Marina Piazza, L’età in più. Narrazione in fogli sparsi

Luisella Erlicher

 

 

Il bel libro di Marina Piazza sulla vecchiaia mi ha molto colpita personalmente.
Ricordo che alla lettura delle prime bozze che Marina mi aveva consegnato, da amica perché  le dessi un parere di lettrice attenta quale lei mi valuta, una commozione forte si era impadronita di me. Letteralmente non riuscivo a smettere di piangere e con ciò a  costruire un parere che non fosse solo la risonanza empatica con le riflessioni di un’autobiografia  che mi sentivo di condividere in molti aspetti e che smuoveva parti profonde della mia “anima”.
Marina mi chiedeva “Come lo trovi?” e io sfuggivo a lei e a me stessa.
Forse perché nella narrazione disincantata e nella riflessione lucida, strettamente intrecciate in tutto il dispiegarsi del testo, vi sono aspetti sgradevoli  per il fatto stesso che vi si parla di vecchiaia, qualcosa che costituisce un tabù nella nostra epoca di gioventù coatta per tutte/i? Non credo.

Certo è che mi sarei aspettata qualcosa di simile ai precedenti libri di Marina:  un’analisi sociale e identitaria condotta su cluster generazionali di donne, l’utilizzo di apparati concettuali propri della ricerca degli studi di genere, insomma la mediazione e il distacco intellettuale di una biografia generazionale. Mi aspettavo un libro sulle donne di settant’anni e ho trovato molto di più: un percorso femminile individuale di ricerca di verità e di senso per sé.
Marina stessa ci spiega perché: “mentre in gruppo abbiamo attraversato la vita, la vecchiaia è solitaria”    E ancora “…non è più una famiglia allargata, ciascuna ha la propria vecchiaia da seguire”.
Sul fatto di non avere una mappa per l’età avanzata  e di dover scoprire il tessuto della nostra vita attraverso i fili diversamente intrecciati del Tappeto dei ricordi, che è la metafora del dipinto di Klee  che l’autrice ci consegna e che dall’inizio ci segue per tutto il testo,  si fonda il lavoro che Marina  svolge con questa scrittura.

Un lavoro duro, un faccia a faccia con se stessa, ma prezioso perché forse in qualche parte utile a qualcun altro. E per me lo è moltissimo.
Per essere in grado di avviare la  nuova creazione di senso, necessaria per sé,  che la vecchiaia  richiede a tutte noi; per mantenere  la  consapevolezza,  anche nell’età in più, di essere una generazione di donne innovatrici di identità; per prenderci cura di noi con attenzione e coraggio anche nelle riflessioni più difficili quali quelle sulla estrema vecchiaia, la morte e il commiato che Marina non edulcora; per tutti questi scopi l’autrice ci propone il metodo dell’autobiografia in fogli sparsi.

Non una logica, un filo rosso predefinito e ordinatore per la costruzione a priori di un senso nel flusso degli eventi, ma un intreccio tra il sorprendersi continuo all’emergere caotico, in qualche modo capriccioso dei ricordi e la consapevolezza, che si chiarisce man mano che il lavoro di presa di contatto con il passato procede, non solo dell’unicità ma anche della rappresentatività della propria storia come role model , come grandezza  femminile nelle circostanze di tempo, di luoghi  e di relazioni.

Citerò soltanto alcune di quelle che vorrei definire piattaforme di circostanze, che nel libro vengono via via presentate dall’autrice,  anch’io in ordine sparso appunto, scegliendo  quelle che più fanno scattare in me il meccanismo della identificazione.
La cosa più bella che mi sia capitata nella mia vecchiaia  è l’innamoramento per Giovanni, il mio primo nipotino. Quella sull’esperienza di essere nonna è una parte importante nell’economia del ricordo che l’autrice ci propone. Incontrando lui ho incontrato nuovamente me stessa.
E’ una parte lieve e insieme appassionata dove l’esperienza emotiva si presenta in stretta relazione con l’esperienza estetica. Gli episodi di Marina e Giovanni, nei quadri del diario che la nonna tiene, scorrono, come  un film on filming, per rallegrare la nostra vista e per intenerire il nostro sentire, immersi come sono nei paesaggi classici dell’idillio. La natura aperta e  rigogliosa di primavera, i giochi all’aperto e con gli animali amici,  i dialoghi intimi sulle prime scoperte del bambino.

Mi sembra che Marina ce ne fornisca una doppia interpretazione. Da un lato il recupero pieno e ricco di  una maternità un po’ smemorata e frettolosa, perché noi che oggi siamo nonne, siamo state mamme negli anni ’70 quando il tempo per sé, per la propria crescita personale   e per la ricerca di identità collettiva per le donne, metteva in seconda luce la riflessione sull’ affetto cardine del ruolo tradizionale.
Dall’altro lato la possibilità di sperimentare una relazione affettiva forte (ciò che  è diventato  disincanto ormai,  verso i nostri  distanti coetanei) con piccoli uomini dove il maschile si esprime nella ingenuità, nella energia e nel fascino di una differenza allo stato puro.
Un’altra passione emerge dal tessuto dei ricordi ed è quella per il lavoro: ho sempre lavorato tanto e continuo ancora.  Un lavoro con i tratti della  vocazione, sacro fuoco che concentra interesse sociale, politico, di studiosa… per cercare di interpretare l’esperienza intellettuale  e di vita delle donne.
Il lavoro come un buttarsi a tutto campo senza risparmio di sé e di energie, quasi dimenticandosi di sé per l’adesione totale all’oggetto della propria ricerca, al contenuto.

Non è che Marina non veda gli aspetti negativi della  scarsa e sempre rimandata cura di sé che ne deriva, ma è come se con il procedere dell’età anche questo nodo ingarbugliato nella sua come nella vita di molte donne (lavoro come passione quasi sfrenata, accanimento) acquistasse un suo più preciso significato. Il senso della continua apertura, ricercata in quanto avventura, costruzione di universi di possibilità per sé e per il mondo: piacere, complessità, sfida.

E fin qui gli aspetti luminosi dell’età avanzata.. Ma l’autrice non ci risparmia anche il tessuto di solitudine, perche non c’è più nessuno che ti pensa davvero, di smarrimento, una volta arrivata nella grande caverna della vecchiaia, di percezione dell’orrore del vuoto che ci attende e che già sentiamo, di rancore per tutte le vite non vissute, per tutti i pezzi di sé che forse si potevano salvare.
Lavoro duro, ma anche avventura complessa la scelta di essere donna consapevole nella vecchiaia, sempre condotta sul filo precario di un equilibrio tra lucidità adamantina  e riconciliazione amorevole.  Un compito etico però, che Marina Piazza ci indica come ineludibile,  se vogliamo accedere a una elaborazione di senso che non ci è più data dall’esterno, come accadeva nella giovinezza e nella maturità  ma viene ora dall’interno, in questa età in più della vita che  sentiamo, anche con un certo sgomento,  completamente nelle nostre mani.

 

Marina Piazza,
L’età in più. Narrazione in fogli sparsi

Ed.Ghena, Roma 2012 – 13 euro, pp.173

 

12-04-2012

 

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