure non doveva essere difficile immaginare che il sacrificio di sé,
la dedizione totale agli altri, avrebbe potuto chiedere presto o tardi
una contropartita altrettanto distruttiva.
Anche Freud, così lucido nel riconoscere la commistione di sentimenti
opposti, di tenerezza e ostilità, nei confronti di persone amate,
non esita a ritagliare intorno alla coppia madre e figlio una zona franca,
"esente da ambivalenze". Se non fosse così "sorprendente"
ancora oggi ammettere che una madre possa uccidere il proprio figlio,
non si capirebbe perché, fra tanti delitti famigliari di cui è
stata data notizia negli ultimi tempi, sia sempre "Medea" ad
accentrare fantasie, perizie scientifiche, supporti statistici, "piani"
governativi di attacco e difesa. L' "oggetto medico" per eccellenza
resta quel corpo che, svuotato di una propria verità psicologica
e ricoperto di idealità, non ha mai smesso, agli occhi del mondo,
di partorire figli e mostri, vita e morte, beatitudine e dannazione.
Nell'Ospedale parigino della Salpetrière, verso la fine dell''800,
le membra scomposte delle "grandi isteriche" venivano esposte
al pubblico e studiate secondo le direttive di Charcot: "guardare,
guardare ancora, guardare sempre, così si arriva a vedere (
)
e vedere è comprendere". Con uno sguardo simile, da "osservatori
obiettivi", una schiera di psichiatri, psicologi, criminologi ha
elargito in questi mesi alla stampa e alla televisione giudizi, rassicurazioni,
preveggenze sulle "malattie mentali" che incalzano la nostra
epoca, mescolando indifferentemente depressione e obesità, handicap
e psicosi da parto, disagio giovanile e invalidità di vecchiaia.
Non potendo offrire a una società sempre più insicura la
"via d'uscita" da quello che viene avvertito come un pericolo
incombente, per quanto indeterminato, la medicina e la scienza si limitano
a diventare una sorta di "anestesia".
"Mio malgrado mi ritrovo ad affermare -scrive Renos K. Papadopoulos
(N.Janigro, La guerra moderna come malattia della civiltà, Bruno
Mondadori 2002) che veniamo utilizzati dalla società, in quanto
esperti, per esorcizzare con spiegazioni esaurienti la disturbante complessità
della distruttività e sostituirla con teorie risananti." Isolata
e trattata come qualcosa di "esotico", la violenza si allontana,
come se non avesse niente a che vedere con ogni individuo, come se non
fosse "un tragico aspetto della condizione umana".
La fretta con cui l'infanticidio commesso da una madre viene archiviato
sotto l'etichetta, per un certo verso rassicurante, della "follia"
e della "malattia mentale" segnala che, in modo paradigmatico,
il sovvertimento del rapporto più "intimo" e "umano"
scuote le coscienze, sollevando il dubbio intollerabile che l'antico comandamento
"non uccidere" stia rientrando dal lungo esilio, per chiedere
riconoscimento e cittadinanza.
Restituire alla morte -quella che si dà ad altri o che si subisce-
il posto che ha nella vita del singolo e della collettività, dove
non ha mai smesso di mescolarsi all'amore, non ha altro significato che
fare il passo necessario per comprendere l' "umano" nella sua
complessità, e sottrarre al determinismo biologico comportamenti
che nascono nel contesto di storie e relazioni particolari, suscettibili
pertanto di cambiamento.
Da questo punto di vista, la barriera delle "competenze mediche",
chiamata a confortare una società ormai scossa dal dubbio riguardo
alle sue reali attitudini etiche e civili, diventa un ulteriore ostacolo
o censura per la conoscenza, che l'individuo può trovare in sé,
delle passioni consapevoli o inconsapevoli che lo agitano. Se è
vero che la storia dell'umanità è "piena di assassinii",
e che l'uomo primitivo che è in noi non si è mai del tutto
eclissato, non dovrebbe essere difficile capire quali sentimenti elementari,
incontrollabili, fanno debordare la voglia di uccidere da semplice pensiero
o desiderio silenzioso, rivolto a "chiunque ci sbarra la strada",
alla sua messa in atto. "Le azioni violente non vengono necessariamente
commesse da individui pervertiti, ma da persone comuni che si trovano
intrappolate in circostanze tragiche: la maggior parte degli esseri umani
è in grado di commettere azioni violente" (R.Papadopoulos).
Questo "sollievo" che precipita subito dopo nell'inferno, questa
"rivincita di persone tormentate" che permette, sia pure in
un solo attimo, di eliminare, insieme al pensiero, un conflitto e una
sofferenza intollerabili, più che i tratti della depressione richiama
l'impulso disperato ad aprirsi comunque una via d'uscita, a costo di passare
sul proprio corpo e su quello di chi, come un figlio, si considera parte
di se stessi.
Le madri e i padri, la figlie e i figli che uccidono soffrono, prima ancora
che di abbandoni, di legami invasivi, che promettono vita e che strangolano,
che fanno dell'intimità familiare e amorosa una difesa, e nel medesimo
tempo, un'ingiustificata limitazione. Chiedere che sia un'altra "rete",
sociale e parentale, sorretta istituzionalmente da servizi, cure farmacologiche,
ricoveri obbligati, "sentinelle" nascoste dovunque, in ogni
amico o vicino di casa, a prevenire e contenere la distruttività,
è come attribuire potere risanante a una camicia di forza.
All'inviata de "La Repubblica" (30 maggio 2002), un'infermiera
dell'Ospedale psichiatrico giudiziario di Castiglione delle Stiviere,
dove vengono internate madri infanticide riconosciute incapaci di intendere
e volere, al momento del delitto, spiegava con meraviglia che molte di
loro preferirebbero a quel luogo nel verde, "con una parvenza di
casa", il carcere. Forse, forzando il significato del loro desiderio,
si può intendere che espiare una colpa anziché subire l'esilio
protetto della malattia mentale, è un modo per sentirsi ancora
parte della collettività, per dire implicitamente quanto la patologia,
nelle sue varie forme, sia imparentata con la comune, ordinaria sofferenza
umana.
L'articolo è stato pubblicato dalla rivista "Carnet"
nel Luglio
2002
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