Lettera sulla libertà
Relazioni e desideri di donne e uomini in trasformazione

di Stefano Ciccone e Chiara Martucci *
 


Cara Chiara,
il tema della libertà rimanda per me a due parole su cui vorrei che confrontassimo i nostri percorsi e le nostre prospettive politiche ed esistenziali. La prima parola è la relazione. Ho molto presenti i tanti modelli maschili che mi parlano di una libertà dalla relazione, il mito dell’indipendenza, la fuga dalla donna che vuole “accalappiarti” (penso ai film di John Wayne …), la rappresentazione del matrimonio come tomba della propria espressione, ma anche dell’emancipazione da “le gonne della madre”… In questo è certamente un riferimento la riflessione di Lea Melandri sul nesso tra sogno di un ritorno a una condizione fusionale e lotta contro l’angoscia di questa fusione. Eppure in questa dinamica c’è uno specifico maschile che va oltre la comune condizione di figli e figlie nati da un corpo di donna. C’è, credo, il retaggio di una costruzione dell’identità maschile fondatasi contro la corporeità che ha così prodotto una rottura col proprio corpo, un’incapacità a farne luogo di costruzione di identità. Il silenzio del corpo, il suo non essere “gravato” dalle gravidanze o il suo non segnalare il lungo ciclo dalla maturità sessuale alla menopausa, o il ciclo mensile delle mestruazioni, la sua tensione a dominarne bisogni e variazioni, è stato rappresentato come libertà. Come emancipazione da passioni, cicli ormonali, legami che vincolavano la piena espressione di una soggettività basata sulle qualità virili dell’auto-controllo, della tensione morale, della razionalità. La resistenza maschile alla relazione vissuta come luogo che limita la libertà (o la necessità) di proiettarsi nel mondo ha una sua specificità (di genere). E’ quindi da uno sguardo critico sulla costruzione sociale della mascolinità e da quanto le donne hanno costruito sul tema della relazione, che ho imparato che è possibile pensare ad una forma di libertà che vada oltre l’indipendenza e che sia invece capace di guardare ai propri limiti, alle proprie dipendenze, all’impossibilità di pensarsi a prescindere dall’altro/a. Eppure, proprio su questo tema, sento troppo spesso un’argomentazione politica delle donne che, per contrastare strategie politiche di controllo sociale sul loro corpo, risolve troppo superficialmente il nodo della relazione. Abbiamo più volte ricordato come uomini lo slogan delle donne che rivendica “la prima parola e l’ultima” sulle proprie scelte procreative. Ed abbiamo affermato che questo limite non ci interessa forzarlo con protesi morali o normative che superino o nascondano il nostro limite nei processi procreativi; ma abbiamo anche affermato che tra quella prima e quell’ultima parola non c’è lo spazio della reciproca indifferenza ma lo spazio per una relazione che è anche conflitto tra desideri che possono essere differenti. Ma dire questo non basta: cosa vuol dire richiamare questo “spazio di relazione”? E come coniugarlo con le nostre diverse libertà? Come andare oltre un’enunciazione e non ridurre questo conflitto a conflitto tra differenti diritti (diritto della madre a disporre del proprio corpo, diritto a nascere, diritto alla paternità, diritto ad avere una coppia genitoriale, etc... )?

Parlando della relazione è emersa l’altra parola che vorrei con te mettere in tensione con la libertà ed è il desiderio. Mi interessa farlo specificamente con te, perché credo che questo tema non abbia uguali declinazioni nei differenti femminismi e mi pare assuma una specifica centralità nella tua pratica politica. Penso anche alla recente polemica esplosa a Bologna per la pratica del gruppo Sexyshock che sceglie di rappresentare e dare visibilità sociale al desiderio femminile proprio nella battaglia contro la violenza sessuale, fino a utilizzare come strumenti della propria pratica politica gli strumenti erotici e il porno con conseguenti reazioni scandalizzate della politica benpensante. Anche nella manifestazione del 14 gennaio 2006 a Milano ho letto lo slogan “l’unica legge è il desiderio” e visto rivendicare al desiderio femminile una visibilità politica come terreno di conflitto e di pratica sociale. Credo che l’incontro con il desiderio e la soggettività femminile abbia rappresentato e rappresenti per noi un’occasione decisiva per fare un’esperienza differente di noi e del nostro corpo, un’opportunità per reinventare la nostra sessualità. Dunque uno spazio di libertà per il mio differire come uomo da modelli normativi che hanno stretto la mia sessualità nel binomio potenza/impotenza, prestazione/possesso. Al tempo stesso, la mia esperienza di uomo mi ha insegnato a diffidare dal desiderio come terreno neutro di libertà. Proprio la pressione sociale ad esprimere il proprio desiderio come condizione di verifica della propria identità sessuale, la frequentazione di uno spazio sociale segnato dalla pervasività di un desiderio maschile parossistico mi dicono che anch’esso è costruzione sociale, obbligo conformativo. Penso alla necessità di aderire alle forme canoniche del desiderio maschile per non precipitare nel baratro del disprezzo sociale verso l’omosessualità considerata una non-condizione. Un non essere più uomo.

