“La perdita”
di Ambrogio Cozzi

 

Mi è piaciuto molto la scelta del titolo per questo testo, perché rimanda a qualcosa di inattuale, in una vita quotidiana tesa a conquistare e che mal sopporta la perdita. Inattuale anche rispetto alle elaborazioni che si leggono sulla depressione e il lutto.

“Rossana: L’ho presa larga per dire che una perdita politica può essere vissuta in due modi. Uno come seguito di errori, debolezze, tradimenti dovuti a un fatale degenerare dell’umano, l’altro come percorso tragico, pieno di errori e cadute, ma non senza senso…” e continua
“Come la poesia di Kavafis, quando vede la sua vita come una fila di candele, e quelle spente diventano sempre di più, e non riesce a vedere che quelle spente. Anch’io. Non è contraddittorio? Sei ancora attaccata alla vita, ma non fai più progetti, la coscienza di essere andata molto in là ti demotiva."
Manuela: "Sicuramente. Per forza di cose diminuisce l’investimento sul futuro ma può darsi – e accade molto più spesso di quanto si creda – che diventi forte, molto forte, il significato vitale legato al presente.”

Sono due possibilità del discorso sulla perdita presenti in questo testo colloquio. La prima rimanda ad una perdita di senso dell’esistente, ad una sorta di spaesamento, un vivere in un mondo che non si riconosce, in cui le coordinate di ieri non servono più. La seconda dimensione riguarda il mondo degli affetti, la perdita delle persone a noi vicine, le candele che si spengono, il futuro che si contrae.

La prima dimensione si riferisce alle tragedie collettive in cui si è stati immersi o delle quali si è stati testimoni, la seconda ad una dimensione più privata, riservata, eppure anch’essa collettiva ma su un altro versante, quello di una condizione minima che azzera le differenze riconsegnandoci alla finitezza, ad una vita a termine “Rossana: ….Per me l’eternità – un’idea che non mi è mai piaciuta – evoca l’immagine di una solitudine che passa attraverso le vite finite degli altri. Terribile. In fondo, in qualche modo, il sopravvivere agli altri alimenta l’idea falsa e onnipotente di una nostra solitudine dovuta al fatto che loro sono morti e noi no….”  “Manuela: …Un aspetto inquietante della perdita è anche questo: fare esperienza del fatto che viviamo senza l’altro, da una parte è rassicurante, dall’altra è un incontro brutale con la nostra solitudine e con la nostra singolarità…”

Sulla prima dimensione, più acuto e sentito di quanto possa affiorare in queste pagine, ci è sembrato parecchi anni fa un altro testo di Rossana Rossanda, Un viaggio inutile. In quel testo la perdita veniva incontrata non alla fine, ma all’interno di un percorso politico. La perdita si insinuava nel quotidiano, in incontri che rimandavano ad una solitudine che marcava le distanze dalla militanza e dai rapporti che questa aveva creato, perdita perché si era intravista una differenza grossa che separava dagli altri.
Forse questa separazione è un elemento centrale della perdita, la perdita separa da chi se ne è andato, ma anche da chi rimane, ci rimanda a qualcosa di non condivisibile, di strettamente individuale, pur rinviando ad una condizione generale dell’esistenza umana.

Ma forse come sottolinea Lea Melandri nella postfazione “La malinconia, connessa alla perdita di senso, alla morte che cala sui rapporti con gli altri e con le cose che abbiamo intorno, non è forse, in molti casi il messaggio che viene da quella specie di esilio, per non dire cancellazione, a cui la vita pubblica, i suoi poteri, i suoi linguaggi, le sue istituzioni, hanno costretto esperienze che restano al centro della vita degli umani e su cui pesa un inspiegabile analfabetismo, una barbarie fatta di pregiudizi, silenzi……….. la morte è una vicenda comune a tutti i viventi, e non è insignificante e senza conseguenze il fatto che i modelli di civiltà finora conosciuti l’abbiano respinta sempre più ai margini della loro sfera pubblica, permesso che diventasse l’ossessione segreta dell’agire collettivo e, nel medesimo tempo, ciò che non è pensabile né oggetto di rappresentazione.”

Ci sembra significativa questa saldatura tra l’essere messa fuori scena della perdita e il suo agire come trama ossessiva, quasi un ritorno del rimosso mascherato e ineludibile, quasi che il lavoro del lutto venisse a coincidere con il rimettere fuori scena senza residui, senza memoria.
Cosa ne sarebbe se il lutto, come poi avviene nel quotidiano, conservasse memoria di ciò che è stato, di chi è stato, non come rinvio rituale, ma come possibilità di convivere con la perdita?

Introdurre questa dimensione potrebbe mutare l’agire quotidiano, non tanto in senso perdente e rassegnato, ma come introduzione di una dimensione non emendabile, non superabile, che segna non solo un confine ma l’apertura di nuove possibilità, dove il dolore non deve essere confinato ma ricompresso come incontro possibile. Forse solo introducendo la dimensione della perdita si potrebbe sfuggire alla depressione, all’assenza di senso. In fondo il senso sovrastorico e collettivo potrebbe essere rigenerato dalla vicinanza con il dolore, dall’incontro con la sofferenza.

L’incontro con la sofferenza ci potrebbe rimandare all’impossibilità di risolverla, alla ricerca di possibilità di conviverci. Oggi che tutto ci sembra possibile, saper accogliere la dimensione del non possibile sarebbe forse la miglior cura della cura, servirebbe forse a ridare un senso alla cura come possibilità di accoglienza. Forse anche la vita pubblica potrebbe uscirne meno incattivita dal ricomprendere nel suo pensabile la coscienza del limite.

Era una mattina fredda di primavera, avevo subito la perdita recente di una persona cara e stavo guardando in modo assente il giardino. Il prato era cosparso di petali caduti dagli alberi. All’improvviso un refolo di vento alzò i petali portandoli oltre il muretto di cinta, facendoli scomparire alla vista. Mi trovai a pensare alla persona scomparsa fissando un paesaggio che era mutato, che permaneva nonostante l’assenza. Il prato era stato ripulito dai petali, era tornato il silenzio che il vento aveva rotto. Ritrovai la possibilità di convivere con quell’assenza, anche se la permanenza delle cose mi sembrava insopportabile. Ma in quella permanenza stava anche il ricordo come una cicatrice che segnava l’esistenza e ancora la segna.


Emanuela Fraire e Rossana Rossanda
La perdita

a cura di Lea Melandri
Bollati Boringhieri, maggio 2008,
€ 6,50, 88 Pagine

questo articolo è stato pubblicato su Liberazione del 28/06/2008

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