Punto dolente

Manuela Cartosio



“Prostituzione, anche noi donne ripensiamoci”, ha scritto Letizia Paolozzi (www.donnealtri.it) dopo la manifestazione del 13 febbraio. Si riferisce alle “ragazze di Arcore”, non alle nigeriane che battono il marciapiede, e mi piace pensare che l’invito veicoli una duplice ammissione.
1) Le giovani che vendono o usano il proprio corpo per soldi o per fare carriera nello spettacolo e in politica  (la prostituzione nell’era berlusconiana)  non svelano solo la miseria della sessualità e del potere maschile,  sono anche “un affare di donne”. Ci toccano, ci interpellano.
2) Le risposte che fin qui ci siamo date sono elusive, di comodo, insoddisfacenti.

Sulla prostituzione in senso stretto non c’è molto da ripensare, se non prendere atto che da un pezzo le migranti hanno rimpiazzato quasi del tutto le italiane, come è successo per altri lavori di cura.  Sono aumentati di conseguenza i rischi e la ricattabilità delle prostitute (tratta e racket): bollate da un doppio stigma (come donne e come straniere), sono perseguitate da campagne, ordinanze, leggi securitarie e xenofobe. Ciò rende più dura la vita delle prostitute e impervi  i tentativi fatti in passato di autorganizzazione e difesa dei loro diritti. Il rivolgimento nella composizione “etnica” non intacca l’analisi della prostituzione fatta a suo tempo dal movimento delle donne. Sul nocciolo di quell’analisi – mettere al centro la domanda maschile, non l’offerta femminile – tutte abbiamo convenuto. Semmai ci siamo divise tra chi considerava la prostituzione “un lavoro come un altro” e chi no.
Sulla prostituzione nell’era berlusconiana, esplicita nei festini alla corte del sultano e implicita nell’esibizione televisiva del proprio corpo, invece, c’è molto da pensare. Il punto da cui partire  è riconoscere che la folta schiera di escort, ragazze-immagine, veline, papi-girls, elette (o meglio nominate) per meriti sessuali un problema ce lo crea. Non lo possiamo scansare con l’alibi che nel berlusconismo – dove tutto è ridotto a merce – si prostituiscono (politicamente) anche i maschi, vedi la compravendita dei deputati per allargare la maggioranza.  E neppure sostenendo che la mercificazione umiliante e offensiva del corpo delle donne è responsabilità esclusiva del sistema mediatico-televisivo, saldamente in mani maschili.

Imbocca questa via di fuga  Lorella Zanardo nel documentario Il corpo delle donne. Nel libro che ne ha tratto scrive: “A me non preme affatto capire le motivazioni delle veline. A me preme capire perché c’è una tv che dà spazio a soggetti non interessanti che offrono un’immagine degradante delle donne… la responsabilità dello sfacelo tv non è da imputarsi a un centinaio di ragazzotte, immagino incredule di poter avere successo e denaro solo dimenandosi un po’”.
A me, invece, sembrano essenziali le motivazioni delle veline e delle decine di migliaia  - fossero solo un centinaio, non staremmo qui a parlarne - di “ragazzotte” che sgomitano per partecipare a un casting o delle escort. Giriamo al largo da quelle motivazioni perché, quando sono espresse,  la loro banalità e la loro adesione ai disvalori imperanti ci deludono, ci fanno cadere le braccia, smentiscono l’idea che di queste donne ci fa comodo avere.
Si può essere libere e scaltre imprenditrici di se stesse e, nello stesso tempo, schiave del consumismo e dell’apparire, opportuniste, competitive, complici e stereotipate replicanti di modelli machisti, per nulla trasgressive e conflittuali.
Si è costrette a mettere l’accento sul “libere”, dimenticando tutto il resto,  per non incrinare quella visione rosea e apologetica che fa discendere dalla fine del patriarcato solo passi in avanti per le donne. Ma il resto, a mio parere, pesa e conta; non è “riscattato” da una escort che si porta il registratore nel lettone di Putin o da una Ruby e una Minetti che potrebbero inguaiare Berlusconi in un processo che non si farà.
Detto altrimenti: la catastrofe antropologica che si è abbattuta sulla società italiana non ha risparmiato le donne. Abbiamo fatto dei passi indietro.

In due libri recenti registro questo arretramento negli aggettivi messi dopo la parola emancipazione.  Corpi liberati o corpi prostituiti?, domanda a proposito di escort e veline Lea Melandri (Amore e violenza, Bollati Boringhieri). Risponde: “Non è l’appropriazione del corpo di cui si parlava negli anni settanta, ma si tratta comunque di una forma di emancipazione, sia pure perversa e discutibile.” 
Silvia Cavaliere (Filosofia di Berlusconi, Ombre corte) applica la più drastica definizione di “emancipazione fallita” sia a Patrizia D’Addario che a Veronica Lario.  Nello stesso libro, Olivia Guaraldo usa l’espressione “emancipazione mancata”, sostiene che  la sbandierata libertà di disporre di sé e del proprio corpo è una nuova versione della sottomissione femminile, in linea con un patriarcato più morbido e meno oppressivo che però controlla ancora saldamente l’immaginario.
Dall’alto della sua libertà e autonomia Carla Corso (intervista all’Unità del 9 febbraio) sdogana una parola tabù per le femministe: “vittime”. Escort, veline, papi-girls sono “vittime di un sistema che le vuole anoressiche, mute, belle da guardare. Senza borse di Gucci o Prada si sentono niente”. (Idem  Adele Cambria sentita in tv qualche sera fa: “Mendicanti griffate da capo a piedi.”)  Alla domanda se vede in loro una qualche forma di contestazione la fondatrice del Movimento per i diritti delle prostitute risponde: “Macché, sono funzionali al sistema”. Un’espressione sessantottina che, da ex, quasi quasi sottoscrivo.

 

10-03-2011

 

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