Se allora il desiderio e l’immaginario costruito attorno ad esso (ed in particolar modo forme come la pornografia sono continuamente segnati da modelli dominanti, colonizzati, costretti in forme preordinate), come fare proprio del desiderio un terreno di liberazione senza sottoporlo continuamente a critica? Non mi riferisco soltanto alla dimensione erotica ma anche a quei desideri che l’offensiva neoclericale tende a sottoporre alle norme di un’etica confessionale: avere un figlio, avendo problemi di parziale sterilità di un partner, avere un figlio senza essere in una coppia eterosessuale… Anche su questo terreno non basta dare voce ai desideri e contrapporli alle norme: a volte è necessario cogliere quanto anche questi siano dettati da norme. Norme più stringenti e meno facilmente scardinabili di quelle scritte. Penso alla pressione normativa ad avere e volere un figlio per sentirsi una donna realizzata. Quel desiderio di maternità quanto è libero e quanto imposto?
 


Caro Stefano,
queste che tu mi/ti poni sono molte delle domande da cui è partito il mio percorso di riflessione come femminista. Naturalmente non ho alcuna risposta, posso solo ragionare a partire dalla mia esperienza. Faccio parte di una generazione, quella delle trentenni o giù di lì, che ha avuto possibilità ed accessi impensabili per le donne delle generazioni precedenti. Eppure, nonostante le molte porte aperte, continuo ad avere la sensazione di essere “incastrata”, non completamente libera. Un filosofo politico, Isaiah Berlin, definiva il concetto di libertà proprio utilizzando la metafora delle porte che si hanno davanti a sé. Ma, mi domando, si tratta solo di una questione di quantità, o è rilevante anche che cosa sta dietro a queste porte, se ci interessa o meno? Ed é qui che entra in gioco il desiderio: come si sceglie, da cosa e come vengono determinate le nostre preferenze? Il matrimonio, per esempio, é stato a lungo (im)posto alle donne come unica opzione disponibile (a meno di non preferire la clausura). Le donne venivano socializzate ed educate a credere che il loro carattere non prevedesse: “volontà autonoma o governo di sé attraverso l’autocontrollo, ma sottomissione e arrendevolezza al controllo degli altri”. (J. S. Mill, L’asservimento delle donne, 1869) Quando una donna cresciuta in questo modo asseriva di desiderare sposarsi e fare figli come massimo coronamento e realizzazione di sé lo faceva perché lo voleva realmente, o perché non aveva altre alternative a sua disposizione e non era capace di concepirne?

Condivido quindi in parte lo scetticismo che tu, come maschio, esprimi nei confronti del “desiderio come terreno neutro di libertà”. Il nesso fra libertà e desiderio è quantomeno problematico; ma è forse proprio il piano delle relazioni quello su cui è possibile provare a scommettere per iniziare a concepire e costruire nuove forme di libertà che diano spazio agli elementi imprevisti e trasformativi dei desideri.

