A CHE PUNTO SIAMO
TRA NAZIONI UNITE, FEMMINISMO TRANSNAZIONALE E COOPERAZIONE:
UNA LETTURA DELL’AGIRE DELLE DONNE
NEL MONDO GLOBALIZZATO

di Bianca Pomeranzi

 

  1. Un punto di vista

Difficile sfuggire alla domanda su quello che le donne hanno da dire sulla contemporaneità e su quello che rappresentano in una fase così complessa di transizione e di crisi di civiltà. Impossibile forse,  per una femminista occidentale come me che cerca di mantenere un filo di un ragionamento avviato più di trenta anni fa, quando il partire da sé assumeva una passione radicale e una tensione rivoluzionaria, perchè la presa di parola  delle donne trasformava  le regole della convivenza . Quel filo, agito nel movimento e nelle istituzioni,  è ormai una matassa intrecciata e complessa,  come le strisce da rammendo multicolori che apparentemente dovrebbero servire a riparazioni veloci e invece quasi subito si aggrovigliano al punto che non si riesce più a trovare il capo di ogni filo  e non si può separarlo dagli altri senza strappi e ulteriori nodi.
Meglio allora cercare di dipanare la matassa a partire dalle proprie esperienze e dal proprio punto di vista, soggettivo e singolare.  Solo così infatti si può lasciare lo spazio ad altre prospettive , che consentano di cogliere e utilizzare  altri fili per provare a ricostruire una trama comune tra i  tanti modi di essere delle donne nel mondo. Una tale visione si affianca a quelle di molte altre recenti e interessanti letture italiane e internazionali1.
Per quanto mi riguarda dunque, il fatto di avere vissuto la mia presa di coscienza in un collettivo femminista  radicale, come era quello di Via Pompeo Magno a Roma  a metà degli anni settanta, e di avere trovato là altre donne che già allora frequentavano luoghi internazionali è stato determinante nelle scelte di vita,  così come lo è stato il fatto di avere vissuto le prime manifestazioni nazionali sull’aborto e contro la violenza in un periodo in cui le Nazioni unite celebravano l’anno internazionale delle donne e la prima Conferenza sulle donne a Città del Messico nel 1975.  Era quindi semplice pensare ad altre donne in altri continenti come potenziali alleate di una rivoluzione lunga si, ma anche mondiale2 per la fine di un dominio patriarcale la cui invasività  era oggetto di riflessione costante. Una riflessione che faceva saltare la separazione tra personale e politico ridisegnando  i confini di entrambi e, di fatto, varcando la soglia di quella che più tardi venne definita come biopolitica (Focault 2001). Impossibile quindi, per una giovane  di allora non pensare che la stessa capacità di liberazione e di autonomia si potesse  riprodurre in altri contesti.

Oggi tuttavia,  fare i conti con il presente non è facile, perché ci si deve  confrontare con  una realtà “globale” sempre più complessa, perché i linguaggi e le letture che definiscono il mondo sono contraddittori e anche perché i modi delle donne di prendere parola, di divenire soggetti autonomi,  si sono diversificati e  sono entrati in conflitto anche all’interno del femminismo. Un po’ ovunque infatti,  ci sono donne al potere: in Africa, in Asia e in America latina, ma più spesso in Occidente,  dove una politica sempre più ridotta a cercare consenso attraverso i media, sembra voler sedurre l’immaginario collettivo attraverso personalità femminili, che da sole dovrebbero indicare un cambiamento. Viene quasi da chiedersi se queste poche donne,  spesso cooptate in pochi posti di comando tradizionali,  siano un modo per contenere la potenza trasformativa del femminismo e per far rientrare, attraverso percorsi individuali di emancipazione,  le esperienze collettive delle donne nel rimosso della politica. In molti altri casi invece, come nelle teocrazie patriarcali, le donne  sono ancora costrette in ruoli tradizionali e  fanno pensare che è proprio l’emancipazione che manca (UNDP 2006).  Più spesso comunque,  sono stati proprio i  processi  di differenziazione e di estensione delle reti trans-nazionali e dei movimenti nazionali delle donne,  a far perdere il filo comune e a creare la “matassa”  che rende le culture del femminismo, più diversificate di fronte ai “dispositivi” di potere, ma anche più confuse sulla propria origine e sulla propria originalità.
La domanda a che punto siamo è quindi densa di significati diversi e soggetta a differenti letture. Alcune di queste letture, come quelle delle istituzioni internazionali sono costituite dall’analisi statistica e dalla misurazione costante dei progressi rispetto a un sistema di indicatori oggettivamente riconosciuto 3, altre tendono a mettere a tema  la qualità delle pratiche delle donne nei diversi continenti, spesso in termini di azione politica e capacità di difesa dei loro diritti4.  Io vorrei invece,  mantenere l’idea originaria di un femminismo capace di trasformazione politica, cercando di leggerne le attuali potenzialità . Infatti, anche se l’ obiettivo è troppo ambizioso per essere risolto in un breve articolo,  mi sembra comunque utile cercare tracce che consentano di recuperare un filo comune tra le diverse tendenze dell’agire delle donne in nome delle loro percezioni, singolari e situate, del “femminismo” . Un femminismo che quindi,  si colloca  nel complesso intreccio con altri movimenti,  nel costante confronto con le istituzioni, nazionali e sopranazionali e soprattutto all’interno dei processi di radicale cambiamento della convivenza che si sono determinati tra gli ultimi decenni del secolo scorso e i primi anni del nuovo millennio. 
  • Un “campo”femminista transnazionale

