Il senso del limite
di Maria Berrini


Artemisia Gentileschi

 

Non intervengo in questo seminario nella veste di tecnico del settore (ne' esperto di morale, filosofo della scienza, scienziato, specialista di tecnologie della riproduzione,…)
Io lo faccio cercando di tenere insieme - e penso che bene si tengano - alcuni pezzi della mia storia culturale e politica: laica di sinistra, movimento delle donne, ambientalista. A questo aggiungo quel tanto di esperienza personale che può servire a dare anche più "anima", se mi passate il termine, alle mie posizioni.
La mia qualifica in questa sede, "Comitato scientifico di Legambiente", bene rappresenta questa storia. Questo però non significa che io sia qui per esprimere posizioni univoche, conclusive e rappresentative di una posizione condivisa. Chi ci conosce sa che ognuno di noi è invece abituato a contribuire alla discussione, sollecitandola pubblicamente, mettendo gli argomenti sul tavolo, provando a offrire chiavi di lettura non scontate, liberi da posizioni precostituite.

Entriamo nel merito. Credo innanzitutto di interpretare un sentire diffuso quando sottolineo il fatto che alcuni di noi, forse molti, si erano sentiti un po' stretti nello scontro tra assolutismi che si era frettolosamente riversato sui giornali in fase di approvazione della legge 40 e nella prima fase della battaglia referendaria. Oggi, proprio grazie al referendum e al ruolo svolto da alcuni media, sembra invece aprirsi uno spazio per i nostri punti di vista e per una riflessione più utile, che potremmo cercare di rimettere in gioco, anche nel dopo referendum.

Parto dall'Ambientalismo, intanto, dal nostro ambientalismo.
Noi siamo quelli dell'ambientalismo scientifico, abbiamo fiducia nella scienza come fattore di innovazione e miglioramento. Ma allo stesso tempo siamo consapevoli che, dietro alla naturale tendenza della ricerca scientifica a svilupparsi, interessi fortissimi premono perché essa prenda una direzione e non altre. Pensate al ritardo con cui si affermano alcune linea di ricerca "buone" (le rinnovabili, l'idrogeno, …). Pensate a quali interessi economici e politici ruotano intorno allo sviluppo e al monopolio di determinati prodotti e tecniche (al nucleare, così come alla ricerca sugli organismi geneticamente modificati).
Su tutti questi temi abbiamo da sempre offerto dati ed argomenti e tenuta aperta la discussione.
Perché non dovremmo allora sollevare argomenti e domande analoghe pensando all'intreccio di interessi in gioco nella partita che si ruota intorno alle tecniche di procreazione medicalmente assistite ? Perché non dovremmo avere il diritto di dubitare sulle ragioni profonde di tanto interesse sulle tecniche di riproduzione della vita, da parte dell'industria farmacologica e della classe medica ?
Fa parte della nostra storia, del nostro "codice genetico" (passatemi ancora il termine) porre il problema della necessità di trasparenza sui fini della ricerca, dell'importanza del dibattito e del controllo.

Siamo anche portatori del "senso del limite", e del "principio di precauzione". Approcci che abbiamo adottato per argomentare per esempio sulla necessità di porre limiti all'uso delle risorse energetiche fossili e di rifiutare l'utilizzo di determinate tecniche in assenza di dati certi sui loro effetti. Posizioni non irrazionali, ma frutto della nostra capacità di analisi oggettiva dei fenomeni e quindi per questo in grado di intuire in anticipo i rischi di alcune scelte, da altri negati tenacemente salvo poi ricredersi a danni già realizzati.
Perché allora non affrontare anche questo tema, quello della "procreazione medicalmente assistita" come molti altri, con la libertà di usare parole come limite, divieto, controlli, tutele, gradualità ?

