Quel conflitto capitale-lavoro
che unisce sinistre e femminismo
di Antonella Picchio

Natalia Goncharova
Invece di indagare sulle difficoltà di
comunicazione politica tra pratiche e pensiero femminista e le varie
componenti della sinistra presenti alla Fiera di Roma il 15 gennaio,
preferisco fare finta che una possibilità di comunicazione esista e
cercherò di precisare il terreno comune, oltre a quello urgente di
liberarci di questo governo.
A mio avviso, il terreno di incontro, è quello del conflitto radicale
insito nella relazione capitale-lavoro. Per incontrarsi davvero su questo
terreno, tuttavia, sia i femminismi che le sinistre avranno molto lavoro
da fare, anche al loro interno.
Ci troviamo attualmente di fronte ad un capitalismo molto aggressivo e
pericoloso, per i suoi effetti sul genere umano e sull'ambiente. Questo
costringe ad indagarne la natura svelando, nei suoi fondamenti, una
tensione radicale tra condizioni di produzione e scambio delle merci e
condizioni di vita della popolazione che dipende, in modo diretto o
indiretto, da un salario.
Per capire il sistema del lavoro salariato, che caratterizza il sistema
capitalista, se ne devono evidenziare: ambivalenze, doppie prospettive,
rapporti di forza, conflitti. Si deve anche specificare come si
concettualizza l'individuo nella sua multidimensionalità (corpo, mente e
relazioni) e nel suo rapporto con oikos e polis. Le condizioni di vita,
infatti, sono sempre anche una questione filosofica. Non a caso l'economia
politica nel momento della sua fondazione, era radicata nella filosofia
morale e politica.
Il pensiero economico, sia quello dominante che quello critico, ha
proceduto con progressivi riduttivismi, dovuti anche ad uno strabismo
metodologico a favore di produzione e scambio delle merci e di cecità
crescente rispetto al processo di riproduzione sociale della popolazione
lavoratrice. Si è persa così la chiarezza sul sistema capitalistico degli
economisti classici (Smith, Ricardo, Marx), che definivano il profitto
come residuo tra il prodotto e tutto ciò che andava alla popolazione
lavoratrice (salari e assistenza pubblica).
Due erano le chiavi di apertura nell'analisi economica classica:
1) la definizione dell'individuo sulla base di un corpo pensante,
socializzato e socializzante (Smith e Marx),
2) l'individuazione di un conflitto tra salari, definiti come costo di
riproduzione sociale, e profitti, espresso con radicalità diversa nei vari
autori.
Comune era invece il riduttivismo inerente alla definizione di individuo,
in teoria neutro e nei fatti maschio, con effetti gravi sulla
consapevolezza del corpo e sulla politicità del processo di riproduzione
della popolazione.
Tuttavia, molte cose si vedevano con chiarezza, ad esempio l'ambivalenza
capitalistica tra libertà e servitù. I lavoratori salariati sono liberi,
ma sono anche il mezzo di produzione fondamentale. In particolare, come
già Smith nota, i salariati sono lasciati liberi di gestire la loro
riproduzione ma sono asserviti nella produzione.
A differenza degli
schiavi, possono avere una famiglia, e questa libertà è una fonte di
risparmio per i capitalisti. Come i padroni di schiavi, devono pagare la
sussistenza dei lavoratori per metterli in condizione di lavorare, ma la
migliore qualità della vita del salariato costa meno che la pessima
qualità della vita dello schiavo, per l'efficienza e la parsimonia con cui
viene gestita la sussistenza familiare e per la deresponsabilizzazione del
padrone. In questo modo di riproduzione, la differenza sessuale è centrale
e conflittuale e per questo rimossa dall'analisi degli economisti.
Per cogliere i profondi conflitti inerenti alla relazione capitalistica
tra produzione di merci e riproduzione sociale del lavoro, è importante
mettere in luce la doppia prospettiva di classe sul salario. Per i
capitalisti, il salario è un costo da contenere, per i lavoratori, è un
mezzo per vivere. Per i capitalisti, è necessario mantenere un adeguato
livello di profitto, per i lavoratori, difendere un certo livello di vita.
I capitalisti, per difendere il profitto, hanno interesse a mortificare il
grado di umanità dei lavoratori, di mantenere solo la popolazione
produttiva, di tenere la popolazione lavoratrice in una condizione di
insicurezza endemica, vera chiave del comando sul lavoro, e di contenerne
la forza politica.
Le lotte di uomini e donne nel novecento hanno ottenuto un salario sociale
composto di istruzione, sanità, pensioni che ha spostato notevolmente gli
assetti distributivi e le relazioni tra classi e per questo è attualmente
al centro dell'attacco reazionario. Il welfare che conosciamo, tuttavia,
come ha detto Lida Menapace, riflette tre grandi assi di cultura politica
«[quella] liberale dei diritti comuni personali, quella cristiana della
carità socialmente intesa e quella marxista della giustizia sociale».
Culture politiche che, in vari modi, chiudono le donne in una femminilità
riproduttiva sacrificale, definita dal potere maschile. Il welfare come lo
conosciamo è quindi un terreno certamente da difendere, ma anche da
superare, cosa possibile solo valorizzando la soggettività politica delle
donne.
Il movimento femminista degli anni '70 si è mosso direttamente sul terreno
del corpo, del simbolico, delle relazioni, dell'intreccio tra condizioni
di vita e di lavoro, della pari dignità di tutti i lavori, dell'analisi
dei processi di riproduzione sociale a livello globale, del riconoscimento
della e delle differenze, non come identità ma come libertà di
composizione di dimensioni di vita e di relazioni. Ha usato una storia
millenaria di esperienza del vivere (e della vulnerabilità e aggressività
dei maschi adulti) e ha valorizzato le relazioni tra donne e le loro
battaglie sul terreno delle condizioni e del senso del vivere.
Questa
esperienza politica viene praticamente ignorata dalla sinistra italiana
che: pensa che l'unica dimensione politica progressista sia legata
all'occupazione, vale a dire all'entrata nel mercato del lavoro salariato;
nasconde come banale fatto domestico una massa di lavoro non pagato,
maggiore di quella del totale del lavoro pagato; fa del proprio corpo una
questione esclusivamente intima e della violenza contro le donne un fatto
di cronaca nera; ritiene, giustamente, 1500 morti all'anno sul lavoro
salariato una tragedia e non si accorge degli 8000 morti (70% donne) per
incidenti domestici; si diverte di fronte alle sistematiche lesioni della
dignità della persona alle quali sono sottoposte le donne, in casa e
fuori; scambia il patriarcato per folklore e non ne denuncia la
responsabilità maschile e infine, per disporre di uno spazio "libero" di
protezione, sfogo e consolazione, è sempre pronta a patteggiare con il
nemico di classe il controllo sul corpo e sul lavoro delle donne.
Il problema della sinistra è che queste relazioni sessuali, grazie al
femminismo, sono saltate, è quindi urgente costruirne altre, negoziando
con le donne nuove strategie anticapitaliste, assumendosi in prima persona
la responsabilità della propria vita, a partire dalla complessità del
proprio corpo.
01.02.2005
da Liberazione del 29
Gennaio 2005
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