La buona vita e l'economia
Antonella Picchio




Il mio ruolo come economista femminista all'incontro di Ravenna del 5 marzo su  "La buona vita e l'economia" organizzato da Associazione Orlando, da Femminile e Maschile Plurale, Assessorato Pari Opportunità Comune di Ravenna e da Donne CGIL e SPI CGIL era quello di riflettere su come l'esperienza della complessità della vita reale di donne e uomini modifichi  la visione dell'economia e viceversa.

Credo che sia utile partire da alcune sintonie  con Serge Latouche, che partecipava con me a questo incontro, per mettere in luce poi la nostra diversità di percorsi e riferimenti teorici, segnati, nel mo caso,  da uno sguardo femminista che non si limita a vedere le diseguaglianze tra donne e uomini in uno schema economico dato (economia di genere) ma che mira a modificare lo schema di riferimento per includervi processi reali e tensioni profonde, generalmente taciute e tenacemente rimosse, dalle analisi dello sviluppo, decrescita compresa (economia femminista).
Senz'altro condivido con Latouche il senso di pericolo e di insostenibilità inerente al sistema economico attuale e la consapevolezza della drammaticità della condizione umana in questo capitalismo aggressivo, predatorio, senza senso del limite, imprudente, folle e cinicamente indifferente ad una sofferenza umana sistemica, radicata in una diseguaglianza sociale insopportabile e crescente. Condivisa è anche  la volontà di cercare nuove visioni, prassi e politiche che pongano al centro come obiettivo prioritario un mutamento delle condizioni di vita partendo da una riflessione sul senso e la qualità della vita stessa.

Detto questo, e non  è poco, rimane da rilevare la diversità di percorso intellettuale e politico e anche la cecità nell'analisi di Latouche rispetto alla differenza di esperienza di vita di donne e uomini, questione cruciale per riuscire a porsi, in modo adeguato all'obiettivo,  la domanda quale vita? per chi? e, quindi, quale sviluppo? e quale stato?

Innanzitutto c'è da dire che io mi muovo all'interno di una riflessione di economia critica ma non al di fuori dell'analisi economica. Credo infatti che le visioni teoriche degli economisti siano riduttive, arroganti, mistificanti, pericolose e funzionali allo sviluppo di un capitalismo molto aggressivo, ma sono anche convinta che la riflessione su come produrre, distribuire, scambiare beni e servizi e riprodurre socialmente la popolazione siano questioni analitiche imprescindibili e, confesso, appassionanti, proprio perché dalla sostenibilità e dall'armonia di questi processi dipende la qualità della vita materiale, culturale e relazionale di donne e uomini in carne ed ossa. Ciò significa che la critica deve essere fatta rispetto alla struttura del sistema nel suo complesso e non solo alla crescita della produzione, alle tecniche, al pericolo ecologico, al consumismo insensato. 

Inoltre penso che nel XXI secolo non si possa fare una critica del modo di produzione capitalistico se non partendo da una prospettiva femminista in grado di includere all'interno della visione del sistema, nei suoi fondamenti, la qualità e il senso della relazione tra produzione  di beni e servizi 'comodi, utili e piacevoli alla vita' e la riproduzione sociale delle popolazione, formata da donne e uomini visti nelle loro differenze e nell'intero ciclo di vita.  Al momento della fondazione dell'economia politica alla fine del '700 la riproduzione sociale stava al centro della teoria del salario (sussistenza), della produzione (la sussistenza è capitale in quanto necessaria a mettere in condizioni di produrre), della determinazione del profitto (residuo tra produzione e salario) ed era al centro della teoria economica. Per Marx la relazione tra produzione di merci e riproduzione sociale dei lavoratori stava al centro dell'analisi dell'alienazione, del salario come prezzo normale del lavoro, del conflitto, dell'accumulazione originaria, del sottoconsumo (che nel capitalismo convive con l'opulenza e e porta a crisi di povertà nell'abbondanza), etc.

A questa lucidità e radicalità analitica sulla struttura del sistema capitalistico dobbiamo aggiungere tutto ciò che ha prodotto il ventesimo secolo sull'analisi della complessità della vita e sull'impossibilità di scindere corpo e mente. Ad esempio, se centriamo l'analisi e la prassi politica sulla qualità dei processi di vita effettivi non possiamo non vedere l'enorme massa di lavoro di trasformazione dei beni, manutenzione delle cose e degli ambienti di vita e di cura dei corpi, delle menti e delle costituita dal lavoro non pagato.
Le rilevazioni degli istituti nazionali di statistica su questo lavoro ormai ci consentono di sapere quanto è, chi lo fa, quando, etc. Sappiamo quindi in quasi tutti i paesi è un po' più del totale del lavoro pagato: salariato, autonomo, fordista, della conoscenza, dei managers, della funzione pubblica, etc. . Le statistiche ci dicono anche che le clamorose diseguaglianze nella divisione di genere del lavoro non pagato domestico e di cura sono la madre di tutte le diseguaglianze tra  uomini e donne nello spazio pubblico: lavoro pagato, rappresentanza politica, accesso alle risorse. Inoltre sappiamo che questo lavoro ha una qualità etica e relazionale in grado di spostare la visione economica svelandone il riduttivismo mistificante.