Questo modo di pensare si intreccia certamente anche con il mio essere laica, profondamente, nel senso più pieno del termine, per storia famigliare e per scelta individuale.
Per me, ma credo anche per altri, i principi etici non sono dogma immodificabile definito da entità superiori (Dio, Chiesa o fosse anche la Scienza o la Filosofia con le maiuscole), ma risultato dell'evoluzione di valori e culture umane e quindi soggette a scelte, a cambiamenti nel tempo. Ma se i valori - e quindi anche i limiti - possono sicuramente evolvere, le scelte che ne fissano i nuovi confini devono essere libere e consapevoli. Ho quindi il diritto ad essere informata. Ho il diritto di stare in un paese in cui scelte come queste siano frutto di libero confronto tra le persone. E allora ben venga il referendum se è l'unico strumento per aprire questo confronto.

Inoltre per me l'etica non è, solo, un fatto individuale, ma è base indispensabile di convivenza collettiva. Mi sento, credo con altri, convinta sostenitrice dell'etica della responsabilità, per la quale il senso di ciò "che è giusto per me" si intreccia fortemente con ciò "che è giusto per gli altri", come le culture diverse dalla nostra, le generazioni future, le altre specie che stanno al mondo. Spero per questo di non essere tacciata di relativismo, ma semplicemente coerente con le mie radici ambientaliste e di sinistra.

Ma il tema della procreazione assistita mi tocca anche perché ci sono passata vicino, perché frequento altre donne.

Faccio un passo indietro. La mia riflessione non nasce adesso. Nel 1987, l'anno successivo alla vicenda di Chernobyl, si erano susseguiti numerosissimi gli incontri tra donne, che in modi diversi si erano sentite chiamate ad esprimere e ad arricchire la critica alla scienza già avviata dal movimento ecologista. Si sentiva il bisogno di una svolta. Scrivevamo sulla Rivista Scienza ed Esperienza: "Serve una svolta in direzione di un "sapere" che condizioni un "saper fare" che procede troppo rapidamente. Un nuovo sapere che promuova la capacità di prevenire i rischi, un sapere che privilegi, nel suo procedere, la massima correggibilità delle scelte".
Ci sentivamo nella posizione giusta, perché storicamente escluse, per poter criticare quello che Elisabetta Donini chiamava "il delirio di onnipotenza dell'homo faber" e "il progetto di dominio sulla natura proprio della scienza moderna". Scriveva la Donini : "Dal '600 in poi varcare tutte le possibili colonne d'Ercole è stato sempre l'insegna irrinunciabile del progresso, quasi un valore in sé, fuori da ogni criterio di efficacia pratica".
E così, nel pieno dei lavori di avvio della "Conferenza sull'energia" e alle soglie del Referendum sul nucleare, 250 donne (ne conservo ancora l'elenco) firmavano un appello nato in ambito "del movimento verde" ma con ricadute trasversali agli schieramenti, e intitolato "la Parola alle donne" che, oltre al resto, diceva "Non siamo disposte a dimenticare Chernobyl e quei giorni: il dubbio, la preoccupazione…, il senso di espropriazione…Crediamo sia possibile scegliere una società che escluda i pericoli prevedibili, che escluda l'idea di rischi accettabili. Crediamo nella scienza come mezzo per avere maggiore consapevolezza dei nostri limiti, non come presunzione di onnipotenza. "
Consideravamo con diffidenza anche chi era incaricato di garantire salute e controlli pubblici - ricordate Rivolta e Zambeletti ?, chi invece ci aveva paternamente rassicurato dicendoci "tutto è sotto controllo", pochi giorni dopo la nube, nel pieno delle sue ricadute sull'Italia del Nord.