Vorrei dunque,  rileggere l’evoluzione delle Conferenze delle Nazioni unite come “l’occasione” (Marramao, 2008) della “genesi” del femminismo transnazionale attraverso  l’instaurazione di un “campo” di pratiche e di culture critiche5. Insomma la matassa di cui parlavo in apertura, vista con gli occhi di chi per scelta di vita e di lavoro si trova a fare i conti, quasi ogni giorno con la domanda a che punto siamo6, soprattutto rispetto alla autonomia politica e alla libertà delle donne. Questa occasione nasce nel 1975, anno della  1° Conferenza ONU sulle donne di Città del Messico, che permise  l’incontro tra i movimenti delle donne di tutto il mondo. L’evento infatti, frutto del mutato contesto internazionale di post-colonizzazione e originato dall’esplosione del movimento femminista in occidente e dalla numerosa presenza delle donne nei movimenti di liberazione di molti paesi del Sud del mondo (Rai 2002),  ebbe un enorme valore perché consentì la partecipazione, al di là delle delegazioni ufficiali di ciascuna nazione,  al “forum della società civile”, di più di 6000 donne che ebbero la possibilità  di discutere delle loro visioni e dei problemi  , denunciando le differenti forme di dominio  patriarcale e avviando un percorso comune, a partire dal loro “sesso”.
Le analisi ufficiali e quelle all’interno del “forum” furono l’origine di nuove pratiche su differenti  piani.  Sotto il profilo istituzionale, il dibattito fu fortemente segnato dall’analisi economica della divisione sessuale del lavoro che era stata alla base dell’analisi di Ester Boserup 7. Le Nazioni unite avviarono, infatti, la costruzione di un vero e proprio sistema rivolto alla promozione del ruolo delle donne nello sviluppo, basato su due organizzazioni con uno specifico mandato per tale scopo : il Fondo Volontario delle Nazioni unite per le Donne, adesso chiamato UNIFEM e l’Istituto per la Formazione e la Ricerca sulle Donne il cui acronimo è INSTRAW.  In generale, comunque, tutte le organizzazioni del sistema ONU iniziarono ad avere funzionarie che si occupavano di questa nuova materia  chiamata “donne e sviluppo” e che ebbero a disposizione finanziamenti specifici all’interno delle agenzie multilaterali e di quelle bilaterali dei paesi che avevano già istituzionalizzato “l’aiuto pubblico allo sviluppo” per il Sud del mondo,  in gran parte  nordici. Proprio all’interno di quel sistema si avviò così  la definizione di un modello di intervento politico a favore delle donne che ricalcava il percorso di emancipazione seguito nei paesi occidentali, quasi esclusivamente nord atlantici,  dove le donne avevano ottenuto il diritto di voto nei primi decenni del novecento . La Conferenza ufficiale di Città del Messico fu anche all’origine del primo strumento legale internazionale per le donne: la Convenzione per l’Eliminazione delle Discriminazioni contro le Donne (CEDAW)8.

