Quattro donne e un interno arabo alla periferia di Milano
di Cinzia Polino

 

Kadija, Nadia e Fatima sono marocchine, Sherifa è algerina. Abitano in un quartiere in fondo a via dei Missaglia, periferia estrema a sud di Milano. I caseggiati sono parallelepipedi senz’altra pretesa che contenere il maggior numero di persone, a tratti hanno le facciate scrostate. C’è tutto lì vicino: ipermercati, negozi, medico, dentista. Però per raggiungere la prima metropolitana, in Piazza Duomo, ci si mette 45 minuti, se non c’è traffico.

Kadija mi accoglie sulla soglia di casa, senza velo. Nella sala dove mi fa accomodare c’è un grande tappeto. Sono l’unica a calpestarlo con le scarpe. I mobili sono di fattura araba, di legno chiaro. C’è un grande divano a semicerchio che circonda un tavolo basso, imbandito di dolci e caffelatte. “quasi tutti li ho fatti io, solo la torta l’ha fatta il supermercato”, dice scherzando.
 

Così inizia la conversazione. Non nascondono la disponibilità a parlare della loro esperienza di donne arabe immigrate. Fatima racconta che la difficoltà più grande, quando sono arrivate in Italia tra l’89 e il ’94, è stata la lingua: lei l’ha imparata lavorando con gli italiani. Nadia invece dalla televisione, “con le telenovelas di Rete4”, ma conosceva già il francese. Il discorso incrocia subito le difficoltà di integrazione. “quando io ho ricevuto lo sfratto, la persona italiana che avevo ospitato per sei mesi quando era stata sfrattata lei, non ha ricambiato, e io sono finita in mezzo a una strada. Per fortuna non ho dovuto veramente chiedere aiuto agli italiani in questi quindici anni”. Nadia è al non mese di gravidanza. Col primo figlio, nel ’94, aveva avuto difficoltà con la lingua e perché poteva contare solo su suo marito. Sherifa racconta che partorire in Algeria e in Marocco è completamente diverso: “La medicina è arretrata, le condizioni igieniche sono inferiori. Tuo marito ti lascia sulla porta con la valigia e torna quando tutto è finito. Ma quando partorisci c’è tutta la famiglia. Per quaranta giorni dopo il parto non fai niente. Le donne ella famiglia fanno tutto al posto tuo. Quando il bambino ha sette giorni facciamo il “battesimo”Famiglia, parenti. E tutti festeggiano”.  Famiglia, parenti. E vicini come parenti. “Questa familiarità con i vicini ci è mancata tanto qui in Italia – dice Kadija-. I miei vicini mi salutano, ma hanno sempre paura che se ci danno confidenza, siano sempre a casa loro. Ma per i miei vicini anziani vado a fare la spesa e a trovarli spesso, perché sono soli”.

Si arriva al velo. Il velo, spiegano, fa parte della loro cultura. Lo indossano quando escono di casa o quando in casa ci sono estranei e parenti non stretti. Sono contente di portarlo? Coro di sì. E’ Sherifa a spiegare: “Per la legge musulmana una ragazza si mette il velo verso dodici, tredici anni. Nel Corano è scritta una sura apposita”. La domanda è obbligata: cosa pensano della legge sui simboli religiosi in Francia? Sempre Sherifa: “Il velo è un simbolo particolare, per noi è un’imposizione religiosa. Non è vero che sono i nostri mariti e fratelli a costringerci a metterlo. Nel momento in cui noi accettiamo i precetti del Corano, accettiamo di sottometterci a Dio. Chi può cambiare la legge di Dio? Non possono costringermi a cambiare una cosa in cui credo. Noi ci sottomettiamo a Dio, non agli uomini”. Il discorso si accende.

