Mettere in comune il sapere e l’agire di tutti
di Paola Di Pietro




Cari compagni e care compagne, vorrei condividere con voi alcune riflessioni.
Comincio ringraziando Liberazione, tutta la sua redazione e il suo direttore. Quando è uscito il nostro quotidiano (sono un'iscritta al partito) confesso che ho provato a leggerlo, ma ho smesso presto: pesante, sembrava un bollettino fatto con vecchi volantini.
Ho quasi cinquant'anni, e già da ragazza, quando partecipavo alle lotte del movimento degli anni Settanta, il linguaggio e a volte anche i temi dei nostri documenti mi stavano stretti.  Un modo di esprimersi noioso, difficile,  talvolta presuntuoso, mi pareva che non potesse far altro che tenere lontana la gente.
E il giornale ai suoi esordi era ancora così, dopo tanti anni. Oggi lo compro e lo leggo volentieri. Sono grata a chi lo realizza di darci tanti spunti di riflessione e di discussione, anche di scontro, su temi diversi, proprio come sono diversi gli ambiti in cui ogni giorno ciascuno di noi si trova a vivere.

La politica sta nella vita quotidiana. La crescita sta nel dibattito, e il dibattito è ricco e arricchente soprattutto quando le voci che lo animano non sono sempre concordi. Non sempre condivido quello che c’è scritto sul giornale, ma la trovo una bellissima cosa. I tanto discussi editoriali di Sansonetti mi stimolano. Spesso sono d’accordo su alcune parti e su altre no. Proprio come succede con le persone in carne ed ossa che incontro ogni giorno. Esattamente come penso che debba essere anche nel dibattito e nella pratica politica.
Mi sento comunista proprio perché credo che per realizzare un mondo diverso, anzi dei mondi diversi e possibili, bisogna occuparsi di tutte le contraddizioni che ha elencato Sansonetti (che dice di non essere comunista) nel suo editoriale del 17 ottobre. Non mi scandalizza la sua dichiarazione d’identità, semmai mi scandalizza sentire compagni che ritengono temi come il genere, le varie identità sessuali, l’ambiente, poco importanti, trascurabili, rispetto al primato del lavoro e della politica internazionale. Argomenti su cui peraltro leggo ogni giorno articoli su Liberazione. Ma come si possono fare graduatorie di questo tipo?

E a questo proposito voglio ringraziare anche Lea Melandri per il suo lungo e bellissimo articolo del 15 ottobre. Non solo perché leggendolo sono tornata con la mente e con le emozioni a tanti anni fa, ad anni che ricordo con gioia e passione e che hanno fatto di me quella che sono oggi, ma soprattutto perché mi ha aiutata a capire meglio la situazione e il dibattito attuali.
Ultimamente tra i compagni, sia negli interventi scritti che leggo sul giornale o nei documenti, sia nelle discussioni e nelle chiacchierate a cui partecipo quando ci si incontra, torna con frequenza la questione del “radicamento sul territorio” come chiave di volta per superare la crisi. A me, detta così, risulta una questione oscura. Non riuscivo ad acchiappare la materia con cui si pensava di farlo, questo radicamento, o con cui si suppone sia fatto, questo territorio.

Adesso va meglio. Ci sono cose che si sanno, che sono vive dentro di sé, ma che non si riesce a dire, alle quali non si sa dare una forma. Grazie a Lea Melandri adesso va meglio. Mi spiego cominciando da lontano.
Passato il tempo del “sacro fuoco” della gioventù, passati gli splendidi quanto difficili anni Settanta, diventati uomini e donne adulti, molti compagni e molte compagne si sono “integrati” nella società e hanno cominciato a chiedermi se “ci credevo ancora”. Al comunismo, a un mondo migliore, a relazioni solidali...
E soprattutto a farmi notare che le lotte di allora sono state un fallimento, perché non hanno lasciato traccia nel presente. Io “ci credo ancora”, sono ancora qui, ho persino l’immensa fortuna di potermi nutrire dell’entusiasmo e della visione fresca, nuova e matura al tempo stesso, dei nostri ragazzi, perché ho uno splendido rapporto con alcuni Giovani Comunisti che stimo e con cui condivido alcune esperienze e riflessioni, crescendo ancora anche grazie a loro.

Ma soprattutto non ho mai pensato che quello che abbiamo fatto trent’anni fa sia finito in niente. C’è ancora molto da fare, naturalmente. In primo luogo bisogna rendersi conto che nulla è conquistato per sempre. E forse questo è un errore che abbiamo fatto e stiamo pagando, in questioni come il lavoro e come l’aborto, per fare solo due esempi.
Tuttavia, credo che le nostre lotte abbiano inciso profondamente e in modo indelebile sul tessuto sociale, sulla cultura e sui costumi. Questi sono i nostri campi vincenti. Dove dobbiamo tornare per ottenere altri diritti o per difendere i vecchi, ma soprattutto dove dobbiamo guardare per riflettere sul nostro operare futuro.

Non mi sono dimenticata di Lea Melandri. Dal suo articolo ero partita e lì torno. Perché penso che quello che è rimasto di allora è ciò che è partito proprio dal movimento delle donne. Ripartire da lì significa ripensare, ma per davvero però, al ruolo delle donne nella società, nella politica e nel partito. Che non vuol dire liberarci delle seggiole contando i posti, quasi con compassione per chi da sola non sa prenderseli. Che vuol dire invece fare silenzio per un momento, ascoltare discorsi differenti come sono quelli delle donne, spesso considerati marginali e meno importanti rispetto a quelli ben più seri di chi si occupa di “Politica” con la P maiuscola: questioni internazionali e teorie varie.
Le donne di solito partono dalla vita quotidiana, vera, vissuta. Dal personale per renderlo politico. Così si coinvolgono le persone, secondo me. Occupandosi di temi riconosciuti come reali, subiti ogni giorno. E così, oggi possiamo dire che lo dimostra la storia, si ottengono risultati che restano. Certo, sono meno visibili, perché non sempre sono scritti nelle leggi, più spesso sono scritti nei corpi, nelle relazioni, nelle menti delle persone, e quindi vissuti presto come “naturali” (ancora Gramsci e l’egemonia...).
La mia pratica politica è lavorare nel Consiglio d’Istituto delle scuole delle nostre figlie, parlare con le persone e soprattutto vivere cercando di mettere in pratica ogni giorno e in ogni ambito (compatibilmente con le limitazioni sociali e legali che non sempre so superare) l’idea che ho di società futura, quello che intendo per comunismo. La gente di solito si accorge e si fa (e mi fa) domande. Mi piacerebbe che tutti provassimo a diventare simpatici virus di comunismo nel mondo.

Non dico con ciò che tutto il resto (ma si può separare il grande dal piccolo, il personale dal globalizzato?) non sia importante. Ma se comunisti siamo, dovremo cominciare a realizzare il nostro motto marxista: “da ognuno secondo le sue possibilità, a ciascuno secondo i suoi bisogni”. Se ciascuno e ciascuna potesse occuparsi di ciò che meglio conosce, fare politica dove e come più gli è congeniale, senza che alcuni temi e ambiti e modi vengano considerati superiori o inferiori agli altri, e se poi si potesse mettere in comune il sapere e l’agire di tutti, allora forse avremmo un partito meno maschilista e più diffuso. E magari una maggiore ricchezza di relazioni e realizzazioni politiche, oltre che, finalmente, un buon radicamento sul territorio.

 

Questo articolo è uscito su Liberazione del 21 ottobre 2008

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