Un percorso diverso fu seguito dalle organizzazioni non governative delle donne, che iniziarono a lavorare di più sullo scambio di esperienze e sul confronto tra culture e contesti politici diversi.  Quel percorso tuttavia, fu all’origine di un conflitto che si materializzò durante il Forum della 2° Conferenza ONU di Copenaghen del 1980. Copenaghen è conosciuta come la Conferenza di medio periodo nel “Decennio ONU per l’Uguaglianza, lo Sviluppo e la Pace” (1976-1985) ed è ritenuta di scarsa importanza sotto il profilo istituzionale, poiché ebbe soprattutto il compito di ratificare i notevoli mutamenti istituzionali avvenuti a favore delle donne all’interno del sistema Onu. L’importanza di Copenaghen è tuttavia un’altra, tutta culturale e politica, proprio in virtù di quello che è generalmente ritenuto uno dei motivi dell’insuccesso: il conflitto tra diversi modi di vivere la propria soggettività politica che si  manifestò nel Forum. Copenaghen infatti,  svelò la complessità che era insita nella presa di coscienza e di parola di donne che vivevano situazioni totalmente differenti per motivi culturali, economici e politici e nello stesso tempo dette la possibilità di approfondire la riflessione sullo sviluppo del mondo. Infatti il mondo, proprio in quegli anni,  dopo le crisi petrolifere degli anni settanta,  stava sperimentando sia la rinascita del fondamentalismo religioso che l’avvio di nuovo processo di globalizzazione , basato sulle politiche economiche neo-liberiste. La rinascita su larga scala del fondamentalismo islamico infatti si può datare a partire dalla rivoluzione iraniana di Khomeyni del 1978, mentre l’elezione di Reagan nel 1980 è considerata  la genesi dell’affermarsi delle politiche neo-liberiste . Il quadro internazionale era dunque profondamente scosso dall’incrinarsi dei vecchi equilibri, tra occidente, mondo comunista e  quello che ancora veniva definito come “terzo mondo”. Questo clima generale che si espandeva a livello mondiale determinò per le donne riunite a Copenaghen l’abbandono del “comune denominatore” costituito dall’appartenenza di “sesso” e l’attenzione invece,  alle diverse appartenenze culturali e politiche nella interpretazione  delle cause dell’enorme divario tra paesi ricchi  e paesi poveri che si andava approfondendo. Per molte delle partecipanti, soprattutto provenienti dal Sud del mondo,  infatti ,  la richiesta di uguaglianza tra uomini e donne assumeva un ruolo di secondo piano rispetto al problema della crescente povertà che le donne sperimentavano nei loro paesi. Questo dissenso di fondo fu all’origine del conflitto tra le, ancora poche  femministe del Sud e le femministe occidentali , in particolare americane,   ma si rivelò anche un potente strumento di crescita9 culturale e politica del movimento transnazionale delle donne. Lo scontro di visioni che ebbe luogo a Copenaghen ottenne infatti  il risultato di moltiplicare le reti transnazionali di donne dei diversi continenti e di far approfondire le analisi critiche (Pomeranzi 1995) . . Tra queste ricordo quelle delle ecofemministe (Braidotti et al. -1991; Mies, Shiva- 1993)  e del gruppo di DAWN  (Sen Grown -1987)  che per tutti gli anni ottanta e i primi anni novanta, proprio partendo dall’analisi della relazione culturale e economica tra donne, uomini e gestione delle risorse naturali avviarono una critica radicale al  modello di sviluppo neoliberista che si andava affermando,  basato unicamente sul criterio della “crescita economica” e  incurante della “sostenibilità” umana e ambientale dei processi di sviluppo. Queste analisi, spesso in dissenso con le modalità operative delle grandi istituzioni finanziare internazionali, in particolare la Banca Mondiale e il WTO, ma anche capaci di mettere a tema  l’inefficacia dell’ONU e del sistema multilaterale e bilaterale di Aiuto Pubblico allo Sviluppo,  favorì da un lato la trasformazione degli interventi di cooperazione, soprattutto dopo la terza Conferenza ONU sulle donne di Nairobi del 1985 (Moser 1993)  e la preparazione  della IV° Conferenza di Pechino nel 1995, ritenuta unanimemente un successo, ma anche un momento di svolta   che chiude il ventennio d’espansione delle reti femministe transnazionali e della relazione di queste con il sistema delle politiche di genere all’interno delle Nazioni unite. A Pechino le tematiche di genere e dei diritti sono al centro dell’attenzione della Conferenza istituzionale e portano ulteriori mutamenti nel sistema ONU (Pomeranzi 1996; Hannan Anderson 2000), mentre nei dibattiti dell’immenso Forum di Huairou, si manifestano lucide critiche femministe al processo di globalizzazione, che di lì a pochi anni avrebbero costituito alcuni degli “assi” portanti del movimento di Seattle e dei grandi Forum Sociali Mondiali a partire da Porto Alegre (Sassen 2002).
Probabilmente il Forum Copenaghen non avrebbe mai assunto quei connotati se, già negli anni settanta, nel femminismo occidentale ormai maturo, non si fossero avviate pratiche di differenziazione tra le soggettività politiche delle donne fondate sulla scelta sessuale, sull’appartenenza etnica e su quella culturale10. Il “black feminism”11 e il “lesbian feminism”12, in particolare negli Stati uniti,  avevano infatti già determinato la rottura della “narrazione universale” del neo-femminismo, mentre  nelle accademie di molte parti del mondo i women’s studies e poi i gender studies , già segnalavano il formarsi di una critica femminista post-coloniale che si sarebbe sviluppata nel corso degli anni ottanta (Talpade Mohanty 1991), insieme alle reti transnazionali delle attiviste e contemporaneamente all’approfondimento delle epistemologie della “differenza sessuale” (Irigaray 1985) e al nascere dei “gender e queer studies” (De Lauretis 1991). Insomma il femminismo, non più o non solo separatista,  stava divenendo quel “campo” di pratiche e culture, spesso in reciproca tensione, ma comunque in grado di produrre nuove soggettività e trasformazione politica a livello globale.  Vedere il femminismo come un “campo politico” denso di relazioni , interne e esterne, e situato(Harding-1988) nei differenti contesti geografici, ma anche sociali e culturali consente, a mio parere, di uscire dalla definizione un po’ vaga  dei “femminismi” e di recuperare, senza riduzione all’essenzialismo biologico (l’essere donna), il comune denominatore determinato dalla capacità di produrre spostamenti singolari e collettivi, a partire  dalla propria soggettività “incarnata” (Braidotti 2002) che è fondamentale per leggere il guadagno della cooperazione internazionale rispetto alla libertà delle donne. Vedere il femminismo come un  “campo” di  soggettività e culture che si incontrano con modalità diverse dalla rigida struttura dell’analisi “geopolitica” del mondo, consente anche di superare il dibattito, forse troppo “cullato” a partire dagli anni novanta, tra “genere” e “differenza sessuale”(Butler 2006) . Dibattito che rischia di assumere connotati di accademia  facendo perdere la forza di quello che, come un magnete, agisce non da confine, ma da energia attrattiva delle singolarità che lo compongono, ovvero la potente “svolta epistemica” costituita dal protagonismo delle donne, avviato con il “separatismo”politico13 negli anni settanta (Boccia 2002).

