La trappola paritaria di Brunetta

di Ida Dominijanni


Natalia Goncharova


In una intervista a "la Repubblica" di ieri (15 dicembre 08), il ministro Brunetta ha detto che lui vuole «liberare le donne». Si risparmi la fatica: ci liberiamo da sole.
Nella stessa intervista il ministro Brunetta, che è convinto di essere sempre il primo della classe, ha mandato a dire a Guglielmo Epifani che è un ignorante, «non legge i dossier, non studia e non s'informa». Si informi, legga i dossier e studi lui, che sul lavoro femminile non sa di che parla.
Sempre indisturbato, il ministro Brunetta ha aggiunto che sull'età pensionabile delle donne lui deve solo «ottemperare a una condanna della Corte europea». Il ministro, e con lui tutto il governo di cui fa parte, si decida: non è possibile che l'Europa conti a corrente alternata, un giorno sì e uno no, sulle pensioni sì e sul clima no, sulle pensioni sì e sullo sforamento dei parametri di Maastricht no eccetera.

Anche la ministra ombra piddina alle pari opportunità Vittoria Franco, prima di parlare, avrebbe potuto contare fino a quaranta e informarsi meglio. Ieri invece ha aperto a Brunetta - ogni scusa è buona per dialogare e farsi prendere a randellate da Berlusconi, sembra un regime sadomaso ma lei la chiama «sfida» - con un conto semplice semplice: noi ti sosteniamo i 65 anni, tu ci sostieni le nostre proposte per promuovere l'occupazione femminile e favorire la conciliazione fra lavoro maternità e carriera. Così, pari e patta. I conti tornano e il gioco è fatto.

I conti non tornano affatto, precisamente perché la questione non va e non può andare in parità. Ecco un bel caso in cui si dimostra che la parola d'ordine - in senso proprio - della parità fra i sessi è un trappolone truccato e truffaldino, che equipara in uscita quantità dispari in entrata, lascia intatte o accentua disuguaglianze preesistenti, ignora differenze di qualità che non vanno né pareggiate né annullate ma semmai valorizzate. Una confusione infernale, spacciata per chiarezza sotto l'ombrello della parola magica «parità».

Molte obiezioni, al ministro primo della classe, sono già state portate. Gli è stato rammentato, dalla Cgil e dalla Fiom, che già adesso le donne possono optare per il lavoro fino a 65 anni, che di fatto in molti casi devono optare per questa possibilità se vogliono raggranellare i contributi necessari visto che hanno percorsi lavorativi più precari di quelle maschili; e che la vera azione antidiscriminatoria, che il ministro primo della classe non si sogna di proporre, sarebbe semmai un'equiparazione dei salari e delle carriere maschili e femminili. Gli è stato ricordato, da più parti, che la possibilità di andare in pensione prima è una compensazione irrisoria del fatto che per tutta la vita le donne fanno un lavoro triplo e quadruplo: quello retribuito e quello non retribuito per i figli, i genitori, i mariti, e che dunque al saldo la misura non sarebbe antidiscriminatoria per gli uomini ma ulteriormente discriminatoria per le donne.

Quello che non è stato ancora ricordato, al ministro Brunetta come pure alla ministra ombra Franco, è che finché si continua a parlare del lavoro femminile in termini di miseria sociale e avendo in testa solo l'ossessione paritaria, non se ne esce, né da destra né da sinistra. L'immensa ricchezza sociale che noi donne produciamo con il lavoro doppio triplo e quadruplo, pagato e non pagato, obbligato e spontaneo, sottoposto, direzionale, relazionale, non è quantificabile secondo i parametri economici classici e non è compensabile con gli asili nido: e nemmeno chiede di esserlo. E' un eccesso, non una miseria. Un di più, non un meno: che non va in parità.
Fra i molti dossier che il ministro Brunetta avrà sul tavolo, e la ministra Franco pure, gliene manca certamente qualcuno, sull'immensa mole di narrazione dell'esperienza del lavoro femminile raccolta negli ultimi decenni dalla sociologia femminista (l'ultimo, in ordine di tempo si intitola «Si può», Libreria delle donne di Milano). Il ministro se li procuri: scoprirà delle cose interessanti.
Ad esempio, che il tempo è considerato dalle donne la risorsa principale, e che questo non comporta automaticamente lavorare per più o per meno anni, ma riorganizzare i tempi di lavoro per tutti, donne e uomini, fuori dalle gabbie fordiste e dalla dissipazione postfordista. Che le qualità relazionali del lavoro femminile stanno ri-formando, letteralmente, i luoghi di lavoro ben più delle sue rampogne ai fannulloni. Che promettere (senza mantenere) asili nidi non ha grande appeal sulle madri lavoratrici che giustamente pretendono di lavorare «e» di godersi i figli. Che insomma se si parla di lavoro femminile bisogna provarsi ad adeguare il lavoro ai parametri umani della vita femminile, non la vita femminile ai parametri disumani del lavoro. O è meglio lasciar perdere.

 

articolo pubblicato da il manifesto del 16.12.2008

 

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