Sei donna solo se muori per amore


di Maria Rosa Cutrufelli

 


Paola Gandolfi


C'è una differenza importante, una differenza significativa, fra il caso di Rita Fedrizzi e quello della donna in coma all'ospedale San Martino di Genova. Rita Fedrizzi scoprì mentre era incinta di essere malata di un tumore che richiedeva cure pesanti, che il feto non avrebbe tollerato, perciò doveva scegliere: o abortire e curarsi o rinunciare alla vita. Rita Fedrizzi ha scelto di morire e questa sua scelta, pienamente consapevole, merita rispetto.
All'ospedale di Genova si sta consumando invece una vicenda d'altro tipo: c'è una donna in coma "depassé", come dicono i medici, con attività cerebrale nulla, che viene tenuta artificialmente in vita nel tentativo di salvare il feto di venti settimane che porta in grembo. I medici hanno spiegato al padre - l'unico che, per legge, ha in questo caso diritto di scelta - i rischi di una nascita prematura, alla venticinquesima settimana: anche se sopravvivesse, il bambino avrebbe elevate possibilità di serissimi handicap.

Di fronte a una simile tragedia, a una scelta che avverrà comunque nel dolore e nello strazio, ci si aspetterebbe da tutti quanti - medici, opinione pubblica, autorità d'ogni genere - un rispettoso silenzio. Invece si è scatenata una ridda di opinioni (non richieste), appelli alla "salvezza di una vita", prove più o meno palesi di condizionamento. Parlano ministri e vescovi, con parole pesanti. Parlano medici che a ogni costo vogliono dire la loro, tanto che la famiglia ha chiesto «più discrezione». Già, non viviamo in un'epoca che nutre un vero e proprio culto per la "privacy"? E quale vicenda è (o meglio dovrebbe essere) più privata di questa? Ma il perché di tanto accanimento, di tanta insensibilità verso il dolore di un uomo che ha perso la moglie e che si trova a dover scegliere l'impossibile, è fin troppo palese: da tempo ormai ci troviamo di fronte a una volontà (politica) di riconquistare posizioni perdute, annullando il diritto femminile a una procreazione consapevole e liberamente scelta.

A cos'altro mira la proposta - insistente, ripetuta in varie sedi - di concedere statuto di persona all'embrione? Che certo è "vivo", come può esserlo ogni singola cellula del nostro corpo, ma non è "persona", mentre la sua eventuale madre, lei sì, è (o vorrebbe essere) "persona". Anche la vita delle donne dovrebbe essere "sacra", o no? Forse, secondo alcuni, ci sono vite "sacre" e vite che invece sono "a servizio". Che valgono solo a certe condizioni. Il corpo di una donna, il mio corpo di donna, ha valore solo se ubbidisce all'imperativo della procreazione. La vita di una donna, la mia vita di donna, ha valore solo quando la immolo per qualcuno. Il sacrificio è ciò che rende una donna "persona". E quando ti sottrai al sacrificio, quando rivendichi la tua propria vita, allora vuol dire che possiedi una "concezione materialistica" del mondo.

Il sacrificio liberamente scelto è un atto eroico, addirittura sublime, ne convengo. Ma può oggi una donna scegliere davvero liberamente? Ci dicono che viviamo in una società e in un'epoca in cui le donne godono di pari diritti con gli uomini. Formalmente sì, forse godiamo (non sempre, non ovunque) di pari diritti, ma sicuramente non di pari "valore": questo è il punto, a mio parere. Si tratta di una storia antica, che affonda le sue radici addirittura nel mito. Ci racconta Euripide, in una delle più belle tragedie dell'antichità classica, che Admeto, re della Tessaglia, fu condannato a morte dagli dei ma che Apollo gli concesse la grazia, a un patto: che qualcun altro si offrisse di morire al posto suo. Admeto chiese dapprima al padre, ma questi non volle rinunciare ai suoi ultimi giorni per amore del figlio. L'unica disposta a sacrificarsi fu Alcesti, la giovane e bella sposa di Admeto: lei disse di sì, che sarebbe morta al posto suo (e Admeto accettò senza batter ciglio, giurandole in cambio un ricordo eterno). Morire per amore: è dunque ancora questo il solo "valore" possibile di una donna?

 


30 - 01 - 2005