Prenderò spunto dalla tua domanda conclusiva per provare a chiarire ciò che intendo. Personalmente, non sono in grado di distillare quanto di biologico e quanto di culturale, quanto di autentico e quanto di indotto, possa esserci nel mio ambivalente e intermittente desiderio di maternità. In questo momento posso dire di non avere un desiderio urgente di fare un/a figlio/a, né posso sapere con certezza se mai lo avrò. Certamente, però, posso dire che ora come ora non mi sentirei libera di farlo, nemmeno se lo desiderassi fortemente. Per varie ragioni. Innanzitutto, perché le mie condizioni di vita materiali non sarebbero adeguate: sto in una casa in affitto, non ho un reddito fisso (né particolari prospettive di averlo a breve): la mia vita è precaria a 360°. Dal punto di vista psicologico, poi, l’idea di introdurre un elemento di fissità e continuità da un lato mi alletta e dall’altro mi terrorizza. Inoltre, e non è un dettaglio trascurabile, al momento non ho un partner e, come converrai anche tu, la comunicazione e l’interazione fra i generi non sono affatto semplici ultimamente. Non voglio attribuire colpe all’ormai stucchevole tormentone della “crisi del maschio” ma, di fatto, fatichiamo a trovare nuove mappe per orientarci e viviamo le nostre reciproche confusioni e turbamenti senza capacità di comunicarcelo, né di darci una mano a vicenda. È come se il percorso della libertà femminile e quello della libertà maschile avessero viaggiato separati per secoli di storia e adesso, che sono in gran parte saltati i codici tradizionali, non fossimo in grado di creare relazioni di libertà (libertà nelle relazioni e non dalle relazioni). Nella maggior parte dei casi, infatti, la percezione del mutamento femminile rimane imprigionata in un immaginario che lo identifica come “guerra tra i sessi” e in un’ideologia che lo classifica come lotta per un cambio di guardia ai posti di comando. La violenza è una possibile esacerbazione, la più triviale ma non l’unica, di questo conflitto.

Per contrastare la retorica (neoclericale, ma non solo) che evoca e invoca, più o meno esplicitamente, il ritorno a modalità di relazioni che ripropongano i vecchi stereotipi di genere (castranti sì, ma anche tanto rassicuranti!), emerge la necessità di pensare – insieme, uomini e donne – a nuove regole del gioco. Di provare a superare la diffidenza, ad aprirci ad un’intimità in divenire; di creare la fiducia indispensabile per Il linguaggio delle relazioni Segni comunicare e comprenderci, per inventare in compresenza i codici adatti a ridefinire liberamente altri e nuovi modi possibili di intendere e vivere maschilità e femminilità. Bisogna, in parole povere, uscire dall’idea implicita che quella fra uomini e donne sia una battaglia in cui la posta in palio, la libertà, sia un “gioco a somma zero”: non è vero che un aumento della libertà femminile debba necessariamente tradursi in una perdita di libertà per il genere maschile (né viceversa). Una perdita di indebiti privilegi, sì. Una perdita dell’illusione di rappresentare la normalità, auspicabilmente; ma certamente non una perdita di libertà. Per lo meno non per quegli uomini e quelle donne che hanno il coraggio e la pazienza di mettersi in gioco a partire dalla consapevolezza della parzialità dei propri diversi orientamenti, desideri e pratiche sessuali. Solo in questo modo tra la prima parola e l’ultima non ci sarà, come tu dici: “lo spazio della reciproca indifferenza, ma lo spazio per una relazione che è anche conflitto tra desideri che possono essere differenti”, anche quando si tratta di decidere se e quando riprodursi.

Da qui viene per me l’urgenza, il bisogno e il desiderio, di relazioni politiche con uomini. Di relazioni politiche con uomini che partano dalle pratiche e dai saperi prodotti dai femminismi negli ultimi decenni. A partire, tutte e tutti, da sé e dalle proprie esperienze e contraddizioni, dai corpi e dalla consapevolezza che il fatto di “essere sessuati così e non altrimenti” ha un peso nell’influenzare il nostro modo di stare e percepire il mondo (quella “capacità di fare del corpo un luogo di costruzione di identità” di cui tu parli). Noi che da anni ci proviamo confrontandoci appassionatamente nel nostro laboratorio Sui generi di Anghiari sappiamo bene quanto questo processo possa essere difficile e a tratti doloroso. Ma costituisce a mio parere un’occasione necessaria di libertà, una libertà che non viene dall’indipendenza ma dalla relazione, per i singoli uomini e le singole donne del tempo presente: perché ci si possa sentire autorizzate/i a sperimentare nuove declinazioni di sé a seconda dei momenti e dei contesti delle nostre vite. Senza ruoli precostituiti, o inversioni di ruoli. E senza nemmeno farci troppo male nel frattempo.

 

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Stefano Ciccone: Responsabile settore Parco Scientifico, Università di Tor Vergata, Roma, membro Associazione Maschileplurale

Chiara Martucci: Dottoranda Dipartimento Studi Sociali e Politici, Università degli Studi di Milano, membro Centro Studi e Ricerche Donne e Differenze di Genere

 

Questo articolo è stato pubblicato sul n. 6 della rivista Pedagogika dedicato a Il linguaggio delle relazioni

L'intero numero è consultabile sul sito www.pedagogia.it