da Liberazione del 12 Gennaio 2005


E SE IL PROBLEMA FOSSE …
di Bianca Pomeranzi

 
Natalia Goncharova

Sono particolarmente interessata al dibattito sul femminismo che Liberazione sta, molto intelligentemente, ospitando perché verte su temi  a me molto cari:  la politicità del femminismo e il  dialogo tra il femminismo definito “storico” ( mi ricordo quando accadde che ci chiamarono così, alla fine degli anni settanta, e molte di noi, me compresa, avevano meno di trenta anni) e le nuove generazioni di donne che vivono una serie di possibilità e contraddizioni diverse da quelle che noi abbiamo conosciuto e che  ci consentirono un potente  slancio liberatorio.

Tutti gli interventi mi sono sembrati interessanti, tuttavia gli articoli finora apparsi toccano in modo trasversale, senza affrontarlo direttamente, uno dei punti dolenti del femminismo contemporaneo: l’incapacità di incarnare il punto di vista delle donne in un orizzonte politico complessivo.  Su questo le reazioni sono differenti: dalla domanda di Melandri sul silenzio delle femministe, alla strenua difesa di Cirillo delle nuove generazioni. In molti articoli, tranne  forse che in quello di Paolozzi, c’è una implicita accusa al femminismo di mancato ascolto e di mancata mediazione, da cui deriverebbe l’afasia femminile.  Anzi di più, sarebbero proprio le lobby femministe a impedire il confronto e a togliere spazio alle nuove idee delle donne.

A questo, che considero un punto politico di grande importanza intendo obiettare, in quanto ritengo che il problema sia mal posto poiché non tiene conto del rapporto tra donne e “spazio pubblico” nella storia recente, sia in Italia che nel mondo. Uso il termine “spazio pubblico” in una accezione che comprende non solo le istituzioni della politica, ma anche i vari livelli e le varie forme di scambio culturale e sociale tra attori pubblici e privati, poiché a mio parere consente di articolare con maggior forza la grande proposta “politica” del neo-femminismo.

Infatti l’avere dichiarato  che “il personale è politico” ha  consentito a intere generazioni di donne, non solo occidentali, non solo bianche, non solo laiche, di avviare quel  “salto di civiltà”  necessario alla nuova convivenza globale: ovvero a farsi soggetti e svelare la politicità del dominio patriarcale. 

In questo percorso di soggettivizzazione il femminismo, iniziato quasi contemporaneamente e per motivi diversi, nel Nord e nel Sud del mondo, ha incarnato per più di dieci anni, dagli anni settanta agli anni ottanta, la vivezza e l’intelligenza di un rinnovamento della  “politica”, movendosi come un’onda lunga di cui solo oggi è possibile capire la portata trasformativa.

Quel femminismo però si scontrava con enormi difficoltà, prima fra tutte quella di far dialogare donne “situate”   in contesti differenti per  classe, razza e generazione.  Da una parte infatti, quel “personale/ politico”  così forte, ma anche così “incarnato” nella materialità delle singole vite, tendeva a disperdersi  in molteplici battaglie, a volte anche in contraddizione tra di loro. Dall’altra veniva risucchiato all’interno della politica istituzionale. Questo è successo nel corso degli anni novanta in Italia e  nel mondo.

Questo deve a mio parere essere tenuto in considerazione quando vogliamo rileggere la nostra storia che è personale, quindi fatta di memorie, coscienze, relazioni, ma anche politica. Su tutto questo c’è da anni un pensiero, non solo eurocentrico, e un confronto tra femministe, su cui però è calato il silenzio, forse perché è un pensiero scomodo per gli opposti antagonismi patriarcali o forse perché “eccede” il livello della politica tradizionale di destra e di sinistra.  Eppure quel “punto di vista”, anzi quella ricerca di un nuovo orizzonte di convivenza, potrebbe fornire una chiave di interpretazione anche ai concitati eventi che si sono susseguiti dopo la caduta del muro di Berlino,  potrebbe  interrogare le basi stesse dell’equilibrio “geopolitico”  mondiale, ovvero svelare come la forza e la paura siano tutt’oggi il paradigma ordinatore della relazione umana, da quella tra sessi a quella tra culture differenti o tra differenti poteri sociali.