  • Oggi

Assumendo il “campo politico” femminista come  un modo di valutare “a che punto siamo oggi” nella relazione tra donne e mondo non parliamo più solo della “liberazione delle donne”, dei loro diritti presunti e mai raggiunti (Pitch 2007), della loro possibilità di conseguire individualmente posti di potere e di rappresentanza nelle istituzioni pubbliche o nelle grandi compagnie  private, ma  degli spostamenti prodotti dalle azioni collettive delle donne nelle regole  della convivenza e nei differenti contesti e livelli in cui si trovano a confliggere con  i “dispositivi” di decisione collettiva. Sotto questo profilo penso sia necessaria una operazione di recupero e di discernimento  delle divergenze e delle convergenze di fondo tra le differenti “reti” femministe transnazionali perché la ricchezza delle diverse analisi possa ritrovare lo slancio politico necessario a rimettere in questione gli assetti politici e istituzionali e economici dell’attuale processo di globalizzazione. è infatti innegabile, che, nonostante il moltiplicarsi delle esperienze e l’accresciuta partecipazione delle donne alle vicende politiche nazionali e internazionali,  attualmente il “movimento dei movimenti”, le istituzioni multilaterali e le politiche di “governance” della cooperazione allo sviluppo tendono di nuovo a “marginalizzare” le voci autonome delle donne. Spesso, come accade nel Forum sociali “sussumendole” all’interno di una più vasta “resistenza moltitudinaria” (Negri Hardt 2004) come una delle tante singolarità della resistenza al neoliberismo capitalista. Altre volte invece, come accade nelle Nazioni unite,  leggendole solo come vittime, oggetto di diritti14, ma non soggetti di politiche attive degni di risorse autonome15 . Più spesso ancora  “addomesticandole” all’interno degli apparati di gestione  dell’“Aiuto Pubblico allo Sviluppo” che sono definiti sulla base di meccanismi economico finanziari  che relegano  l’agire politico, in particolare quello  delle donne , in un  “sociale” totalmente subalterno alla costruzione economica del mondo. Ce ne sarebbe  abbastanza per essere pessimiste.

