Brunetta, c’è un lavoro femminile che non vedi
Intervista all’economista Antonella Picchio

di Tonino Bucci


Antonella Picchio


Tutti in pensione alla stessa età, uomini e donne. Semplice, perentorio, di cartesiana evidenza. Lo slogan brilla di (falso) ugualitarismo e il mini­stro Brunetta che l'ha lanciato nei giorni scorsi si presenta all'opinione pubblica come l'eroe che fa piazza pulita delle concezioni assistenzialiste e discriminanti. Cosa ci sarebbe di più paritario del voler "emancipare" le donne da chi le considera incapaci di lavorare tanto a lungo quanto i colleghi maschi?
Viene in niente quel che Marx scriveva nella Critica al programma di Gotha. «Domina qui evidentemente lo stes­so principio che regola lo scambio delle merci in quanto è scambio di valori uguali. L'uguale diritto è qui perciò sempre, secondo il principio, diritto borghese».
Agli occhi dell'aziendalismo i lavori sono tutti uguali, si scambiano come le merci e qualunque specificità, qualunque differenza tra lavoro maschile e lavoro femminile va a farsi benedire. Perché di lavori diseguali si tratta.
Diversi per salario (a parità di mansione le donne guadagnano di meno), diversi per aspettative di carriera. Ma diversi anche per un altro motivo: il lavoro femminile non è solo lavoro salariato. C'è una massa di attività sociale non retribuita che per la maggior parte è svolta dalle donne.
Ma è un lavoro invisibile, generalmente disprezzato, svalutato, relegato ai margini della dimensione pubblica e sociale, messo in carico riduttivamente alla sfera del privato, indegno di considerazione teorica.
Parliamo del lavoro domestico che si somma al lavoro retribuito e che è diventato essenziale nella riproduzione della società e della qualità di vita di ciascuno di noi.

Insiste molto su questo punto Antonella Picchio, docente di economia politica all'università di Modena da una prospettiva di genere. Ce l'ha parecchio anche con la sinistra che «non ha mai capito l'importanza sociale del lavoro non retribuito e ha distolto lo sguardo da tutto ciò che non è lavoro salariato». Dovrebbe imparare dal femminismo a vedere come sia strutturale in questa economia il conflitto tra chi produce per il profitto e chi produce per la qualità della vita. «Le femministe lo hanno scoperto a partire dal proprio corpo. Uomini e donne hanno due diversi modi di intendere il rapporto tra dimensione sociale e dimensione privata, tra sfera pubblica e sfera intima».

Brunetta dice che tra uomini e donne non c'è differenza. Come smontiamo questo falso ugualitarismo?

Le esperienze di vita sono diverse. Dire che uomini e donne sono diversi non è una bestemmia. Sarebbe una mistificazione affermare che so­no uguali. Qui la sinistra non è esente da errori. Intanto, le donne non sono una categoria e non sono una questione sociale. Sono un soggetto. Brunetta è un economista convinto che sia una questione di scelta di come usare il tempo e di rigidità delle donne a rispondere agli incentivi di prezzo (salario e pensioni) o di qualcuno che le trattiene nella sfera domestica. Il problema è che c'è un lavoro non pagato che viene nascosto: le donne difendono e sostengono, per necessità e responsabilità, le vite loro e delle persone a loro care. La complessità delle loro vite potrebbe essere illuminante se fosse vista come esperienza materiale e politica, fonte di pensiero, e non come strumento di sostenibilità di un sistema di accumulazione capitalistica e della qualità delle vite maschili. Le donne sono molto più complicate di quanto Brunetta pensi, e molto più conflittuali. Ma anche la sinistra sottovaluta che nei corpi e nelle relazioni c'è la chiave fondamentale che sostiene l'intero sistema dei lavori e delle vite.


Ecco, appunto. C'è il problema di un lavoro tra le mura domestiche dì cui le donne si assumono in gran parte il carico, anche per via di una gerarchia "naturalizzata" tra maschio e femmina. Non si deve tener conto di questo lavoro relegato nel privato quando parliamo di età pensionabile delle donne?