A partire da quello slancio, - e dalla vittoria al referendum - il lavoro tra di noi era proseguito. Le nuove scienze, quelle che andavano a esplorare e forzare "le ultime colonne d'Ercole" si sviluppavano sotto i nostri occhi: ingegneria genetica, riproduzione della vita. E si intrecciavano strettamente, ancora una volta con le nostre vite concrete, corpi inclusi.
Quel lavoro di confronto tra donne è culminato in un convegno dal titolo "Madre Provetta - Le donne si interrogano sulla riproduzione artificiale".
Erano tempi non sospetti, nel senso che il tema era ignorato dai più, le ricadute politiche ancora non esplicite. Eravamo donne, appartenenti all'area della sinistra e al movimento ambientalista. C'era la redazione de la Nuova Ecologia, dirigenti e socie di Legambiente e molte donne delle Liste Verdi.
Avevamo costituito il GATRA, Gruppo di Attenzione sulle Tecniche di Riproduzione Artificiale. Rivendicavamo quindi, il diritto al dubbio e alla riflessione, mettevamo l'accento sui rischi connessi all'artificializzazione dei comportamenti riproduttivi.
La nostra discussione era completamente fuori dallo schema dello scontro tra dogmi teologici e neutralità e positivismo scientifico. Anzi nel pieno di quel lavoro, ricordo il nostro sconcerto e il nostro alzare la voce, contro l'appello firmato da 15 ecologisti, a sostegno del documento dell'allora cardinale Ratzinger sulla manipolazione genetica, appello tanto appiattito sulle posizioni della Chiesa da essere immediatamente raccolto dal Movimento per la Vita per proporre ai Verdi una campagna contro la 194.

Noi invece avevamo ribaltato la chiave di lettura, mettevamo al centro le donne e i bambini che sarebbero dovuti nascere con queste tecniche.
Raccoglievamo dati ed esperienze sulla fatica fisica, sui rischi sanitari per le donne che utilizzavamo le tecniche di riproduzione assistita.
Ci interrogavamo sulla sostenibilità - sociale e psicologica - della diffusione di queste tecniche. Ci chiedevamo che conseguenze avrebbero avuto sull'identità dei bambini che sarebbero nati, sulla tenuta delle relazioni affettive.
Ci chiedevamo quanto c'era di nostro, di vero in questo desiderio di "figli a tutti i costi" e quanto invece la domanda fosse indotta da un intreccio complesso di interessi, incluso il "delirio di onnipotenza dell'uomo faber" e il paternalismo del "tutto sotto controllo" di cui avevamo avuto prova nella vicenda di Chernobyl. Senza dimenticare anche l'invadenza della pressione sociale e culturale che (in Italia più che mai) riconosce dignità e valore simbolico solo alla filiazione genetica e alla potenza riproduttiva.
Proprio per questo, prima ancora che parlarne con teologhe e biologhe (che comunque non mancavano nei nostri incontri), ne discutevamo con storiche, sociologhe, psicanaliste, ginecologhe (ricordo nomi come Pizzini, Vegetti Finzi, Fiumanò, Parolari e molte altre).
Leggevamo insieme i libri dei primi "pentiti" della riproduzione artificiale. Dalle esperienze che ci arrivavano dall'estero e dai primi casi italiani scoprivamo che il ricorso alle tecniche non corrispondeva sempre ad una vera necessità clinica, ma spesso era il risultato dell'ansia dettata dal ritardo "biologico" con cui le coppie si avvicinavamo alla ricerca di una gravidanza.
Alla totale assenza di un'informazione scientifica seria sui rischi di infertilità derivanti dall'inquinamento atmosferico e alimentare, dal fumo, dal rimandare dopo i trent'anni la ricerca del primo figlio, si sostituiva una pratica medica a dir poco frettolosa, che offriva soluzioni apparentemente capaci di miracoli. Le tecniche si sviluppavano velocemente, ma nessuna ricerca medica rispondeva a domande come queste: Quali sono i rischi legato all'uso di ormoni induttori dell'ovulazione ? Quanti cicli di stimolazione ovarica sono accettabili per la salute di una donna?
Pochissima informazione circolava sul bassissimo grado di successo, sul fatto che moltissime cause della sterilità erano più complesse e comunque non potevano essere risolte con quelle tecniche. A fronte delle grida di estasi davanti ai nuovi miracoli, il silenzio regnava sovrano sul fatto che moltissime donne erano spinte in modo inconsapevole ad affrontare un percorso irto di fallimenti, il più delle volte destinato all'insuccesso e quindi tanto più doloroso.
Le donne si trovavano ad essere le vittime - molto poco consapevoli - di vero e proprio accanimento terapeutico.

