di
Stefano Ciccone e Chiara Martucci *
Parlando della relazione è emersa l’altra parola che vorrei con te mettere in tensione con la libertà ed è il desiderio. Mi interessa farlo specificamente con te, perché credo che questo tema non abbia uguali declinazioni nei differenti femminismi e mi pare assuma una specifica centralità nella tua pratica politica. Penso anche alla recente polemica esplosa a Bologna per la pratica del gruppo Sexyshock che sceglie di rappresentare e dare visibilità sociale al desiderio femminile proprio nella battaglia contro la violenza sessuale, fino a utilizzare come strumenti della propria pratica politica gli strumenti erotici e il porno con conseguenti reazioni scandalizzate della politica benpensante. Anche nella manifestazione del 14 gennaio 2006 a Milano ho letto lo slogan “l’unica legge è il desiderio” e visto rivendicare al desiderio femminile una visibilità politica come terreno di conflitto e di pratica sociale. Credo che l’incontro con il desiderio e la soggettività femminile abbia rappresentato e rappresenti per noi un’occasione decisiva per fare un’esperienza differente di noi e del nostro corpo, un’opportunità per reinventare la nostra sessualità. Dunque uno spazio di libertà per il mio differire come uomo da modelli normativi che hanno stretto la mia sessualità nel binomio potenza/impotenza, prestazione/possesso. Al tempo stesso, la mia esperienza di uomo mi ha insegnato a diffidare dal desiderio come terreno neutro di libertà. Proprio la pressione sociale ad esprimere il proprio desiderio come condizione di verifica della propria identità sessuale, la frequentazione di uno spazio sociale segnato dalla pervasività di un desiderio maschile parossistico mi dicono che anch’esso è costruzione sociale, obbligo conformativo. Penso alla necessità di aderire alle forme canoniche del desiderio maschile per non precipitare nel baratro del disprezzo sociale verso l’omosessualità considerata una non-condizione. Un non essere più uomo. Se allora il desiderio e
l’immaginario costruito attorno ad esso (ed in particolar modo forme come
la pornografia sono continuamente segnati da modelli dominanti,
colonizzati, costretti in forme preordinate), come fare proprio del
desiderio un terreno di liberazione senza sottoporlo continuamente a
critica? Non mi riferisco soltanto alla dimensione erotica ma anche a quei
desideri che l’offensiva neoclericale tende a sottoporre alle norme di
un’etica confessionale: avere un figlio, avendo problemi di parziale
sterilità di un partner, avere un figlio senza essere in una coppia
eterosessuale… Anche su questo terreno non basta dare voce ai desideri e
contrapporli alle norme: a volte è necessario cogliere quanto anche questi
siano dettati da norme. Norme più stringenti e meno facilmente
scardinabili di quelle scritte. Penso alla pressione normativa ad avere e
volere un figlio per sentirsi una donna realizzata. Quel desiderio di
maternità quanto è libero e quanto imposto?
Condivido quindi in parte lo scetticismo che tu, come maschio, esprimi nei confronti del “desiderio come terreno neutro di libertà”. Il nesso fra libertà e desiderio è quantomeno problematico; ma è forse proprio il piano delle relazioni quello su cui è possibile provare a scommettere per iniziare a concepire e costruire nuove forme di libertà che diano spazio agli elementi imprevisti e trasformativi dei desideri. Prenderò spunto dalla tua domanda conclusiva per provare a chiarire ciò che intendo. Personalmente, non sono in grado di distillare quanto di biologico e quanto di culturale, quanto di autentico e quanto di indotto, possa esserci nel mio ambivalente e intermittente desiderio di maternità. In questo momento posso dire di non avere un desiderio urgente di fare un/a figlio/a, né posso sapere con certezza se mai lo avrò. Certamente, però, posso dire che ora come ora non mi sentirei libera di farlo, nemmeno se lo desiderassi fortemente. Per varie ragioni. Innanzitutto, perché le mie condizioni di vita materiali non sarebbero adeguate: sto in una casa in affitto, non ho un reddito fisso (né particolari prospettive di averlo a breve): la mia vita è precaria a 360°. Dal punto di vista psicologico, poi, l’idea di introdurre un elemento di fissità e continuità da un lato mi alletta e dall’altro mi terrorizza. Inoltre, e non è un dettaglio