Processo alla 194: la donna «indotta»
di Eleonora Cirant


Milano, 14 gennaio 2006


La legge 194 non si tocca. Sui consultori, invece, non solo si può ma si deve intervenire. Perché è necessario «individuare i fattori che inducono la donna all’interruzione volontaria di gravidanza» e «promuovere la ricerca degli interventi che potrebbero indurre la donna a tornare indietro rispetto alla via intrapresa». Come? Anche attraverso un «aggiornamento della normativa sui consultori», facendo del consultorio un «filtro obbligatorio» da cui necessariamente deve passare la donna che incorre nel «dramma» dell’interruzione di gravidanza, magari dando a questi luoghi il «compito» di fare conoscere alla donna le possibilità offerte da «organizzazioni di volontariato che si propongono di sostenere le maternità difficili o non desiderate».

Lo dice il documento conclusivo approvato dalla Commissione per l’indagine conoscitiva sulla applicazione della legge 194 sull’interruzione volontaria di gravidanza e sul funzionamento dei consultori. Ricordate? Era novembre dell’anno scorso quando si apprese che il Ministro della Sanità, accogliendo la proposta formulata dall’Udc, aveva intenzione di avviare detta indagine. Fu la goccia che fece traboccare il vaso, la miccia che innescò la reazione popolare.

Il 14 gennaio duecentomila persone si riversarono nelle strade milanesi per ribadire che la libertà femminile è all’origine della vita, collegandosi con un ponte ideale alle cinquantamila che a Roma chiedevano l’approvazione dei Pacs. A indagatori e dissuasori, ma anche alla coalizione di centro-sinistra che si candida a governare, queste piazze colme, multi-etniche, inter-generazionali, poli-sessuali, hanno ribadito con voce forte e chiara che sulla libertà del vivere e del convivere indietro non si torna, si può solo andare avanti.

A fine gennaio la relazione conclusiva della Commissione d’indagine esce in sordina, al riparo da titoli di giornali troppo forti. Nel quadro tracciato dalla Commissione la donna non è mai indicata come soggetto che sceglie. Neppure una volta, per sbaglio. Alla faccia della libertà femminile, la donna è sempre «indotta». Fattori - che lo Stato o miracolose associazioni di volontariato dovrebbero rimuovere - la inducono ad abortire.

Un esercito di psicologi, assistenti sociali, mediatori culturali, militanti per la tutela del concepito dovrebbero essere mobilitati per indurla a cambiare strada. «Il collegamento in rete delle associazioni di volontariato con le strutture pubbliche consultoriali e ospedaliere e con tutti gli altri servizi socio-sanitari operanti sul territorio appare lo strumento più idoneo (…) a perseguire gli obiettivi di tutela della maternità e di prevenzione affermati solennemente - il documento dice proprio così - dalla legge n. 194».

Intanto veniamo a conoscenza, dallo stesso documento, che non si sa precisamente quanti siano i consultori esistenti in Italia. Altra grave mancanza è il dato preciso sul numero di medici non obiettori - cioè della percentuale del personale medico realmente disponibile ad effettuare interruzioni di gravidanza nelle strutture pubbliche - benché la stessa relazione indichi che «il massiccio fenomeno dell’obiezione di coscienza in talune realtà territoriali può avere un impatto negativo sulla possibilità di garantire l’effettivo svolgimento continuativo dei servizi, con conseguente fenomeno di mobilità verso altre regioni».

Al problema dell’obiezione di coscienza si aggiunge «un certo disinteresse delle giovani generazioni di ginecologi nei confronti della problematica dell’Ivg». Mentre la via dell’aborto legale e gratuito è ostacolata dalla mancanza di personale medico e paramedico, permane l’aborto clandestino, imputabile in primo luogo alle organizzazioni criminali dedite allo sfruttamento della prostituzione (per inciso va detto: la proposta di legge Bossi-Fini-Prestigiacomo sulla prostituzione rafforza il potere di tali organizzazioni eliminando la possibilità di un contatto diretto delle sex-workers con le unità di strada che operano portando informazioni e contraccezione), in secondo luogo alla «paura, ancora esistente in certe fasce di popolazione e soprattutto nei piccoli centri, le quali temono che, andando in ospedale, il ricorso all’Ivg possa essere di pubblico dominio, anche se la legge garantisce l’anomimato».

Il documento indica due ordini di problemi. Da un lato le difficoltà strutturali dei servizi socio-sanitari. Dall’altro la situazione psicologica dell’aborto inquadrata nella dimensione del dramma cui porre rimedio. Nell’uno e nell’altro caso si risponde con il necessario «potenziamento» dei consultori inteso come aumento del controllo finalizzato alla recessione della donna dalla scelta di abortire. Snodo cruciale è il colloquio che si svolge in consultorio nel momento della certificazione della gravidanza e della scelta di interromperla.

Intanto, le ultime manifestazioni hanno alimentato un fiorire di iniziative sul territorio. Se il tenore delle proposte in materia di maternità è quello appena descritto, a casa chi ci torna? Le riunioni si vanno moltiplicando in questa rinnovata stagione politica. Sia nel merito del fatidico «colloquio» che rispetto agli altri momenti collegati all’interruzione di gravidanza, i punti di discussione all’ordine del giorno sono tanti e densi.

Del «colloquio» si ribadisce che non deve essere mirato a capire perché la donna intenda abortire, ma perché si sia trovata nella condizione di gravidanza indesiderata. Il comportamento corretto è individuato nell’ascolto piuttosto che nella persuasione. Si possono certo offrire alternative, ma ove la donna lo chieda e nel rispetto delle sue scelte etiche (come previsto dalle leggi 194 sull’interruzione di gravidanza e 405/75 sui consultori familiari).

Si ragiona su come garantire la presenza minima di un numero di medici non obiettori in ospedale, sulla necessità di mediatrici culturali che diano alle donne straniere non solo informazioni che spesso il medico italiano non è in grado di offrire, ma anche l’accoglienza necessaria ad elaborare non l’interruzione della gravidanza come dramma, ma la gravidanza non voluta come espressione di un conflitto, spesso di un trauma. Si ragiona di spazi per parlarsi tra donne che stanno vivendo l’interruzione di gravidanza, per confrontarsi, per non trovarsi sole.

Ci si confronta su cosa si intenda per potenziamento del consultorio, su come si siano trasformati questi servizi dalle origini ad oggi, su quali siano le pressioni sulle operatrici, su come le donne vivano questi luoghi e quali richieste portino alla medicina. Si riconduce l’aborto nell’ambito della relazione tra i sessi, delle diverse forme di responsabilità maschile e femminile nella procreazione, dell’asimmetria tra uomini e donne nella riproduzione.

Si parla di questo e di molto altro, mentre accade qualcosa che non si vedeva, mi dicono, da anni. Le donne incontrano operatrici e operatori medici impegnati da tempo nel campo della salute riproduttiva. Ci si riunisce, ci si parla. Le operatrici dei consultori raccontano le difficoltà e le pressioni a non parlare, a non esporsi.

Nei quartieri si formano collettivi. Alle riunioni, le giovani dicono: lotto per un diritto che ho ricevuto e mi stanno togliendo; le meno giovani: sono qui a ribadire un diritto per cui ho lottato; le straniere: lotto con voi per difendere un diritto che non abbiamo mai avuto. Ci si conosce, ci si incontra, ci si confronta: “è ora di agire”.
 

questo articolo è apparso su Liberazione del 12 febbraio 2006