Insomma ci andavamo formando l'idea che gli interessi per la ricerca sugli embrioni (o anche solo per lo sviluppo delle Tecniche riproduttive) anche fossero legittimi, potessero creare artificiosamente la domanda, alimentare le illusioni, forzare i desideri. E vi assicuro che quando si desidera un figlio senza riuscire a farcela, il desiderio non è un sentimento semplice, è un fiume in piena che ti travolge, che ti trasforma in un soggetto debole, disposto a credere ad ogni promessa, a regalare consenso a qualsiasi informazione, purchè abbia il sapore della speranza.
Ci domandavamo quindi se la ricerca scientifica avesse trovato il modo di eludere l'ostacolo della nostra naturale diffidenza verso i rischi di manipolazione della specie connessi alla ricerca sugli embrioni, facendoci "complici" , approfittando del nostro legittimo desiderio.
Non erano davvero domande astratte, ed erano in perfetta linea di continuità con le riflessioni femministe ed ecologiste sui limiti da assegnare alla ricerca scientifica, proprio in virtù del principio di precauzione e del rispetto del corpo delle donne.
Volevamo per esempio, che le donne che non erano affette da sterilità accertata si potessero chiedere se la procreazione medicalmente assistita fosse davvero l'unica strada. Se non fosse meglio guardarsi dentro, capire se c'erano paure che nei fatti bloccavano quel desiderio. Meglio capirle, prima di forzare le nostre resistenze a botte di ormoni. Volevamo essere informate di quanto fosse rischioso rimandare negli anni la scelta della maternità applicando a noi stesse il senso del limite. Volevamo provare a capire quali altre forme dare alla voglia di maternità.

Volevamo quindi che venisse fatta chiarezza, che si producesse soprattutto informazione e cultura, indipendente da quella che alimentava le ragioni della pratica medica e della ricerca scientifica.

Volevamo - o almeno cominciavamo a discuterne la necessità - una legge, perché ci rendevamo conto che senza regole le donne erano esposte a pressioni e ad interessi che non erano i loro.
Avevamo soprattutto la consapevolezza che soluzioni legislative andavano comunque trovate, proposte e non delegate ad altri. Credo di ricordare che in quegli anni cominciarono a circolare primi testi, in cui si cercava di dare "corpo legislativo" ai principi che avevamo discusso.
Voglio dire che siamo state noi per prime a sostenere la priorità di una legge che promuovesse la prevenzione e garantisse principi come il consenso informato, la richiesta di una diagnosi seria di sterilità, la gradualità nell'uso delle tecniche (che possono essere psicologiche, mediche, chirurgiche, di semplice sostegno all'ovulazione o all'inseminazione, prima di ricorrere alla fecondazione in vitro). Una legge che sanzionasse i medici che a questi principi non si uniformavano, dando così il giusto riconoscimento ai tanti che invece si impegnavano per una pratica coscienziosa e rispettosa delle donne.
Io ritenevo -e ritengo ancora- che una legge su questo argomento dovesse nascere innanzitutto per garantire questo genere di tutele e per questo motivo le prime formulazioni discusse in Parlamento - frutto di alleanze trasversali tra le donne - mi erano sembrate di grande coraggio.

