Non c'è da perdere tempo di Donatella Bassanesi
Ma c'è un significato di tempo che coincide con l'attimo. L'attimo si può cogliere. In questo senso prendere il tempo significa afferrarlo. È il caso colto. Va riferito allo scatto (si potrebbe rappresentare come scatto fotografico). Questo scatto, inteso radicalmente, è annientante. È il colpo mortale per il quale viene annullato il tempo dell'altro, annullato l'altro come soggetto, reso più che oggetto (letteralmente sub-iecto, gettato sotto, sottoposto), come chi non ha più il proprio tempo, ha perso il tempo. Tempo che si può perdere anche transitoriamente lasciando che scorra. Allora è come un lasciarsi andare, farsi scorrere, lasciare che le cose avvengano senza intervenire. Infine.
Il tempo si può compiere? Qualcuno pensa ad un certo momento che
il proprio tempo si è compiuto? La propria vita è risolta? C'è
un carattere di soggetto dei passanti. Individui che si qualificano perché
stanno passando, ossia hanno ancora del tempo, e, insieme, si avviano
a non-avere-più tempo: è il segno di appartenenza del soggetto
(in quanto vivente-agente) al tempo, e del tempo al soggetto. Sono le azioni a qualificare gli individui (e ogni singolo originandole ne partecipa, ne è sempre e comunque responsabile), sono le azioni a provenire da un giudizio da cui deriva decisione e azione (il passante che ha davanti a sé molto o poco tempo potrebbe in un certo senso collegarsi al suo sguardo sul mondo, al giudizio che trae dalle osservazioni fatte). Così il tempo-azione che rende differenti gli individui, dà loro anche la possibilità di tracciare segni. Per
questo tempo-azione, anche quando si è raggiunto un grado molto
alto di omologazione, anche quando scelte differenti sembrano impossibili
perché tutto l'ambiente circostante ha già deciso preventivamente
sul problema, esiste una possibilità, quella di "riesaminare
le cose" e di "formarsi una propria opinione" (H. Arendt,
La responsabilità personale sotto la dittatura (conferenza 1964),
in "Micromega" n. 4, 1991, p. 204). La
possibilità, collocandosi nell'area del giudizio (e della decisione),
implica azione, e sta nel luogo di passaggio tra pensiero e atto, tra
l'uno e l'altro e non corrisponde esattamente né all'uno né
all'altro. Oggi assistiamo a guerre come spettatori, come mai prima inascoltati, ininfluenti (lo scandalo non supera la parola e viene assorbito facilmente dal successivo, che non accresce l'orrore lo riduce). Ma "ci vuole una certa qualità morale per ammettere che non si ha alcun potere", e d'altra parte "dipende proprio da questa ammissione della propria impotenza la possibilità di conservare un residuo di saldezza morale, e anche di potere, persino in ( ) condizioni disperate" (H. Arendt, La responsabilità personale sotto la dittatura cit. pp. 204-205). Abbiamo
'visto' soldati italiani 'inviati in un'azione di pace', legittimati dalla
macchina di cui sono parte, ammazzare da lontano, senza odio, (quasi 'in
libera uscita', con 'licenza di uccidere') puntando bersagli (come pupazzi),
come se si trattasse di un videogioco. Il rapporto tra soggetti, non solo estremo perché implica vita-morte, viene interrotto. Perché si configura come uno squilibrio di forze senza precedenti. Per la sperimentata inutilità delle parole. Per aver perso le parole un senso comune, il senso comune (il common sense) si rivela ininfluente. Ossia scompare ciò che "ci svela la natura del mondo, in quanto patrimonio comune a tutti noi", per il quale "i nostri cinque sensi, strettamente privati e 'soggettivi' e i dati da essi forniti, possono adattarsi a un mondo non soggettivo, ma 'oggettivo', che abbiamo in comune e dividiamo con altri" (H. Arendt, Between Past and Future, New York, 1961, tr. it. Tra passato e futuro, Firenze, 1970, p. 284). Mondo che è 'pubblico' "in quanto è comune a tutti e distinto dallo spazio che ognuno di noi vi occupa privatamente", per cui "vivere insieme nel mondo significa essenzialmente che esiste un mondo di cose tra coloro che lo hanno in comune, come un tavolo è posto tra quelli che vi siedono intorno; il mondo come ogni in-fra ( ), mette in relazione e separa gli uomini nello stesso tempo" (H. Arendt, The Human Condition, The University of Chicago, U.S.A., 1958, tr. it. Vita activa, Milano, Bompiani, 1964, 2001, p. 39). Noi,
in presenza di una società totale, omogenea, in un clima politico-sociale
di scarso prestigio del sistema partitico che "premendo gli uomini
uno contro l'altro (
) distrugge lo spazio fra di essi". (H.
Arendt, Le origini del totalitarismo, p. 638). Ma
"il male non è mai 'radicale'" è "soltanto
estremo", "non possiede né profondità né
una dimensione demoniaca. Esso può invadere e devastare il mondo
intero, perché si espande sulla sua superficie come un fungo. Esso
'sfida' il pensiero, perché il pensiero cerca di raggiungere la
profondità, di andare alle radici, e nel momento in cui cerca il
male è frustrato perché non trova nulla. Questa è
la sua 'banalità'. Solo il bene è profondo e può
essere radicale" (H. Arendt). Disobbedienza
civile, che si ribella, non ubbidisce più perché nega il
'tacito assenso", è rifiutare l'appoggio, ed è "una
delle tante varianti dell'azione non violenta", "una forma di
resistenza del nostro secolo" (H. Arendt, La responsabilità
personale sotto la dittatura cit. p. 206). E per la sua natura di opinione
che si forma nel confronto collettivo, proviene dal giudicare (che prelude
alla decisione ed è primario nel politico), ed "è una
delle più importanti, se non la più importante attività
nella quale si manifesti il nostro 'condividere il mondo con altri'"
(H. Arendt, Tra passato e futuro, cit. p. 284). Vuole cambiare il mondo,
ma senza l'uso della violenza. È sfida collettiva alla società
di massa. È la risposta forse più adeguata alla società
di massa e ai suoi caratteri avvolgenti. Così
in val di Susa abbiamo visti sindaci e tutta la popolazione presidiando
la valle giorno e notte hanno esercitato la disobbedienza civile. Protestando
hanno esercitato un diritto politico. Anzi, meglio, hanno esercitato il
diritto alla politica, che è potere condiviso. |