  • Geopolitica e Biopoteri

Il “campo femminista”  invece , inteso in questa  configurazione plurisoggettiva, continua a essere una realtà dinamica, che offre spunti e  strumenti critici per  affrontare la profonda “crisi”, il “passaggio di civiltà”,  prodotto dalla globalizzazione (Ingrao, Rossanda et al. 1995).  Una “crisi” iniziata  alla fine degli anni settanta (Arrighi 2008) che, soprattutto dopo la caduta del blocco sovietico e la fine dei sistemi comunisti,  ha visto consumare velocemente, nel corso degli anni novanta, anche la possibilità di una “socialdemocrazia” basata sulla crescita del PIL (Giddens 1999). Lo si vede bene soprattutto nell’impossibilità delle Nazioni unite di avviare una vera riforma del sistema e raggiungere i tanto decantati Millennium Development Goals16, pensati per rendere “sostenibile” la convivenza umana  nel terzo millennio e naufragati forse già prima di essere celebrati e prima del crollo delle Torri Gemelle dell’11 Settembre 2001 e della “war on terror”. 

L’evidente contraddizione tra una pretesa democrazia  e l’espansione dell’iniziativa economica del capitalismo su scala mondiale ha portato alla  corrosione  dei sistemi di “bilanciamento dei poteri” internazionali, lasciando il campo a una organizzazione “geopolitica” dove il diritto vero è solo quello del più forte e dove la costruzione giuridica liberale, elemento fondante della democrazia, agisce come amplificatore delle politiche liberiste che sotto la pressione dei capitali internazionali  piegano al profitto ogni espressione di vita, anche attraverso la guerra (Shankar Jha 2007).  Per uscire dalla “crisi” forse occorre mettere a fuoco lo spostamento dell’oggetto della “politica” a livello globale  e la crescente espansione degli apparati normativi sulla vita degli individui e sull’organizzazione della vita lavorativa e riproduttiva. In questo senso il “campo” femminista, che continua a analizzare le condizioni materiali di vita (Ongaro 2003) e i meccanismi di potere anche nella sfera personale, diviene una fonte di “critiche” fondamentali per il superamento di questa fase di transizione (Sassen 2007). Basterebbe solo citare il cambiamento radicale che la globalizzazione neoliberista ha prodotto nei sistemi di cura  nel Nord del mondo che,  passando  da un  sistema di “welfare” pubblico a privato,   hanno determinato la crescita esponenziale delle migrazioni femminili (B. Ehrenreich e A.R. Hochscild 2004) e una trasformazione degli assetti delle famiglie anche nel Sud del mondo17. Insomma, di fronte alla deriva antropologica che offusca il presente con nuove ondate di razzismo e xenofobia,  dove geopolitica e biopoteri (Negri 2008) sembrano determinare ogni aspetto della vita,  il protagonismo delle donne diviene centrale nella ridefinizione dell’ “umano” (Butler 2004), anche se  fatica a assumere la  centralità politica che meriterebbe .

  • La cooperazione come “pratica”di trasformazione

I movimenti delle donne del Sud del mondo sono in questo esemplari perché nei diversi contesti istituzionali, economici  e sociali in cui si trovavano a operare hanno imparato a condurre conflitti e “negoziati”18 politici con i poteri  locali e internazionali , unendosi a altri movimenti che lavorano contro l’attuale modello di sviluppo, ma facendolo in “prima persona”, cioè mantenendo  la loro autorevolezza e la loro autonomia. Questo è dovuto, a mio parere, alla capacità di utilizzare  un approccio “pragmatico” nei confronti delle istituzioni e nella relazione con i centri di potere.   Purtroppo questa autonomia e questo pragmatismo  difettano molto spesso alle èlitè tecno-burocratiche che sono responsabili delle “politiche di genere” e di quelle cooperazione e che attualmente appaiono incapaci di avviare una trasformazione  delle politiche all’interno degli organismi nazionali o internazionali in cui si trovano a operare e che quindi disperdono il forte messaggio portato avanti dalle reti femministe transnazionali .  