Dobbiamo partire da questa massa di lavoro domestico che viene relegato ai margini. Che tipo di lavoro è? Come possiamo descriverlo? E' la manutenzione degli ambienti, la trasformazione del cibo, il lavare, il pulire, fare la spesa, la cura dei bambini, oltre alle mansioni maschili anch'esse non pagate, come giardinaggio, riparazione e manutenzione. Poi c'è il volontariato. Insomma esiste una massa di lavoro non pagato che ormai è indagine di statistiche molto raffinate che si fanno in tutti i paesi industriali.
C'è uno studio fatto in Australia, ad esempio, che mostra un dato significativo: il lavoro domestico e di cura non pagato è un po' di più del totale del lavoro pagato. Però sul lavoro salariato facciamo inchieste, creiamo istituzioni come i sindacati, pratichiamo negoziazioni, qualche volta persino rivoluzioni.
Invece dell'altro tipo di lavoro, quello domestico non pagato, pensiamo che sia un fatto "naturale", intimo, chiuso nelle case e che rappresenti un'arretratezza da cui emanciparsi. Le statistiche dei paesi industriali dimostrano il contrario. Questo lavoro sta crescendo ed è ovvio perché aumenta la popolazione non autosufficiente. Il che renderà questo lavoro insostenibile.
In Italia muoiono ottomila persone all'anno per incidenti in casa. Più del settanta per cento sono donne. E non parliamo delle violenze. Vista la massa di lavoro le relazioni tra uomini e donne si fanno tese.


C'è un nesso tra l'aumento di questa quota di lavoro non retribuito e lo smantellamento del sistema di servizi e di protezione sociale del welfare?

E' evidente. Ma possiamo porci il problema se questo lavoro aumenti o meno soltanto dopo averlo collocato in un quadro analitico. Negli studi di economia il processo di riproduzio­ne sociale del lavoro non è messo a tema. C'era nelle teorie di Smith, Ricardo e Marx, in cui il salario era la sussistenza, ossia ciò che era conven­zionalmente necessario a riprodurre il lavoratore e a metterlo in condizione di lavorare. Per gli economisti successivi il salario è deciso da domanda e offerta. E' il mercato che distribuisce i redditi. Il lavoro domestico e di cura serve da meccanismo di aggiustamento tra le risorse distribuite e la qualità della vita.
Se l'economia va verso il profitto, verso la produzione di merci e verso la produttività, nelle case si deve pensare invece alla vita delle persone. E sono le donne a dover interiorizzare questa responsabilità. Ma non solo nei confronti dei malati e dei bambini, anche rispetto alla vita dei maschi adulti. Il grosso del lavoro domestico e di cura è per i maschi adulti i quali, come tutti, hanno corpi vulnerabili, emozioni, passioni, ansie.
I ritmi di lavoro crescono sempre di più e i nuovi lavori sono ansiogeni. Quei corpi normali di lavoratori così carichi di ansie devono essere sostenuti quotidianamente perché altrimenti non sarebbero in grado di lavorare nei nuovi lavori.
Questo è ciò che manca nella visione di Brunetta, ma manca anche nella visione di tutta la sinistra. Trent'anni di femminismo non vi hanno spostato di un filo. Parlate delle badanti e dei nuovi lavori femminili, ma il pezzo di lavoro di riproduzione sociale lo lasciate nel vostro intimo.
Qui non capiamo che le relazioni di vita tra uomini e donne saranno massacrate. Aumenterà la violenza sulle donne. Non basterà difendere qualche posto di lavoro. Smantelleranno il welfare, le situazioni di vita saranno tesissime, le condizioni in casa diventeranno pessime.
Chi assorbirà tutta questa tensione? L'Istat lo dice da tempo che la situazione è insostenibile.
Indagini sull'uso del tempo nelle società industrializzate dimostrano che il lavoro non pagato cresce. Ma siccome è lavoro domestico allora pensiamo che sia una banalità. Diventa un po' meno banale solo se parliamo delle lavoratrici salariate.


Forse è ingiusto dire che la sinistra snobbi ti lavoro domestico. Addirittura prima del femminismo si diceva che le lavoratrici avevano in quanto donne una specificità, che al lavoro salariato sommavano, appunto, un lavoro non retribuito. O no?

Sì, ma nella chiave della loro conciliazione. Si poneva il problema come questione femminile e non come questione strutturale. Le donne han­no provato a conciliare i due lavori e questi si sono cumulati senza portare ad aumenti di reddito. Anzi, nella stessa opulenta Emilia, a Modena per esempio, ci sono tassi di attività femminili oltre il 60%, tra i più alti in Italia. Ma il differenziale dei redditi da lavoro in aggregato tra uomini e don­ne è di circa il 40%. I differenziali di genere crescono al crescere del livello di studio. La povertà delle donne anziane è marcata anche a Modena perché alla fine si cumulano tutti gli effetti degli svantaggi relativi di una vita intera.