trascurabile, al momento non ho un partner e, come converrai anche tu, la comunicazione e l’interazione fra i generi non sono affatto semplici ultimamente. Non voglio attribuire colpe all’ormai stucchevole tormentone della “crisi del maschio” ma, di fatto, fatichiamo a trovare nuove mappe per orientarci e viviamo le nostre reciproche confusioni e turbamenti senza capacità di comunicarcelo, né di darci una mano a vicenda. È come se il percorso della libertà femminile e quello della libertà maschile avessero viaggiato separati per secoli di storia e adesso, che sono in gran parte saltati i codici tradizionali, non fossimo in grado di creare relazioni di libertà (libertà nelle relazioni e non dalle relazioni). Nella maggior parte dei casi, infatti, la percezione del mutamento femminile rimane imprigionata in un immaginario che lo identifica come “guerra tra i sessi” e in un’ideologia che lo classifica come lotta per un cambio di guardia ai posti di comando. La violenza è una possibile esacerbazione, la più triviale ma non l’unica, di questo conflitto. Per contrastare la retorica (neoclericale, ma non solo) che evoca e invoca, più o meno esplicitamente, il ritorno a modalità di relazioni che ripropongano i vecchi stereotipi di genere (castranti sì, ma anche tanto rassicuranti!), emerge la necessità di pensare – insieme, uomini e donne – a nuove regole del gioco. Di provare a superare la diffidenza, ad aprirci ad un’intimità in divenire; di creare la fiducia indispensabile per Il linguaggio delle relazioni Segni comunicare e comprenderci, per inventare in compresenza i codici adatti a ridefinire liberamente altri e nuovi modi possibili di intendere e vivere maschilità e femminilità. Bisogna, in parole povere, uscire dall’idea implicita che quella fra uomini e donne sia una battaglia in cui la posta in palio, la libertà, sia un “gioco a somma zero”: non è vero che un aumento della libertà femminile debba necessariamente tradursi in una perdita di libertà per il genere maschile (né viceversa). Una perdita di indebiti privilegi, sì. Una perdita dell’illusione di rappresentare la normalità, auspicabilmente; ma certamente non una perdita di libertà. Per lo meno non per quegli uomini e quelle donne che hanno il coraggio e la pazienza di mettersi in gioco a partire dalla consapevolezza della parzialità dei propri diversi orientamenti, desideri e pratiche sessuali. Solo in questo modo tra la prima parola e l’ultima non ci sarà, come tu dici: “lo spazio della reciproca indifferenza, ma lo spazio per una relazione che è anche conflitto tra desideri che possono essere differenti”, anche quando si tratta di decidere se e quando riprodursi. Da qui viene per me l’urgenza, il bisogno e il desiderio, di relazioni politiche con uomini. Di relazioni politiche con uomini che partano dalle pratiche e dai saperi prodotti dai femminismi negli ultimi decenni. A partire, tutte e tutti, da sé e dalle proprie esperienze e contraddizioni, dai corpi e dalla consapevolezza che il fatto di “essere sessuati così e non altrimenti” ha un peso nell’influenzare il nostro modo di stare e percepire il mondo (quella “capacità di fare del corpo un luogo di costruzione di identità” di cui tu parli). Noi che da anni ci proviamo confrontandoci appassionatamente nel nostro laboratorio Sui generi di Anghiari sappiamo bene quanto questo processo possa essere difficile e a tratti doloroso. Ma costituisce a mio parere un’occasione necessaria di libertà, una libertà che non viene dall’indipendenza ma dalla relazione, per i singoli uomini e le singole donne del tempo presente: perché ci si possa sentire autorizzate/i a sperimentare nuove declinazioni di sé a seconda dei momenti e dei contesti delle nostre vite. Senza ruoli precostituiti, o inversioni di ruoli. E senza nemmeno farci troppo male nel frattempo.
Stefano Ciccone: Responsabile settore Parco Scientifico, Università di Tor Vergata, Roma, membro Associazione MaschilepluraleChiara Martucci: Dottoranda Dipartimento Studi Sociali e Politici, Università degli Studi di Milano, membro Centro Studi e Ricerche Donne e Differenze di Genere
Questo articolo è stato pubblicato sul n. 6 della rivista Pedagogika dedicato a Il linguaggio delle relazioni L'intero numero è consultabile sul sito www.pedagogia.it
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