La cooperazione nell’epoca della globalizzazione,  in questo collegandosi alla sensibilità dell’ecologismo e alla accettazione dei limiti della crescita e del concetto di decrescita (Latouche 2005) , se vuole effettivamente raggiungere gli obiettivi del millennio  fissati per  il 2015, non può che assumere una prospettiva  diversa dall’attuale guardando ai soggetti, ma anche agli assetti istituzionali (Carrino 2005) e producendo pratiche di relazione e di mediazione culturale capaci di dare vita a spostamenti epistemologici continui e trasformazioni bipolari, ovvero  tra Nord e Sud , tra centro e periferia (Benhabib 2008) . Infatti,  le  risorse necessarie per un  welfare globale  già da adesso potrebbero essere disponibili  se, ad esempio,  le spese militari fossero riconvertite in spese per lo sviluppo, ma ciò richiederebbe uno spostamento di mentalità a livello planetario, per fare in modo che le istituzioni di tutto il mondo mutassero radicalmente gli schemi di potere fino ad oggi utilizzati e  dessero la priorità alla convivenza tra gli esseri umani. Le reti del femminismo transnazionale, se recuperassero la capacità di coesione politico degli anni settanta potrebbero essere agenti di questo cambiamento . Il fatto che le rimesse dei migranti abbiano superato il volume economico dell’APS19  e che quasi la metà di quelle risorse siano dovute alle donne,  è , ad esempio, un indizio di quello che si potrebbe fare se riuscissimo a ricostruire  la forza  del “campo” femminista . Attualmente  invece, le  femministe sembrano più  tese alla “mappatura” dei “femminismi” che, proprio nel momento in cui avanzano nell’approfondimento critico sembrano frammentare  e disperdere proprio la possibilità  di “negoziato” politico . Questo produce spesso un effetto “diasporico” che rende meno efficace l’impatto politico del “ campo femminista” nei contesti locali e internazionali  e incrementa l’utilizzo delle  donne come un  “soggetto identitario” nella politica istituzionale. 
La gravità della “crisi di civiltà”  invece, suggerisce l’esigenza di recuperare l’autonomia politica del “campo femminista” attraverso una maggiore capacità di relazione e di scambio, se pure conflittuale, tra le tante soggettività che lo compongono . Le Nazioni unite di oggi infatti, non possono offrire una nuova occasione di incontro sia per la debolezza dell’istituzione che  per l’addomesticamento all’interno delle burocrazie subito dalle poche istituzioni per le donne. Per questo motivo occorre “negoziare” spazi di autonomia politica delle donne all’interno della cooperazione internazionale . L’agire della cooperazione infatti , se lo si intende come una “pratica” di relazione,  svincolata dall’impostazione “economicista” del modello neo-liberista e anche da quella  “emergenziale”, che negli ultimi anni non ha esitato a usare i  diritti delle donne come un pretesto per esaltare  lo “scontro di civiltà” (Huntington 1996) e  motivare le guerre e l’ingerenza “umanitaria” (Marcon 2002),  potrebbe servire  a riportare in primo piano il ruolo politico delle donne come agenti della trasformazione degli assetti di potere attuali .
Riflettendo su questo punto inoltre,  “il campo politico” femminista transnazionale dovrebbe forse recuperare la capacità di dare voce a un nuovo “negoziato” globale, magari attraverso una convention di reti transnazionali, accademiche e attiviste che riprendano una parola autorevole  sul destino dell’umanità…

NOTE

1. Segnalo in particolare l’importanza che nel dibattito internazionale hanno avuto alcune riviste  femministe  americane come il numero di Signs “Globalization and Gender (Volume 26,  n. 4 – 2001) University of Chicago Press; la rivista Meridians Feminism race transnationalism (Vol 3 n.1 2002) Wesleyan University Press e i più recenti saggi femministi italiani: AA.VV. Altri femminismi, corpi culture , lavoro – Manifestolibri 2006 ;  Genesis , Rivista della Società italiana delle storiche (IV,2,2005) Viella 2005;   Zapruder “Donne di mondo percorsi transnazionali dei femminismi”n. 13 maggio-agosto 2007 .