Se quelle garanzie fossero presenti nell'impianto originario della legge 40 non so, purtroppo so che esse sono state successivamente schiacciate e stravolte da un altro disegno, dove il dogmatismo religioso ha avuto la meglio.
All'art.1 della Legge 40, dove si dovrebbero affermare le Finalità di tutela della salute delle donne, si è invece prepotentemente introdotto lo statuto dell'embrione (e la sua assimilazione a persona umana), addirittura ancora prima del suo impianto nel corpo della donna (nel dibattito contro l'aborto non ci si era spinti a tanto).
Quello che non può che essere un dogma religioso, o una semplice opinione, pur rispettabile, ha invece preteso di determinare tutto l'impianto della legge, invadendo ogni articolo in cui gli embrioni siano nominati. L'effetto è stato prima di tutto quello di vietare il congelamento degli embrioni e quindi imporre alle donne un numero maggiore di stimolazioni ormonali, considerato che la probabilità di successo è direttamente proporzionale al numero di volte in cui ci si sottopone all'impianto. L'ansia, la fretta - e qualche pressione indebita di medici poco scrupolosi - finirebbero così per considerare "più efficiente" la pratica della fecondazione dei tre embrioni per volta, ma con il rischio di pericolosi parti plurigemellari.
Il dogma della tutela dell'embrione si impone punitivo, là dove si vieta, in caso di gravi malformazioni che emergessero dalla diagnosi prenatale, la possibilità di rinunciare all'impianto in un momento in cui la sofferenza emotiva di chi è coinvolto dalla scelta sarebbe minore che nell'unica fase che rimane consentita (quella successiva, ricorrendo all'aborto in virtù della 194).
C'è un'ipocrisia enorme in tutto questo. In nome di una teorica difesa della vita si nasconde ciò che è noto da sempre alla pratica medica e cioè che la sopravvivenza dell'embrione è ampiamente determinata dalle "leggi della natura" (il caso, la selezione), che il percorso che porta dal concepimento alla conclusione della gravidanza è un percorso denso di fallimenti.

Detto tutto questo, e lo dico anche a sostegno di una posizione che chiede un radicale e complesso ripensamento della Legge 40, trovo però assolutamente fuori luogo che la battaglia referendaria venga fatta in nome della "libertà terapeutica di medico e paziente e della "libertà di ricerca scientifica".
Vale ricordare che per esempio che il limite massimo dei tre embrioni, messo in discussione, in alcune argomentazioni referendarie, da medici forse troppo ansiosi di risparmiare sui tempi, rappresenta invece un esempio di un possibile sforzo di tutela verso le donne.
Non mi convince per esempio che la battaglia per introdurre il diritto di accesso a queste tecniche per chi ha malattie genetiche debba essere fatta indebolendo il principio che obbliga a garantire un accesso graduale alle tecniche e un accertamento rigoroso dell'infertilità.
Così come voglio che la battaglia sul diritto alla ricerca e alla sperimentazione sulle cellule embrionali definisca con chiarezza, se è in grado di farlo e garantirlo, i livelli di precauzione e i limiti da rispettare, in considerazione dei rischi, dei costi e dei benefici effettivi.
Non mi convince affatto l'idea di dover creare le condizioni di massimo sostegno e copertura per chi vuole ricorrere all'eterologa, senza pormi anche il problema di come regolarne gli esiti, sociali e psicologici. Voglio il tempo di capire come tutelare i diritti del bambino che verrà, per il quale (scrive la psicanalista Vegetti Finzi) "la cancellazione dell'origine e la sua sostituzione con una menzogna", rappresenta un'esperienza psicoanalitica traumatica. Voglio - ancora una volta - poter obiettare all'idea di una società che non riuscendo ad accettare l'impossibilità di farci diventare tutti quanti genitori biologici, in sostanza preferisce ignorare il limite, nascondendolo.
Cito ancora la V. Finzi che a sua volta cita Rodotà "La legislazione in materia di bioetica non può perseguire la fuga dal dolore e la realizzazione del desiderio".
Con questo non sostengo che il tema dell'eterologa debba restare per sempre un tabù invalicabile, ma vorrei una riflessione più seria.
Lo stato e la legislazione sicuramente, non devono punire le scelte morali dei cittadini, ma le scelte morali dei cittadini - se diventano sentire collettivo - possono tradursi in legge allo scopo di rendere espliciti i limiti che ci si è dati, di tutelare i soggetti deboli, di indirizzare le risorse pubbliche sulle priorità collettivamente individuate.
Una legge non è per sempre. Una legge difficilmente può affrontare e risolvere una volta per tutte tutti i problemi. Ma una legge migliore, per alcuni aspetti ha bisogno di essere accompagnata da una crescita della coscienza collettiva, dalla condivisione di valori, dal confronto di esperienze concrete.

Per la cronaca, io oggi, grazie ad un'adozione, ho tre figli e sono la mamma più felice del mondo.

6-06-2005