Il lavoro di cura per il benessere degli uomini si scarica sulle donne. Ed è un carico che cresce anche perché i nuovi lavori sono sempre più precari e gli orari sempre più dilatati. Se non ragioniamo su un modo più umano di lavorare è chiaro che le relazioni degenerano.

Le donne, oltre alle attività per se stesse, hanno la responsabilità che il loro compagno maschio sia in grado di tornare a lavorare la mattina. Ieri alla catena di montaggio, oggi al computer. Per aumentare la produttività fanno perno sulle tue ansie, le tue paure. Le persone vengono svuotate e qualcuna deve ricostituirle. Però nessuno ricostituisce le donne e queste diventano più malate e più povere. Dobbiamo riprendere in mano la questione della riduzione dell'orario di lavoro.
Cominciamo da lì. Salari migliori, più tempo e più servizi. Però prima dobbiamo capire come funziona la riproduzione della vita e la complessità del rapporto tra corpo e mente che le donne conoscono molto bene. Ne hanno fatto l'oggetto della loro politica ormai da tempo. Le donne hanno lottato sui corpi e sui soldi. Ma ogni volta che entrano in un partito di sinistra le cose si riducono soltanto al lavoro salariato.
La sinistra deve porsi il problema del legame tra produzione e riproduzione soprattutto ora. Sarà una crisi epocale mai vista. Da quella del '29 si è usciti per davvero solo con la guerra, altro che politiche keinesiane. Oggi rischiamo di andare incontro alla distruzione delle vite e delle relazioni. Dobbiamo abbandonare l'idea che il lavoro domestico sia qualcosa di banale. Lì dentro c'è la cura, la responsabilità, la preparazione dei cibi, la manutenzione degli spazi.
Svelare le vite come terreno di conflitto politico e non solo di conflitti personali diventa sempre più essenziale con la crisi epocale di riproduzione sociale che si è appena aperta a livello globale. Le vite reali, nella loro complessità e differenze, sono l'unico contrap­peso politicamente possibile all'ingordigia cieca e insipiente del profitto e della rendita finanziaria che l'hanno provocata.
Il lavoro di cura è destinato a crescere. Le giovani generazioni, ad esempio, avranno meno fratelli e avranno genitori più anziani con pensioni da fame. Chi se ne prenderà cura? Le donne. Questo è un altro motivo per cui le donne saranno costrette ad andare in pensione prima. Le loro pensioni saranno talmente basse che non avranno incentivi a restare. E anche se restano non hanno prospettiva di carriera.
Con le pensioni contributive si sta pianificando la povertà degli anziani, sia uomini sia donne. Avremo una generazione di anziani non solo con gli acciacchi e l'Alzheimer, ma senza neppure i soldi per pagare ciò che gli serve. Il conflitto con i figli sarà inevitabile. La tensione tra un produrre per un profitto e un produrre per il benessere e una vita sostenibile è una tensione strutturale.


Però non lo scopriamo certo oggi che la produzione di merci e profitti ha bisogno che venga di continuo riprodotta la vita delle persone che lavorano.

Marx ha posto il conflitto di classe tra il valore del lavoro e della vita, da un lato, e il valore delle merci inteso come lavoro incorporato, dall'altro. Femminista non era, ma era una teoria che poteva tenere il conflitto. Ma trent'anni di femminismo non sono bastati. Tutti pensate che il lavoro domestico sia un'arretratezza. La modernità sta proprio in questa tensione crescente tra i modi della produzione e i modi della riproduzione per la qualità del vivere. Ecco perché bisogna guardare alla vita delle donne. Non solo a quella delle salariate. C'è un lavoro non salariato per la qualità della vita ed è un lavoro re­presso, mortificato, non valorizzato, non visibile a livello politico, neppure a sinistra.


Mi sembra però che lo stesso femminismo abbia avuto problemi con il lavoro domestico. Posizioni diverse ce ne sono state, no? Alcune femministe lanciavano anatemi contro il lavoro domestico e provavano orrore per la "casalinga". Vedevano il lavoro domestico come un’arretratezza da cui emanciparsi. Altre, più recentemente, sono tornate a ragionarci su. Se non diciamo questo va a finire che è solo colpa della sinistra…

Questo è vero. C'è anche una colpa del femminismo, un deficit di autonomia. Le donne devono diventare soggetto attivo sennò si finisce nel solito discorso dell'emancipazione. All'altro estremo abbiamo invece un femminismo trionfalista che nel lavo­ro femminile di cura vede solo un la­voro creativo. I femminismi sono molti e c'è ancora tanto da fare.

 

da Liberazione del 27 dicembre 2008

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