Fatima dice che anche le suore cattoliche portano il velo, e in Sicilia anche le donne anziane. Qualcuna ha paura che la stessa legge possa essere applicata anche in Italia. Per Sherifa l’Italia non lo consentirà mai. “le donne arabe devono forse sacrificare il futuro dei propri figli non consentendogli di andare a scuola? Forse non vogliono che i musulmani continuino oltre la scuola dell’obbligo. Se è così, vuol dire che non vogliono che i musulmani arrivino a certi posti di prestigio nella società”: Eppure succede spesso che una donna decida di non indossare più il velo, forse per non creare troppa diversità fra sé e le altre donne italiane, forse per motivi religiosi più profondi. “Il marito non può obbligarla”. Nell’Islam c’è un precetto che indica l’uomo responsabile della vita religiosa e familiare. “Perché noi siamo volubili – dice Sherifa-, a volte ci va di pregare a volte no. Nella vita concreta di tutti i giorni ci si sveglia a vicenda per pregare: una volta sveglio io mio marito, un’altra mi sveglia lui. Se da un giorno all’altro una donna decide di non indossare più il velo, va contro tutti i principi su cui si reggeva il matrimonio. L’unione non può più andare avanti, perché l’unione tra coppie musulmane si basa sull’Islam. Una donna che decide di non mettere il foulard rompe il suo matrimonio e rovina la sua famiglia, oltre a andare contro tutti i principi religiosi in cui ha creduto fino a quel momento”. Alla medesima separazione si giunge se il marito si mette a bere e non rispetta più gli insegnamenti religiosi. Tra le altre indicazioni, il velo può essere colorato ma non deve attirare l’attenzione, perciò sono esclusi, per esempio, i fiori.

Per una volta lasciamo anche alle donne arabe la possibilità di dire qualcosa degli italiani. Fatima, allora, animatamente prende la parola: “Non so perché gli italiani abbiano l’idea che noi qui abbiamo trovato l’America. Viviamo come loro, se non guadagniamo non mangiamo. E poi c’è un po’ di discriminazione. Un giorno il controllore mi ha chiesto di scendere dal tram per mostrare il biglietto, io ho risposto che non dovevo scendere e quindi se volevano doveva salire lui. Mi ha detto che i controllori erano come i carabinieri morti in Iraq. Ma io ho risposto che non sono irachena e non ho ammazzato nessuno”. “Dopo l11 settembre è cambiato tutto. Anche le persone che prima ci salutavano, adesso hanno il dubbio se siamo ancora brave persone. L’Italia è un Paese ospitale, ma ci sono tanti ignoranti. A questi vorremmo dire di giudicare le persone dopo verle conosciute. Sono discriminate le donne col velo e gli uomini con la barba”. “Eppure – interviene Kadija-, noi non giudichiamo gli italiani tutti allo stesso modo”.

Ognuna di loro ha più di tre figli. Come fanno a fare tanti figli in una città come Milano? “Noi non pensiamo tanto come le donne italiane, ci dice Sherifa. Loro calcolano tremendamente prima di avere un figlio: per esempio devono avere la macchina per sette persone, la casa per sette. Noi veniamo da una cultura diversa, in cui mangiare in due o in tre non fa differenza. Ho una collega di ventisei anni che mi dice che vorrebbe fare un figlio, però trova sempre le scuse: il lavoro, l’uomo giusto. Le ho detto di andare a farsi questo figlio, perché se ci pensa non lo fa più. E come fanno a comprare ai loro figli tutto quello che chiedono? “Sono fortunata perché ho dei figli poco esigenti e comprensivi. E poi in generale sono gli uomini arabi a viziare di più i figli. La donna araba ha il ruolo di educatrice”, dice Sherifa. Ma Fatima confessa che alla figlia quattordicenne sta per comprare un cellulare per essere alla pari con i compagni di classe. E cosa pensano delle donne italiane? “Troppo libere. Prima viene il lavoro e la soddisfazione personale, poi la famiglia. Per noi è il contrario. Tutti i sacrifici sono per la famiglia. Le donne italiane vogliono andare al lavoro anche se il marito guadagna abbastanza. Io lavoro per integrare lo stipendio di mio marito”. L’usanza araba vuole che i genitori non si lascino mai soli, così un figlio resta a vivere con loro, magari con la sua famiglia. “Lasciare soli i genitori è molto strano per noi, e ci fa male”, dice Kadija. “Quando ho visto che i miei vicini di casa anziani non potevano uscire a fare la spesa, e non avevano nessuno, ho pianto. Loro hanno una figlia che viene a trovarli ogni due anni e si comporta come un’ospite”. Un detto arabo dice che il paradiso si trova sotto i piedi della mamma.


Articolo apparso su Avvenimenti n. 14 del 9-15 aprile 2004.