2. Ricordo che il movimento delle donne italiano era conosciuto  tra quelli più numerosi e attivi in Occidente per la campagna sulla libertà di scelta e sulla legge per l’aborto , soprattutto dopo il 1975,   e oltre alle pratiche autocoscienziali,  si basava  su grandi manifestazioni collettive, che mettevano in scena  una nuova visione politica.

3. Sotto questo profilo , uno degli ultimi e più interessanti tentativi di avere uno stato dell’arte  mondiale del movimento delle donne è stato   l’International  Forum on Women’s Rights and Development organizzato dall’ ”AWID (Association for Women in Development )a Bangkok nel 2005 e   documentato riportato  nel volume  n. 1 del  Marzo 2006.  dalla rivista Development della SID (Society for International Development) .

4. Tra le prime , ovvero le pratiche, includo  la specifica attività dell’aiuto pubblico allo sviluppo denominata in un  primo momento  “donne e sviluppo”e  poi, dalla fine degli anni ottanta ,  “genere e sviluppo”,  mentre tra le seconde , ovvero le culture critiche ci sono i prodotti teorici e le scelte politiche operate dalle associazioni e dai gruppi femministi che nel tempo si sono molto diversificati,  ma  che mantengono, a mio parere, un collegamento e una comune origine.

5. Tra le numerose pubblicazioni delle varie agenzie ONU mi sembra che le più accurate e credibili per la scelta degli indicatori siano i rapporti annuali dell’ UNDP (Human Development Report) che contengono al loro interno una specifica sezione che misura il GDI (Gender Related –Development Index ) riferito ai  risultati di ciascuna paese in tema di “capacità (capabilities) umane divise per sesso e il GEM (Gender Empowerment Measure) che esamina se le donne hanno la possibilità di partecipare attivamente alla vita economica a quella politica e al “decision making”, Non si tratta quindi, a differenza di altri rapporti, di dati qualitativi, ma di una valutazione attraverso indicatori costruiti attraverso dati statistici i progressi delle donne . Accanto a questo vi sono le compilazioni statistiche mondiali dell’ Ufficio Statistico UNDESA /ONU quali il World’s Women Trends and Statistics , con cadenza quinquennale. L’ultimo è del 2005.

6. Nel mio lavoro trentennale di esperta di cooperazione in tema di “genere e sviluppo”, quasi venti dei quali trascorsi all’interno della Direzione Generale per la Cooperazione allo Sviluppo del Ministero degli Affari Esteri Italiano, mi trovo spesso a fare i conti con la necessità di capire come le politiche istituzionali con  le effettive situazioni di vita  delle donne di altri paesi e questo dovere “istituzionale” mi costringe spesso a notare i limiti della gestione degli aiuti pubblici allo sviluppo .

7. Ester Boserup è un’economista danese, riconosciuta come fondatrice della tematica “donne e sviluppo”  autrice di “Women’s Role in Economic development” del 1970, poi tradotto in Italia  nel 1982 con il titolo“ Il lavoro delle donne”. La Boserup ebbe un ruolo fondamentale nella costruzione della Conferenza di Città del Messico poiché  partecipava come esperta  alla Commissione sullo sviluppo dell’ONU .

8. La CEDAW poi approvata dalla Assemblea generale dell’ONU il 18 Dicembre  del 1979 . Il testo della CEDAW esprime in modo esemplare il radicale cambiamento della prospettiva all’interno delle Nazioni unite rispetto ai diritti delle donne poiché assume anche quelli economici, sociali e culturali e obbliga gli Stati che la ratificano alla eliminazione delle discriminazioni formali e sostanziali contro le donne al di là delle differenze culturali. Quindi la nuova prassi istituzionale si basava essenzialmente su sviluppo e diritti.

9. Per me, che leggevo le cronache da lontano fu determinante lo scontro in tema di infibulazione tra la femminista americana Mary Daly (autrice di “Gynecology”un saggio comparativo sulle menomazioni fisiche inflitte dalle culture patriarcali alla sessualità femminile) e le senegalesi Marie Angelique Savannè e Awa Thiam che rivendicavano, se pure con accenti diversi,  il diritto di decidere sul proprio corpo e la propria cultura. Forse anche perché già Carla Lonzi citava nel suo “Manifesto Femminista” del 1973  la pratica dell’infibulazione mi misi in mente di formare una Associazione Internazionale delle Donne per il Separatismo (dalla parola greca aidòs che significa timore e vergogna) e che nell’incontro con Daniela Colombo, divenne poi, nel 1981 l’ong AIDOS (Associazione Italiana di Donne per lo Sviluppo).