Tuttavia quel personale/politico non è una teoria facile da declinare, soprattutto se la politica istituzionale si irrigidisce su vecchie formule e se il partire da sé, variamente coniugato, fa scattare la babele delle differenze. In Italia, ad esempio, la sinistra, meglio le sinistre, hanno reagito in modo ostile al femminismo, soprattutto negli anni novanta.  La fine della prima Repubblica ha interrotto lo schema di comunicazione che si era creato tra movimento femminista e rappresentanza politica per circa venti anni.

Le idee del femminismo sono state ascoltate solo fino a quando sono state funzionali alla nuova classe dirigente di donne politiche in formazione, poi maschi e femmine hanno  pensato di potersi finalmente liberare del fardello del femminismo (come di molti altri ismi) o, al più, di utilizzarne l’appeal. Tutto ciò emerse con grande chiarezza dieci anni fa durante la manifestazione a sostegno della legge sull’aborto del 3 Giugno 1995 “La prima parola e l’ultima”, quando un universo variegato di donne dette vita a una manifestazione molto efficace, ma controversa. Certamente  in quell’occasione noi femministe facemmo l’errore di pensare che  le nostre pratiche, ormai vissute soprattutto in luoghi associativi e ristretti, potessero tornare a manifestare al mondo una coscienza femminile che in realtà non si percepiva più come tale.

Il femminismo infatti,  nel mondo e in Italia in particolare, ha un grande respiro e necessita di tempi e spazi che spesso non coincidono con quelli della politica istituzionale. Tuttavia le femministe italiane hanno certamente fatto molti sforzi per trasformare la politica istituzionale e per confrontarsi con le nuove generazioni. Non sono dunque d’accordo sulla  supposta autoreferenzialità del femminismo.

Nel corso degli ultimi anni tutte le riviste e i giornali femministi ‘superstiti’ si sono sempre interrogati sugli incroci tra  la differenza sessuale e le differenze generazionali, razziali e culturali. Eppure i media, che, non solo in Italia, prendono in considerazione  solo quelle donne che fanno parte del movimento dei movimenti, sembrano non sapere che nel Forum Sociale non ci sono solo le Arundati Roy, o le donne della Marcia Mondiale,  ma anche specifici appuntamenti delle  femministe trans-nazionali.

Anche quest’anno a Porto Alegre, ad esempio, come l’anno scorso a Mumbai, ci sarà  un incontro con più di trecento di femministe “pensanti”.  Probabilmente, come è successo a Firenze nel 2002, anche loro saranno relegate in luoghi e in orari di minore importanza, secondo una precisa gerarchia voluta da chi organizza.

Le femministe dunque, soprattutto quelle storiche, continuano a parlare e lavorare, ma i loro sforzi, chissà perché, non sono considerati. Chi scrive, ad esempio, ha organizzato per due anni alla Casa Internazionale delle donne di Roma una serie di “dialoghi sulla globalizzazione” invitando donne di generazioni e di pratiche politiche differenti, in gran parte legate al movimento altermondialista.  Gli inviti non sono stati tuttavia ricambiati. Sembra dunque,  per tornare al dibattito sul silenzio del  femminismo, che le “pratiche” femministe più originali, quelle che continuano la svolta epistemologica della soggettività femminile, seppure essenziale per la  politica  contemporanea,  siano ancora troppo scomode. 

Quindi vale forse la pena di chiedersi e di chiedere se non è tanto l’autoreferenzialità a costituire il problema, quanto piuttosto la mancanza di un sistema di mediazione “politica”,  interrotto da più di dieci anni . Se così fosse, allora non è solo un problema tra femministe di varie generazioni, ma tra femministe e politici e politiche delle istituzioni e dei movimenti.