Si tratta di un lavoro chiuso in una sfera intima che non trova collocazione adeguata nelle analisi economiche e politiche,  tutte, anche quelle critiche, offuscate da miti maschili che, sia a destra che a sinistra, continuano a vedere le donne come naturalmente sacrificali e consolatorie e, in fondo, onnipotenti, in grado cioè di sostenere  la responsabilità finale della qualità della vita quotidiana e di aggiustare le risorse distribuite alle aspirazioni di vita (lavoro domestico) o,  quanto meno,  di adattare le aspirazioni ad una buona vita alla loro scarsità e qualità (lavoro di cura).
Ciò significa che questo lavoro non è legato solo ad un problema di quanto e come si produce ma anche a quello delle regole distributive e dei processi di vita che rendono quella produzione e distribuzione effettivamente (in)sostenibile.
L'insostenibilità della riproduzione sociale è una questione drammatica nel mondo attuale ed è una questione di sesso e di classe, fortemente intrecciati, che la sinistra continua a non voler vedere e sentire perpetuando un silenzio tenace, ottuso, e autolesionista. I destinatari del lavoro non pagato delle donne sono ancora soprattutto gli uomini adulti che scaricano la loro naturale vulnerabilità umana e la loro storica sconfitta sul lavoro pagato sulle donne, controllandone e reprimendone, anche con la violenza, i conflitti e le aspirazioni ad una buona vita.
Fino a quando gli uomini adulti non porteranno nello spazio pubblico e politico il loro disagio del corpo e della mente e non collegheranno in modo più sano tempi di vita e di lavoro, desideri e realtà, potere e libertà, beni e relazioni, partendo dai loro corpi, insicurezze, emozioni, non c'è speranza di arrivare ad una buona vita liberata dalle devastazioni del lavoro salariato, della crescita insana, del consumo alienante, delle relazioni personali viziate dai rapporti di potere, fino all'intimità delle relazioni sessuali in cui anche il potere di un misero salario riesce a unire, in una vergognosa complicità maschile, Berlusconi e un operaio, uniti dall'uso, reale e fantastico, del corpo delle donne.

Questa ottusità maschile costruisce miti, magari capaci di mettere nella categoria del dono una massa di lavoro superiore a tutto il lavoro pagato, pur di non affrontare il conflitto inerente alle relazioni tra donne e uomini e porre con chiarezza il fatto che ' il personale è politico'.

Come economista femminista leggo la crisi innanzitutto come crisi capitalistica in risposta alla crescita di qualità della vita imposta, fino alla agli anni '70, al di là delle intenzioni delle politiche keynesiane, da una negoziazione diretta con lo stato su: salute, istruzione, pensioni e sicurezza sociale.  Questa negoziazione radicata in lotte operaie, di donne e uomini, cominciate nell'800 e arrivate, nel 900, a nuovi equilibri di potere, dopo il disastro di due guerre mondiali e la nascita dei sistemi socialisti, aveva sedimentato nuove condizioni materiali e immateriali e cambiato i rapporti di forza di classe.
Dagli anni '80 è cominciata una controffensiva reazionaria proprio sul terreno del welfare alla quale si sarebbe dovuto opporre una forte resistenza. In questa fase difensiva il femminismo avrebbe potuto essere una forza utile a chiarire il terreno del conflitto, i soggetti coinvolti e le loro passioni. Si sarebbe potuti partire da un principio di realtà,  radicato nella vita materiale: nei corpi e nella loro vulnerabilità sociale e potenzialità politica delle loro passioni. La sinistra ha, invece, preferito, da un lato, avvallare dei modelli di sviluppo lavoristi, produttivistici e  liberisti, dall'altro, proporre forme di lotta, anche violenta, riferite alla presa del potere e non a consolidare forme di vita sostenibili nel quotidiano.

Per concludere,  credo che il cammino che possa portare ad una buona vita per donne e uomini, nomadi in uno spazio globale e arroccati in uno spazio domestico, debba essere faticosamente percorso, partendo dall'attuale contesto di capitalismo aggressivo e reazionario nelle sue specificità territoriali; evidenziando le relazioni di potere tra sessi che segnano la divisione del lavoro pagato e non pagato e la divisione delle responsabilità pubbliche e private rispetto alla sostenibilità e qualità delle condizioni effettive di vita; mettendo, infine, in luce la catena etica che lega la totale irresponsabilità degli speculatori finanziari (banche comprese) e la responsabilità finale delle condizioni di vita scaricata sulle donne, tanto densa da non riuscire ad essere detta e messa adeguatamente a fuoco.
Si deve poi aprire uno spazio di riflessione sulla relazione tra individuo e società e sopratutto tra libertà individuale e società. Anche su questo il femminismo ha qualcosa da insegnare, la libertà delle donne sul loro corpo e sull'autonomia delle relazioni è al centro del femminismo e non è riducibile a un progetto che si risolve nel benessere di un gruppo sociale (famiglia, classe, etnia, etc).
Le vite sono alla fine dei conti un'esperienza individuale, collocata in un contesto e in una rete di relazioni interattive, se non la si vede anche come tale si rischia di delegare alle donne la responsabilità degli aggiustamenti finali annegandole nella debolezza altrui. 

Infine, il percorso verso una buona vita deve essere agito nella prassi e non può fare a meno delle donne che vedono a fondo della realtà quotidiana e patiscono in modo particolare le tensioni  legate all'esercizio della libertà, individuale e collettiva. 
Si tratta di un percorso che non può essere pensato con scorciatoie liberiste e sviluppiste ma neppure deterministe, nel senso di un materialismo rozzo o  utopiste, nel senso di sognare un luogo salvifico altrove e/o dopo la crisi, magari 'femminile' perché relazionale, etico e oblativo.

25-04-2011

 

home