10 Anche in Italia con la rivista romana  Differenze si registra questo fenomeno e lo si articola nei numeri “autogestiti” dai collettivi romani che si organizzano aturno dal 1976 all’92 . E significativo che l’ultimo numero sia sulla 1° Conferenza Nazionale sul lesbo-femminismo del collettivo “vivere lesbica”.

11 Il lavoro di Angela Davis, Audre Lorde e del primo collettivo di donne nere di Boston (1974) che si definiscono “womanist”già inizia a nei primi anni settanta  .

12 K.Millet “In volo” Einaudi 1979, illustra il clima di conflitto negli USA che inizia  con  la protesta ad una riunione del NOW (National Organization of Women) dei collettivi lesbici “lavender menace”

13 Di particolare interesse è la  definizione che venne elaborata durante il “Convegno sul separatismo” del 1977 organizzato a Roma  dal  Collettivo di Pompeo magno “il separatismo non è separarsi dalla realtà, ma la realtà vista da noi”.

14 Sotto questo profilo si è assistito a una crescente burocratizzazione del sistema di genere, al punto che una delle grandi affermazioni delle donne all’interno delle Nazioni unite: la Risoluzione del Consiglio di Sicurezza 1325/2000 su “Il ruolo delle donne nella risoluzione di conflitti” è stata disattesa e interpretata  come una difesa delle donne dalla “violenza di genere” culminata con la  campagna “UNITY” lanciata da Ban Ki Moon nel corso della Commission on The Status of Women 2008.

15 I recenti documenti delle istituzioni di genere delle Nazioni unite e delle organizzazioni non governative in preparazione della Conferenza di Doha sui finanziamenti allo sviluppo che si svolgerà a Dicembre del 2008, denunciano la mancanza di finanziamenti alle organizzazioni delle donne e alle politiche di genere (vedi sito www.womenwatch.org) . La Conferenza di Doha avrebbe dovuto porre le basi per un nuovo  ciclo negoziale sullo sviluppo, ma il rallentamento della crescita economica mondiale che accresce la crisi del multilateralismo.

16 Gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio (Millennium Development Goals o MDG, o più semplicemente Obiettivi del Millennio) delle Nazioni Unite sono otto obiettivi che tutti i 191 stati membri dell'ONU si sono impegnati a raggiungere per l'anno 2015. La Dichiarazione del Millennio delle Nazioni Unite1, firmata nel settembre del 2000, impegna gli stati a: Sradicare la povertà estrema e la fame, Garantire l'educazione primaria universale, Promuovere la parità dei sessi e l'autonomia delle donne, Ridurre la mortalità infantile, Migliorare la salute materna, Combattere l'HIV/AIDS, la malaria ed altre malattie, Garantire la sostenibilità ambientale, Sviluppare un partenariato mondiale per lo sviluppo

17. Di particolare interesse sono le narrazioni sui mutamenti dei ruoli famigliari che si determinano a seguito dell’emigrazione delle donne . Narrazioni e mutamenti riportati sia nelle ricerca dell’ong internazionale Mama Cash, “Migrant’s women philantropic practices from the diaspora” e dalle ormai numerose, anche in Italia , opere di  scrittrici  migranti di prima e seconda generazione .

18. La rivista Development della Sid  nel numero di Marzo  2002, Volume 45, Number 1,  dal titolo “Place, Politics and Justice: Women Negotiating Globalization “  da conto del pensiero e delle pratiche politiche seguite dalle donne del Sud del mondo per continuare a portare avanti l’azione del femminismo transnazionale


19. Nei documenti  dell’ OCSE/DAC sulla base dei dati del Fondo Monetario Internazionale  , si   dimostra che le rimesse dei migranti hanno dimensioni  notevoli.  In particolare  vedi il paper Remittances as Development Finance,( www.oecd.org/dataoecd/62/17/34306846.pdf) dove si afferma che le rimesse dei migranti sono pasate daUSD 72 miliardi di dollari nel  2001 a  93 miliardi  nel  2003 superando in modo significativo  il totale dell’Aiuto Pubblico allo Sviluppo che nei rispettivi anni era di circa  52 e 69 miliardi .

 

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21-02-2009

 

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